Piccoli Musei: Musei e volontariato. Caterina Pisu fa chiarezza: Caterina Pisu, Coordinatore Ricerca e Comunicazione dell'Associazione Nazionale Piccoli Musei, che sul suo blog e sulla sua pagina Fa...
Un dibattito costruttivo
Il dibattito su La Notte dei Musei e l'impiego dei volontari, animato da Alessandro D'Amore sul suo blog http://leparoleinarcheologia.wordpress.com/, e dalla sottoscritta, da queste pagine, non è passato inosservato e si spera che abbia offerto soprattutto lo spunto per una disamina del problema più serena e costruttiva.
A tale proposito, ringrazio Sara De Carli che su Vita.it ha riportato alcuni stralci delle opinioni espresse da me e dal collega D'Amore nei nostri rispettivi blog.
Ancora a proposito di #no18maggio
Prosegue il dibattito sull'opportunità o meno di dare vita ad una protesta degli archeologi collegata alla Notte dei Musei del prossimo 18 maggio.
Per leggere l'inizio della discussione vi rimando al link:
Caro Alessandro, è un piacere avere l’opportunità di discutere questi temi così importanti che purtroppo spesso sono ignorati dall’opinione pubblica. Questo è anche il motivo per cui sono dispiaciuta che queste energie siano state bruciate per una occasione che a mio parere non riuscirà a mettere in evidenza i problemi reali della nostra professione e che, come ho già scritto, potrebbe dimostrarsi fuorviante per i media e per il pubblico in generale.
In questi giorni mi è capitato di leggere alcuni articoli postati su blog o sui giornali locali in cui l’appello del MiBAC è interpretato da tutti come rivolto ai professionisti che sarebbero stati invitati a prestare il proprio lavoro gratuitamente. Non è così, perché il MiBAC si è rivolto alle associazioni di volontariato e non ha certo indetto un bando per chiamare archeologi, storici dell’arte, ecc., a prestare la propria opera a titolo volontario e gratuito. Questo il testo dell’appello del 23 aprile: «Apriamo alla collaborazione del mondo del volontariato per migliorare la fruizione del patrimonio culturale durante la Notte dei Musei 2013. Per maggiori dettagli potete chiamare al numero di tel. 06/67232197». Non si cercano professionisti e questo è il punto. Come poter innestare una protesta efficace su un comunicato che, in concreto, non richiede alcuna prestazione professionale altamente specializzata? Il ricorso ai volontari in queste occasioni, continuo a ripeterlo, è una consuetudine che non scandalizza nessuno in ogni parte del globo. Ho fatto una ricerca su internet in inglese e, se non mi è sfuggito qualcosa (potrebbe anche essere naturalmente), non ho trovato casi di contrasto tra volontari e professionisti in altre parti del mondo. Probabilmente perché compiti e competenze sono ben chiare e distinte.
Nessuno impedisce a uno studente di archeologia o anche ad un neo-laureato di fare un po’ di esperienza mediante il volontariato, anzi, in alcuni casi può anche essere una opportunità formativa interessante, ma questo non vuol dire farsi sfruttare. Lo diventa se il laureato, una volta acquisita coscienza della sua professionalità continua a prestare la propria opera gratuitamente. Ma questa, allora, è una responsabilità personale.
Credo che siano molto più diffusi e molto più gravi, piuttosto, i casi di archeologi sfruttati, questo sì che è un termine che si può usare, da cooperative che sottopagano i propri collaboratori o che talvolta si dimenticano perfino di remunerarli. Questo non è volontariato, è sfruttamento del lavoro professionale, ed è contro queste realtà che bisogna reagire con forza, per esempio cercando di organizzarsi sindacalmente, dato che, se non mi sbaglio, per ora il lavoro dell’archeologo nei cantieri di scavo è regolato dalle norme che riguardano il comparto edile, e forse bisognerebbe pensare a proteggere la categoria con norme più specifiche e adeguate. E se ci fosse una tutela sindacale specifica si potrebbe anche impedire alle associazioni di volontariato archeologico di svolgere compiti che esulano dagli ambiti del puro volontariato e che sottraggono occasioni di lavoro ai professionisti.
Tutto questo per sottolineare che la questione degli archeologi è molto complessa e non può essere banalizzata con un slogan sbagliato che penalizza ulteriormente la dignità della nostra professione, paragonandola a occupazioni molto meno specializzate. Non si tratta di creare dei “compartimenti stagni”, ma di definire correttamente il ruolo e le competenze di un archeologo. Faccio un esempio: un medico se vuole, per necessità o per stravaganza, può anche fare il portantino, ma ciò non significa che questa “anomalia” determini un’estensione delle funzioni del medico alle pulizie degli ambulatori, che diventano conseguentemente un compito suo di diritto. Questo non significa essere “elastici”, vuol dire creare il caos.
E chi scrive è una persona che ha vissuto il disagio essere stata sottostimata per la propria professione, sentendosi dire perfino da un sindaco che “quella dell’archeologo è una professione curiosa”. Puoi ben immaginare se io non sono indignata quanto voi per la poca stima che circonda la nostra categoria. Proprio per questo considero #no18maggio un’occasione sprecata in cui non c’è stata ponderazione ed è mancata una vera pianificazione che lanciasse una protesta comprensibile e capace di colpire nel segno. A me è sembrato che sia prevalsa soprattutto l’emotività e forse anche un po’ di improvvisazione. Una protesta incisiva necessita di altre premesse e, soprattutto, la circostanza in cui svolgerla deve essere scelta con la massima cura perché sarà questa a caratterizzare il movimento di protesta. Per me #no18maggio continua ad essere una scelta infelice e non un’occasione colta al volo.
Se vogliamo davvero che “il Paese si riappropri della sua Storia e anche del Valore economico che questo, di fatto, costituisce per restituirli ai Cittadini tutti”, non possiamo impedire che i volontari offrano il loro contributo soprattutto in queste occasioni, proprio perché la cultura deve essere partecipativa. E i musei, se non hanno bisogno di dieci custodi perché durante il resto dell’anno possono conteggiare solo un numero esiguo di visitatori, devono per forza ricorrere ai volontari in occasioni straordinarie.
E’ necessario un maggior controllo istituzionale questo sì, perché, all’opposto, è inammissibile che musei che hanno due visitatori al giorno, abbiano uno staff di 20 custodi, come è stato messo in rilievo dalla stampa riguardo il caso dei musei della Regione Sicilia, nel 2011. A volte il ricorso ai volontari, quindi, rappresenta anche un risparmio di denaro pubblico. Si può obiettare, invece, quando musei di una certa importanza (chiaramente non mi riferisco ai piccoli musei civici o ai musei privati) utilizzano continuativamente i volontari, ma qui si entra in questioni che riguardano la gestione dei musei che sono troppo complesse per poter essere affrontate in poche battute. In questi giorni ho letto affermazioni estreme quali: “se i musei non possono assumere personale (riferendosi alla Notte dei Musei!) allora che restino chiusi”. Ma ci si dimentica che la guardiania è spesso affidata alle società che gestiscono i servizi aggiuntivi ed è da queste che bisognerebbe pretendere l’assunzione di personale, cosa che non sarà facile dato che queste società devono necessariamente far quadrare i propri bilanci. E’ molto recente, per esempio, la notizia delle difficoltà di Zétema che, pur essendo a rischio di scomparire, “vittima” della spending review, è stata criticata proprio per aver assunto 22 custodi in questo clima di incertezza. Personale che a breve resterà senza lavoro.
E’ molto difficile, quindi, dar vita ad una protesta che riguarda la categoria degli archeologi, facendola poggiare su un terreno ancora più complicato e insidioso, come quello museale. Mi concentrerei, piuttosto, sui problemi che riguardano molto più direttamente l’ambito archeologico e che sono già sufficienti per avanzare lamentele più che fondate.
Non intendo, con questo, convincere nessuno di coloro che entusiasticamente aderiscono a #no18maggio, ma spero almeno di aver fornito qualche spunto per ampliare il dibattito e pensare ad azioni future maggiormente mirate.
Grazie per l'opportunità che mi hai dato di replicare e di dare vita a questo interessante dibattito!
Caterina
Musei liberi e non politicizzati: la realtà britannica
di Caterina Pisu
Nel 2001, la giornalista e
scrittrice Josie Appleton, scrisse un articolo che potrebbe sembrare disorientante
per i museologi, in maggioranza assertori convinti dell’importanza del ruolo di
mediazione e di inclusione sociale dei musei nell’ambito delle comunità.
In
realtà, un po’ di autocritica non fa mai male e allora mi sembra opportuno
riportare qui il pensiero della Appleton che, a distanza di anni, può risultare
ancora di una certa attualità, sebbene le sue considerazioni facciano specifico
riferimento all’ambito britannico e ad un determinato momento storico.
Il tema che
oggi propongo è il primo di una serie che desidero dedicare al ruolo sociale
dei musei, in vista del Quarto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei, in
programma ad Assisi 11-12 novembre 2013, in cui si affronterà, tra gli
altri, anche questo argomento, in relazione ai cosiddetti “musei di quartiere” (v. qui il programma provvisorio).
Nell’articolo intitolato “Museums for the people”, pubblicato su http://www.spiked-online.com/site/article/10827/,
la Appleton si chiedeva perché l’inclusione sociale fosse diventata una delle
finalità perseguite dai musei, in realtà non per una spinta venuta dall’interno
del settore museale, ma a seguito della politicizzazione dei musei (si fa riferimento, come già accennato, al Regno Unito).
A seguito della pressione del
governo New Labour, infatti, non solo musei e gallerie, ma anche altre
istituzioni pubbliche, come gli ospedali, le università e le scuole, furono
incoraggiati a considerare l’inclusione sociale come una delle proprie funzioni
essenziali. Fu così che i musei cominciarono a riorganizzarsi cercando di
occuparsi il più possibile delle relazioni con la comunità.
Per la Gran Bretagna dei New
Labour la parola “inclusione sociale” sembrava essere di gran moda, ma restava
comunque un concetto oscuro, non pienamente compreso, che nasceva piuttosto da
un’ansia del pericolo di frammentazione sociale e dalla possibilità che
potessero esistere individui isolati, senza un proprio scopo nella vita, e che
quindi dovevano assolutamente essere aiutati. Laddove esistono persone abbandonate a se stesse è più alto, infatti, il livello di criminalità, più
basso il livello culturale e la pratica di attività sportive. In sostanza, si
possono creare situazioni o fasce sociali in cui la qualità di vita è molto
bassa.
Per ovviare a questo
inconveniente, il Dipartimento britannico per la Cultura, i Media e lo Sport
(DCMS), adottò una strategia che vedeva i musei e le gallerie coinvolti in prima
linea nell'impegno sociale, tesi a responsabilizzare le persone nel saper
individuare il loro posto nel mondo e nel riuscire a svolgere un ruolo attivo
nella società.
Il Group for Large Local Authority Museums (GLLAM) sostenne questa strategia, nella convinzione che i progetti
di inclusione sociale generino maggiore autostima, fiducia e creatività,
contribuendo a sviluppare una vita sociale più attiva e soddisfacente.
Ma perché i musei hanno così
prontamente adottato tra le proprie funzioni primarie, l’inclusione sociale?
Forse perché, secondo la Appleton, la professione museale in quel momento,
quando il partito del New Labour saliva al potere, stava vivendo uno stato di
profonda crisi e di confronto aspro con il resto della società.
I musei avevano un grande bisogno
di auto-giustificare la loro esistenza perché per almeno una decina d’anni erano stati messi
sotto processo dalla società per il loro ruolo di “badanti” e per la loro
troppo stretta connessione con lo studio e l’interpretazione di “oggetti”, che
li aveva tenuti isolati dalla concretezza della vita reale.
Le critiche erano state talmente dure che, a destra, l’ex Primo Ministro Margaret Thatcher aveva definito
i musei “inutili”, e pertanto aveva cercato di “modernizzarli” e di renderli
più “efficienti”, introducendo le logiche del marketing per la loro gestione e
per la valutazione dell’efficacia del lavoro svolto. A sinistra, invece, si
continuava ad attaccare i musei, considerandoli istituzioni tenute in vita da
élite ideologiche che tendevano ad escludere le masse.
A questo punto, il Dipartimento per
la Cultura, i Media e lo Sport dovette affrontare con decisione la crisi di
identità dei musei. L’ordine del giorno fu, oltre che rendere esplicita la
volontà di politicizzare i musei, il suggerimento di individuare, ogni anno, un
tema sociale da mettere in luce e approfondire attraverso mostre o altri eventi
di questo tipo.
Durante gli attacchi rivolti alla
categoria, molti professionisti museali erano rimasti in silenzio. Forse erano
talmente demoralizzati che i progetti di inclusione sociale a quel punto
sembravano necessari non solo al pubblico ma soprattutto a se stessi. Grazie a
questi progetti, infatti, il personale dei musei cominciò a sentirsi più utile e
necessario, e a ritrovare nuove energie. Qualcuno affermò di sentirsi “più
connesso”, “più integrato” nell'ambito della comunità, forse più vicino alla
realtà di quanto non fosse prima, quando si occupava solo delle collezioni
espositive.
Ma questa nuova funzione del
museo era realmente un bisogno dei professionisti museali e della società o era
stata imposta dall'esterno, dopo la demolizione del vecchio modello di museo, e
poi attivamente promossa dalle nuove élite museali?
Nel Regno Unito le nuove
generazioni di dirigenti museali avevano ricevuto la loro formazione soprattutto
nei master della Leicester University; alcuni di essi provenivano dagli studi
storici sociali che avevano una chiara impronta di sinistra e avevano iniziato
le loro esperienze professionali presso i musei di enti locali. Essi
propendevano, dunque, alla partecipazione attiva della gente comune nelle
attività promosse dai musei.
Consentire ai visitatori di
diventare una parte importante del lavoro di un museo o di una mostra, venne
visto come una necessaria e radicale trasformazione dei musei in direzione dei
bisogni della società.
Peter Jenkinson sembrava quasi
citare “Stato e rivoluzione” di Lenin
quando descriveva le “fasi della caduta del potere” dei professionisti museali conclusasi
con la soluzione finale più radicale, forse utopica, della creazione di un
museo veramente autonomo e popolare, non
più in mano ai professionisti museali.
E’ curioso – afferma la Appleton
- che i musei specialistici potessero ipotizzare addirittura l’eliminazione dei
professionisti museali a favore di una gestione collettiva dei musei!
In realtà, lungi dal determinare
trasformazioni sociali così radicali, questi progetti hanno avuto il merito soprattutto
di far sentire meglio le persone con se stesse. Nel contesto storico del
declino industriale, la storia sociale dei musei aveva contribuito a rinnovare l’orgoglio
della gente attraverso la riscoperta e il racconto delle loro storie, proprio
nel momento in cui sembrava che l’orgoglio non esistesse più.
E’ significativo che nel 1983, nonostante
fosse stato perso un referendum promosso per tentare di tenere aperto un museo
a cielo aperto in un villaggio minerario del Galles, l’anno seguente fu
ugualmente istituito un museo del villaggio che evidentemente era considerato
irrinunciabile per i curatori e gli amministratori della cittadina. Il curatore Gaynor Kavanaugh affermò
che “essere senza storia è come essere
ignorato e dimenticato. Un posto riconosciuto nella storia significa ritrovare
la propria autostima e i propri valori”.
Bill Silvester, che aveva
istituito the Abbeydale Industrial Hamlet a Sheffield nel 1970, disse a sua volta che “l'idea era di dare un museo ai lavoratori e
ai loro figli, con lo scopo di ripristinare l'orgoglio, troppo spesso negato o
rubato da altri, e di lasciarlo in eredità”.
I progetti di inclusione sociale hanno
sempre cercato, dunque, di trasmettere la percezione che la collezione del
museo appartenga ai membri della comunità, i quali hanno contribuito a
raccontare la propria storia e quella del proprio territorio.
Il punto è che cosa succede
quando i progetti di inclusione sociale diventano parte di un programma di
governo. A questo punto non è più il direttore di un museo che autonomamente
decide di aumentare l’autostima degli individui della comunità in cui opera, ma le
nuove élite museali promuovono questi progetti per veicolare le politiche
governative in ambienti per lo più a rischio.
E la Appleton a questo proposito
cita, come esempio, il progetto tessile per le donne asiatiche del Birmingham
Museum and Art Gallery che, con il pretesto di coinvolgere le donne nella
creazione di tessuti ispirati alle collezioni del museo, ha operato un’indagine
tra esse incoraggiandole a parlare della loro salute mentale. Sarebbe stato
difficile, infatti, che queste donne si rivolgessero spontaneamente a degli
assistenti sociali, ma un’attività culturale
ha facilitato questo lavoro di utilità sociale.
E si possono citare anche altri
casi di progetti simili rivolti a varie categorie sociali “a rischio”. Questa
trasformazione del ruolo del museo all'interno della società trasforma
inevitabilmente anche i contenuti del museo: i progetti di integrazione sociale,
in pratica, potrebbero anche ignorare le attività su cui è stato "costruito" il
museo stesso. Il rischio, allora, è quello di creare una distorsione dei
principi fondamentali sui cui poggia l'istituzione museale. Il ruolo tradizionale
del museo, di raccolta, studio ed esposizione dei manufatti, ha sempre avuto una
solida base nella società; i collezionisti e l’establishment accademico sono
stati coinvolti in questa attività e hanno sviluppato gli standard e le
modalità di valutazione del lavoro dei professionisti museali. Ciò ha dato al
museo una struttura ben definita, una sua ragion d'essere, e in tutto questo l’esposizione
degli oggetti era la base sostanziale attraverso la quale il museo si metteva
in relazione con il suo pubblico.
Oggi, la funzione di inclusione sociale,
essendo stata presa in consegna dalla politica - afferma la Appleton, può apparire poco ben definita,
priva di un senso di direzione chiaro, non fondata su pratiche sperimentate e
consolidate. Ciò determina spazi di interpretazione troppo ampi e talora
ambigui.
Il Rapporto del Group for Large
Local Authority Museums sull'inclusione
sociale, che fa riferimento all'ambito dei musei locali che sono in prima linea
in iniziative di questo tipo, riferisce che “la definizione di inclusione sociale è problematica; è 'difficile da
vedere e difficile da cogliere nel suo insieme; è un concetto che può essere definito
e utilizzato variamente dal governo e dai diversi enti locali”.
Quando un concetto è “sfumato” o “sfocato”,
la tentazione è quella di usare il righello per definirlo meglio. Il Group for
Large Local Authority Museums ritenne che fosse necessario dare impulso a studi
trasversali per precisare innanzitutto lo spettro d’azione più coerente in cui
poteva essere attuata una politica di inclusione sociale, cercando poi di
puntualizzare le metodologie e gli standard di lavoro da utilizzare in questo
ambito. E’ vero, però, che anche il sistema più elaborato e preciso che sia
in grado di misurare l’impatto sulla società dei progetti di inclusione
sociale, non risolverà il nodo fondamentale che è quello delle motivazioni.
Le comunità, infatti, sono formate da persone che
decidono spontaneamente se condividere alcuni aspetti della loro vita, non
dietro una sollecitazione “ben orchestrata” e, soprattutto, con finalità
politiche.
La conclusione della Appleton è
dunque che sia i politici che i musei sarebbero fortemente aiutati in questo
discernimento se la politica cominciasse
ad apprezzare i musei innanzitutto perché essi esistono e sono una realtà concreta,
inserita nelle nostre società, cui non è necessario imporre dall'alto la direzione
da seguire.
Specialmente in quest’ultimo punto mi trovo molto d’accordo con Josie
Appleton. I cambiamenti culturali non si possono imporre con un decreto
governativo, ma i musei, se sono percepiti come espressione e memoria della
collettività, potranno trovare in se stessi le motivazioni per una
trasformazione più o meno radicale, alla ricerca di modelli più adeguati ai
tempi ed anche alle nuove esigenze sociali, senza rinunciare alle proprie
peculiarità.
I governi si dovranno preoccupare soprattutto di sostenerli con risorse adeguate e di favorire l'apporto di sempre nuove energie professionali, ben qualificate.
Una risposta al collega Alessandro D'Amore
Rispondo qui alla replica del collega Alessandro D'Amore al mio articolo "Muoia Sansone con tutti i Filistei". Il post di Alessandro può essere letto nel suo interessantissimo blog Le parole in archeologia.
Caro Alessandro, ho appena letto
il tuo intervento, molto articolato, e che necessita, quindi, di una altrettanto
compiuta risposta, anche per chiarire alcuni concetti che, soprattutto nel mio
articolo pubblicato su ArcheoNews lo scorso autunno, citato nel mio precedente post, credo di aver in parte già focalizzato.
Io non ho
mai negato che possa esserci un impiego improprio del volontariato, e proprio
perché il problema esiste, in occasione del IX Congresso Internazionale degli
Amici dei Musei, tenutosi a Oaxaca, in Messico, dal 21 al 25 ottobre 1996 si
evidenziò con particolare attenzione questo rischio: “Evitare
sovrapposizioni. Gli amici e i volontari possono trovare negli ambiti
d’intervento non affidati al personale permanente del museo un terreno
privilegiato in cui esercitare le loro iniziative e devono prestare attenzione
onde evitare che le loro attività non si sovrappongano a quelle esercitate dal personale
responsabile”.
Nel caso in cui questa clausola non venga
rispettata, allora si è in pieno diritto di protestare e di esigere l’adempienza
delle norme che regolano il lavoro dei volontari.
Ora, il fatto che il MiBAC si
sia appellato ai volontari per aiutare a tenere aperti i musei il 18 maggio,
fornendo assistenza ai visitatori, significa invadere qualche specifico campo
professionale?
Si tratta di una funzione da archeologo o da storico dell’arte o
da museologo o da antropologo? Non mi sembra.
Il fatto, come tu dici, che nell’ultimo concorso MiBAC per assistenti
alla vigilanza, il 90% dei partecipanti alla selezione fossero “archeologi specializzati, dottori di
ricerca, parlanti fluentemente due o tre lingue”, non significa che quello
sia diventato all’improvviso un lavoro da archeologo.
E' la necessità di
lavorare che costringe le persone non solo ad accontentarsi di fare i custodi nei
musei, ma anche di fare i commessi nei supermercati o i venditori porta a porta, ma nessuno direbbe che quelli sono lavori che devono fare gli archeologi, e il fatto che il lavoro di custode si svolga in un museo non modifica questa realtà. In un museo si lavora anche nelle caffetterie o si fanno le pulizie o si gestisce il bookshop. Ma l'archeologia è un'altra cosa.
Perciò, bisogna assolutamente evitare, innanzitutto, di creare confusione tra i
vari ruoli, e i primi a farlo dobbiamo essere noi se non vogliamo che la nostra
professione sia considerata inferiore ad altre che sono ritenute
indispensabili per la società, e quindi molto più rispettate.
Noi siamo
archeologi, non custodi di museo, questo è il primo punto da mettere bene in
chiaro. Quanto al significato del termine “volontario” rispetto all'altro termine “reclutato”, scusami, ma è una sottigliezza che non comprendo: i
volontari devono essere informati della necessità del
loro servizio e mi sembra che utilizzare i social networks sia un modo per
raggiungere rapidamente un’ampia platea di persone. Niente di più, niente di
meno.
L’unico appunto che si può fare
al MiBAC è che, forse, impauriti dalla reazione dei professionisti al loro
appello, non sono riusciti a mantenere la lucidità necessaria per fornire le
corrette giustificazioni e hanno dato l’impressione di “annaspare” in acque
agitate.
Il vostro errore, invece, a mio
parere, è stato quello di organizzare una protesta che si fonda su argomentazioni
sbagliate, perché in realtà la Notte dei Musei non c’entra proprio niente con i
nostri problemi, che non sono certo legati all’impiego dei volontari in questa
circostanza.
C’è il rischio, come ho già detto, di creare confusione e
contrapposizioni che non saranno comprese, perché è inutile che lo si neghi, ma
se lanciamo un hashtag #no18maggio, significa che non vogliamo la Notte dei
Musei perché il lavoro dei volontari abbiamo diritto di farlo noi!
Questo è il
messaggio che stiamo dando. E poi pretendiamo che la gente capisca che cos’è l’archeologia?
Perché non fare una protesta
altrettanto vigorosa quando un concorso di dottorato si rivela non molto “trasparente” o quando in un concorso universitario per una docenza, la scelta cade sul candidato
meno preparato? Perché si tace quando talvolta si viene trattati da “piccoli servitori”
da alcuni docenti che sfruttano anche il nostro lavoro durante un dottorato?
Io
penso che tutto ciò sia molto grave, molto più grave di un volontario che viene
chiamato a fare il custode in aiuto del personale strutturato. Eppure non si
muovono le folle per questo tipo di ingiustizie che costringono tanti a
lasciare la professione o a emigrare all’estero.
Ma certo, se noi, dopo tanto studio e tanti sacrifici,
ci accontentiamo di contendere il lavoro di custode nei musei ai volontari,
allora vuol dire che forse noi stessi non abbiamo capito bene quali sono i reali problemi
della professione.
Caterina Pisu
"Muoia Sansone con tutti i Filistei"
L’amarezza per le situazioni critiche cui conduce una professione sfruttata e sottostimata come quella dell’archeologo o dello storico dell'arte non deve portare allo scontro con la cultura partecipativa: il caso della Notte dei Musei
di Caterina Pisu
L’argomento è diventato ancora
più attuale da quando il MiBAC,
dalla propria pagina Facebook, tempo
fa ha lanciato un appello alle organizzazioni di volontariato affinché si
rendessero disponibili durante la Notte dei Musei 2013, che si svolgerà
il prossimo 18 maggio.
La notizia ha provocato l’immediata reazione soprattutto di archeologi e
storici dell’arte che hanno interpretato l’appello come l’ennesimo tentativo di
sfruttare i professionisti della cultura.
In realtà l’apporto dei volontari in
questa circostanza sarà unicamente di supporto al personale che, nei casi di
afflusso di pubblico maggiore rispetto all’ordinario, potrebbe rivelarsi
insufficiente, causando disagi soprattutto ai visitatori.
Si tratta, quindi,
di svolgere una semplice funzione di assistenza al pubblico, fornendo qualche
spiegazione, così come fanno normalmente i custodi di un museo; niente che
abbia a che fare con la professione dell’archeologo o dello storico dell’arte
che, chiaramente, quando hanno la fortuna di lavorare, solitamente svolgono
compiti completamente diversi e altamente specializzati.
Il primo aspetto negativo, dunque, è quello di ingenerare confusione nelle
persone, le quali così accomuneranno la nostra professione ad altre che richiedono
un minor grado di specializzazione. Certamente non tutti potranno capire come
mai se gli operatori dei servizi di custodia non hanno avanzato vigorose
proteste in questa circostanza, essendo i più diretti interessati all’impiego
dei volontari nel loro ambito di lavoro, se ne siano preoccupati, invece, archeologi e
storici dell’arte che normalmente svolgono compiti completamente diversi. Si tratta di una
sorta di autogol, di una auto-dequalificazione del proprio ruolo professionale.
E allora da dove nasce la protesta? Certamente da un’onda emotiva. Il
disagio dei professionisti della cultura è comprensibile: troppo spesso queste
professioni sono sottostimate e sfruttate. Ma per mettere in atto una protesta
che sia giustificata e, soprattutto, che sia chiara anche per il resto della
comunità, non si poteva scegliere occasione peggiore.
Innanzitutto, per quanto
si sia cercato in vari modi di evitare di entrare in aperto contrasto con il
mondo del volontariato, di fatto si vuole impedire che la cittadinanza possa compiere liberamente il proprio impegno civico, che è un diritto sancito dalla nostra Costituzione (Art.
2). Pertanto, in un periodo storico come l’attuale, in cui parole come “condivisione”
e “partecipazione” sono sempre più sentiti come un’esigenza irrinunciabile, andare
contro corrente è rischioso e attirerà antipatie verso la protesta di
archeologi e storici dell’arte.
In secondo luogo, si è criticato perfino il modo con cui il MiBAC ha
lanciato l’appello, cioè attraverso i social network. Questa affermazione
sbalordisce ancora di più, soprattutto perché è pronunciata da chi, in genere,
appartiene al “popolo del Web”, cioè da quelle generazioni che ormai sanno
vivere con disinvoltura la comunicazione virtuale e ne conoscono i vantaggi in
termini di veicolazione di contenuti e di notizie. Quali strumenti sono migliori
e più democratici dei social network?
Il volontariato: in alcuni Paesi, come il Regno Unito, è uno "stile di vita" non in contrasto con il mondo professionale. |
La sensazione è che questi professionisti, eterne vittime di una politica
che ha sempre penalizzato le professioni culturali, vogliano trascinare nella “rovina”
tutto il mondo della cultura. “Muoia
Sansone con tutti i Filistei”, che importa se non ci saranno più eventi
come la Notte dei Musei o altri simili, che hanno il pregio di coinvolgere
tutti e di diffondere l’amore per il nostro patrimonio culturale?
Badate, non sono le motivazioni di base della protesta che sono
sbagliate, ma lo è la circostanza! Su Twitter è stato lanciato l'hashtag #no18maggio
che sarà interpretato come un veto ai volontari e come un tentativo di bloccare
ogni forma di partecipazione attiva da parte della comunità.
Perché #no18maggio, ovvero “No
alla Notte dei Musei”, un evento che si svolge in ogni parte del mondo con l’apporto
prezioso dei volontari? Mi si spieghi che cosa c’entra questo con la causa
degli archeologi e degli storici dell’arte.
Ma attenzione, se non si sgombrerà
il campo dagli equivoci e non si cercherà di essere più che convincenti, eliminando
ogni rischio di confusione tra quelle che sono le reali funzioni di archeologi
e storici dell’arte rispetto ai compiti di un volontario, sarà più difficile
che in futuro i problemi della categoria possano essere compresi e condivisi dal resto
della comunità.
I musei nell'era di Facebook e Twitter: istruzioni per l’uso
di Caterina Pisu
I musei moderni sono necessariamente
obbligati a confrontarsi e ad adattarsi alla circolazione sempre più intensa di
informazioni e di immagini attraverso il web?
Un articolo di Yasmin
Khan del giornale britannico The Guardian ha riportato il parere di alcuni esperti.
Il dibattito è aperto e nel Regno Unito ci
si chiede a quale personaggio di Dickens si potrebbero paragonare, oggi, i
musei britannici: a una Miss Havisham, imprigionata in un vecchio abito da
sposa dentro una camera coperta di ragnatele, oppure all'imprenditore Fagin, preoccupato
di aumentare la sua influenza sull’intera città? In Italia potremmo accostare una
parte dei musei più tenacemente affezionati alla comunicazione tradizionale, a
un Don Abbondio, timoroso di avventurarsi in situazioni più grandi di lui che
metterebbero in pericolo le tranquille certezze del suo quotidiano.
Il The Guardian fa riferimento al
convegno organizzato dall’Università di Leicester, "Museums in the Information Age: Evolution or Extinction?", svoltosi a
Londra, presso il Science Museum, cui hanno partecipato alcuni esperti del
settore museale. Si è cercato di capire se i musei stiano effettivamente
rispondendo al progresso tecnologico nell’ambito della comunicazione o se,
invece, siano in ritardo. Si è discusso soprattutto della necessità di adeguare
i musei anche a nuove forme di fruizione dei beni culturali, grazie alla
digitalizzazione delle immagini. A questo riguardo, Carole Souter, della Heritage Lottery Fund, ha affermato: - “I musei hanno bisogno di evolversi se
vogliono mantenere un ruolo rilevante in questo particolare momento storico. Ciò
vuol dire che devono anche essere attenti a quella parte di pubblico che non
può venire fisicamente al museo, per esempio mettendo a disposizione online le
collezioni esposte nel museo e dando la possibilità anche ai non esperti di
partecipare alle discussioni postando i loro commenti”.
Per sua stessa ammissione, Ian Blatchford, direttore del Science
Museum, afferma di avere sempre svolto il ruolo di “vecchio parruccone”, concordando
sì con la necessità che il museo si orienti verso una evoluzione digitale, ma anche
confutando la certezza che le mostre digitali possano realmente sostituirsi in
modo efficace a quelle reali: - "La
tecnologia digitale non dovrebbe in ogni caso modificare il senso di identità
di un museo, le cui finalità e funzioni dovrebbero rimanere le stesse"
- ha continuato Blatchford - "Molte
delle attività tradizionali che si svolgono nei musei, come le borse di studio,
la cura per le collezioni e le esposizioni museali, oggi sono più che mai
rilevanti e si riflettono anche nella crescita del numero di visitatori."
“In un'epoca in cui il flusso di informazioni è ridondante,
l'autenticità e la fiducia hanno ancora più importanza per le persone.” -
ha aggiunto – “Non dobbiamo scambiare quello
che il pubblico vuole veramente con quello che noi pensiamo che
dovrebbe volere.”
D’altronde, “è nel DNA di un museo evolversi” - sostiene Ross Parry, docente presso la University of Leicester's School of
Museum Studies. – “Il museo moderno ha
inevitabilmente cambiato la sua struttura, alcuni aspetti legati alle sue stesse
finalità e ai rapporti con il pubblico, così come l’impostazione intellettuale
che dà senso alle sue collezioni. Probabilmente Robert Cotton, Hans Sloan,
Henry Cole e Oppenheimer non riconoscerebbero più i musei che hanno contribuito
a creare.”
Quest’ultima asserzione è
assolutamente condivisibile: il museo è sempre stato lo specchio della società
nel tempo; un museo ottocentesco non è più in grado di rappresentare le
comunità dei nostri giorni. Ed essendo, la nostra, l’epoca della comunicazione
globale, dovrebbe essere del tutto naturale, direi fisiologico, che i musei sentano la
necessità di una maggiore interazione e capacità di dialogo con i visitatori e le
comunità di riferimento, sebbene uno sguardo sereno e obiettivo non potrà non
rilevare anche una enfatizzazione della questione, soprattutto in questi ultimi
anni, sia in Europa che oltreoceano[1].
In parte, la necessità di
allargare il proprio pubblico attraverso le tecnologie della web communication, potrà trovare le sue motivazioni anche nelle trasformazioni sociali degli ultimi decenni che hanno visto,
e vedranno ancora di più in futuro, una considerevole contrazione demografica a
fronte di un aumento del fenomeno dell’immigrazione nei Paesi industrializzati.
E si è notato che questo fenomeno si accompagna all’instaurarsi di abitudini
diverse, tra le quali un minor consumo culturale. Attraverso varie indagini
condotte fino ad oggi, si calcola che entro 25 anni si avrà un collasso delle
visite museali dell’ordine del 20% circa[2].
Anche l’impoverimento generale, dovuto alle gravi crisi finanziarie degli
ultimi tempi, produrrà senza dubbio altri cambiamenti delle abitudini sociali
che coinvolgeranno anche i musei.
Il bisogno di rinnovamento,
quindi, è giustificato ed è realmente urgente trovare nuovi modelli di
fruizione per salvare le tradizioni culturali, senza “mummificare” le nostre
istituzioni museali ma anche senza sconvolgerne la naturale vocazione. Si è riconosciuta
nella “rivoluzione del web 2.0” una
delle “ciambelle di salvataggio” che potranno modernizzare rapidamente i musei,
ma è necessario comprendere attraverso quali modalità ciò potrà avvenire. Il
web 2.0 può essere anche un ambiente insidioso perché alla sua capacità di coinvolgere
milioni di persone e di rendere la ricerca delle informazioni del tutto nuova
rispetto a decenni fa (grazie alla possibilità di accedere simultaneamente a un
gran numero di fonti, all’interscambio di dati e di contenuti, all’utilizzo degli
strumenti del project management 2.0), si accompagna, simultaneamente, il
rischio di autoreferenzialità o peggio di “protagonismo”, o ancora il pericolo di restare affascinati da «strategie
persuasive» prodotte dall’informazione che fa «rumore»[3].
E gli esempi più recenti ci vengono, per esempio, dalla politica. Grazie al web
sono nati movimenti politici, sono scoppiate sommosse (il pensiero va alla
primavera araba), e sempre più spesso la “piazza virtuale” si sostituisce agli
ambiti istituzionali tradizionalmente vocati al dibattito politico. Ma possiamo
dire che si tratta realmente di trasformazioni profonde del sistema politico o
si è semplicemente sostituito il vecchio slogan che animava le manifestazioni
degli anni Settanta e Ottanta con i più moderni “tweets”? Gli slogan, si sa, entusiasmano
le folle, riescono a muoverle all’unisono sia che si tratti di compiere una
rivoluzione sia che si debba semplicemente partecipare ad un flash mob; ma
oltre questo ci deve essere qualcosa di più: contenuti, proposte, progetti.
Altrimenti si rischia che gli slogan restino solo parole, e che le rivoluzioni
si trasformino non in un cambiamento ma soltanto in uno spostamento di poteri
da una forma di autorità tradizionale ad un’altra che è del tutto simile alla
precedente se non peggiore.
In ambito culturale si può
affermare che il rischio è più o meno simile. L’autoreferenzialità è un
pericolo costante e può avere come conseguenza la diffusione di contenuti non
corretti, ma ugualmente convalidati dall’approvazione del popolo del web. L’istituzione
museale può svolgere senza dubbio un ruolo importante nella verifica dei
contenuti, tanto più efficace quanto più è consolidata la sua autorevolezza
negli specifici settori di specializzazione. Questo ruolo del museo non è
inconciliabile con il sistema di relazioni che questo intreccia con il proprio
contesto di riferimento, tenendo conto, appunto, dell’importanza sempre
crescente che ha assunto il visitatore del museo nella creazione e diffusione
di contributi “dal basso” che lo hanno reso «protagonista attivo e partecipe ai processi di valorizzazione del
museo, finanche nella fase della loro progettazione[4]».
La qualità dell’informazione può certamente coesistere, anzi è opportuno che lo
sia, con la libera partecipazione della collettività. Questa operazione, così
come altre legate alla comunicazione museale, non può svolgersi in modo “astratto”
ma necessita di figure professionali specifiche che sono, appunto, i comunicatori museali, e che riassumono,
innanzitutto, quelle che sono le competenze proprie di un esperto di comunicazione,
ma non solo. Altrettanta importanza è data, per esempio, alla conoscenza delle
dinamiche turistiche. Ma dal punto di vista della formazione, c’è ancora una
separazione tra le scienze del museo e gli «insegnamenti
relativi al turismo ed ai cambiamenti in atto nel settore, in cui è facilmente
collocabile anche una ridefinizione del ruolo e delle funzione del museo
stesso. Rispetto alla tradizionale idea di “luogo di conservazione” ci si sta
avvicinando a quella di “strumento di comunicazione”, rivolto ad un pubblico di
soggetti sempre più ampio» [5]. Il cambiamento dovrà partire, dunque, anche da una riprogettazione della formazione universitaria.
I rischi nel web di cui si è trattato finora non sono solo quelli legati
a ciò che viene scritto ma riguardano anche l’uso delle immagini e i diritti
derivanti dalla proprietà intellettuale. Quando la legge pone dei limiti alla
libera circolazione di questi contenuti, in qualche modo va ad imbrigliare la
libertà di Internet e il diritto di accedere gratuitamente alle informazioni. Un
superamento di questa barriera alla libera fruizione dei dati, è rappresentata
dagli Open Data, cioè i dati prodotti da vari enti, resi accessibili a tutti in
formato aperto, tra i quali sono
incluse anche informazioni finora rimaste inaccessibili al pubblico, come i dati
provenienti da musei, librerie e archivi[6].
Tuttavia non sempre l’accesso agli Open Data è garantito in forma totale e non
di rado si riscontrano reticenze o restrizioni alla diffusione dei dati. Talvolta
ci possono essere ragioni economiche dietro questi modi di agire, anche quando
si tratta di immagini fotografiche autoprodotte. In alcuni musei, per esempio, il
divieto di fotografare riguarda sia i turisti che gli studiosi e gli studenti,
per cui per motivi di studio e di ricerca si è costretti a sborsare svariate decine di euro per ottenere un file
di archivio e molti di più per le foto ex novo[7],
tariffe di gran lunga superiori a quelle richieste da altri musei europei. Si
tratta di restrizioni che certamente dovranno essere modificate o del tutto
abolite. Se alcuni musei consentono lo scatto di fotografie e non sono stati
riscontrati problemi per la regolare fruizione della
visita, non si vedono ragioni perché il consenso non possa essere esteso a
tutti. La stessa crescente diffusione di smartphone, tablet e macchine
fotografiche digitali, sono un invito a fotografare e condividere le immagini;
continuare a imporre divieti che potevano forse ancora essere accettati dieci
anni fa, è anacronistico e autolesionistico per i nostri musei.
[1] V.
Falletti, “Ripensare il museo” in V.
Falletti, M. Maggi, “I musei”, Il
Mulino 2012, p. 60
[2] M.
Maggi, “Le sfide” ” in V. Falletti,
M. Maggi, “I musei”, Il Mulino 2012,
p. 185
[3]
“Autenticità e verità nella cultura
dei social network”, L’Osservatore Romano, 25 gennaio 2013)
[4]
L. Sollima, “Il museo in ascolto. Nuove
strategie di comunicazione per i musei statali”, Rubbettino 2012, p. 25
[5]
“Rapporto di analisi comparata basata su
peer review”, Rapporto di ricerca dell’Università La Sapienza di Roma,
30/07/2011, p. 3. La ricerca ha considerato in che modo i musei di quattro
paesi (Italia, Bulgaria, Romania, Regno Unito) si stanno preparando ad
affrontare le trasformazioni che coinvolgono la loro stessa missione: « le istituzioni museali pubbliche e private –
e soprattutto quelle di dimensioni medie e piccole – paiono risentire
dell’impatto della congiuntura economica sfavorevole nel momento stesso in cui
viene a definirsi – anche in modo problematico – una nuova funzione del museo:
accanto a quella tradizionale di tutela, conservazione ed esposizione degli
oggetti, si sta infatti sempre più facendo strada la concezione del museo anche
come spazio pubblico, luogo di espressione dell’identità e di fruizione
culturale, polo attrattivo per un vasto pubblico. In sintesi, è in atto un
processo per superare la dicotomia tra conservazione, da un lato, e dall’altro
valorizzazione dei patrimoni».
[6]
Tra i
progetti di Open Data che riguardano più direttamente le istituzioni culturali,
si ricorda, per esempio, Europeana.
[7]
“Guardare ma non scattare”, dal blog
di Michele Smargiassi, Fotocrazia (http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2011/02/08/guardare-ma-non-scattare/)
Quarto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei
Piccoli Musei: Quarto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei: il programma provvisorio del convegno nazionale che si svolgerà ad Assisi, l'11-12 novembre 2013, è ora sul blog dei Piccoli Musei.
I MOOCs applicati ai musei: le nuove frontiere della fruizione museale
di Caterina Pisu
Leggendo un post di
David Greenfield dal suo blog View from a Blog,
mi sono molto interessata all’applicazione degli ultimi sviluppi dell’e-learning
all’ambito museale. David Greenfield inizia con la considerazione che le visite
ai musei sono sempre un’esperienza molto coinvolgente. Che si tratti della
visita di una mostra temporanea o di una galleria, che si segua un percorso
proposto dai curatori o dagli operatori didattici, o che si compia autonomamente,
costruendo, in tal modo, un nostro personalissimo modo di vedere quella esposizione,
in ogni caso ne trarremo sempre grandi vantaggi. Quando si ha la possibilità di
vedere i luoghi e gli oggetti nelle proprie reali dimensioni, dal vivo, potendo
osservare materiali e dettagli, l’intelletto e la curiosità dei visitatori sono
catturati e affascinati molto più che dall’osservazione sul web di immagini
ridimensionate. In ogni caso, per facilitare l’esperienza di visita, i
professionisti museali cercano di progettare e ottimizzare i siti web anche per
la realizzazione di pre-visite, che aiuteranno poi la visita reale, offrendo dei
punti di riferimento e delle conoscenze preliminari.
Ma non tutti potranno
prendere parte alla visita reale: costi e distanze possono creare ostacoli
difficili da superare a molti potenziali visitatori dei musei. Questo
rappresenta uno dei punti critici da risolvere.
Un aiuto può venire dai
recenti progressi del web: il continuo sviluppo e l'integrazione dei media digitali,
ovvero l’uso del web e dei social network, possono fornire alcune soluzioni interessanti
e innovative a questo problema o almeno possono cercare di ricreare alcune
delle condizioni che si verificano durante lo svolgimento di una visita
guidata. Durante queste visite, per esempio, coloro che vi partecipano creano delle
comunità temporanee nelle quali viene condivisa la prospettiva di interpretazione
delle opere o, più in generale, dell’allestimento, così come proposto dalla
guida, aggiungendo, però, anche il proprio punto di vista o sollevando
questioni. Si crea, così, un dialogo tra la guida e i visitatori che consente
lo scambio di informazioni, osservazioni e la ricerca di risposte alle proprie
curiosità.
La domanda è: può
essere attuato il trasferimento di un tipo di esperienza analogo anche alle
visite on-line? Si è accennato al fatto che alcuni musei stanno già sviluppando
strumenti web che funzionano come pre-visita. Sebbene questo sia un importante servizio
messo a disposizione dei migliori siti web dei musei, bisogna dire che in
realtà questo non supera tutte le limitazioni alla fruizione del museo che
penalizzano i potenziali visitatori impossibilitati a raggiungere fisicamente
il museo.
La proposta, dunque, è
quella di utilizzare le possibilità offerte dai MOOCs (Massive Open On-line
Course) che consentono la partecipazione interattiva su larga scala e l’open
access attraverso il web. In pratica i MOOCs sono capaci di integrare i
punti di forza dei social media (web 2.0) e del web semantico (3.0).
Per comprenderne meglio
l’utilizzo, dobbiamo collocare questo strumento nell’ambito dell’e-learning, di
cui il MOOC è l’ultima frontiera che si traduce,
appunto in “massive open online course”, cioè corsi online gratuiti e aperti a
tutti. Da poco tempo è possibile accedere a questi corsi gratuiti, online, da
molte università in tutto il mondo. Su You Tube è disponibile un video che
spiega molto chiaramente il funzionamento dei MOOCs:
In Italia, l’Università
La Sapienza di Roma è il primo ateneo ad essere entrato nel progetto Coursera,
lo spin off universitario nato nell’aprile del 2012 su iniziativa di due
docenti dell’Università di Stanford, Daphne Koller e Andrew Ng, con l’obiettivo
di creare uno spazio sul web dove chiunque possa partecipare a corsi on-line
gratuiti su diverse materie.
Rispetto a corsi online di tipo tradizionale, un MOOC si basa sul presupposto che il grande numero di partecipanti costituisca il punto di partenza per lo sviluppo di elevate connessioni e interazioni, elemento fondamentale per la divulgazione dell’apprendimento. Inoltre i MOOCs, che sono gratuiti, richiedono una partecipazione attiva nella produzione e nel repackaging di contenuti. E questo richiama moltissimo il funzionamento degli attuali social media.
Rispetto a corsi online di tipo tradizionale, un MOOC si basa sul presupposto che il grande numero di partecipanti costituisca il punto di partenza per lo sviluppo di elevate connessioni e interazioni, elemento fondamentale per la divulgazione dell’apprendimento. Inoltre i MOOCs, che sono gratuiti, richiedono una partecipazione attiva nella produzione e nel repackaging di contenuti. E questo richiama moltissimo il funzionamento degli attuali social media.
E i musei? In ambito
museale si possono utilizzare le potenzialità del MOOC per creare un ponte tra
le esperienze reali e quelle on-line: in tal senso, esso può essere usato come
sito stand-alone (cioè capace di funzionare in modo indipendente) per emulare l’esperienza
di una visita guidata. I visitatori connessi on-line avrebbero la possibilità
di esplorare, condividere, interpretare e creare dei contenuti all'interno di
una comunità di persone con i loro stessi interessi.
Il MOOC può anche essere
utilizzato come piattaforma per la creazione di mostre virtuali che, oltre agli
evidenti vantaggi economici, permetterebbe, per esempio, di mostrare quelle
opere che sono conservate nei magazzini, offrendo ai visitatori ulteriori
approfondimenti della produzione di un artista, di uno stile o di un determinato
periodo. Si possono creare, inoltre, mostre di opere d’arte o manufatti che
sono disseminati in tanti musei, in varie parti del mondo, che altrimenti
difficilmente potrebbero essere viste simultaneamente. Si possono anche formare
dei sotto-gruppi, all’interno di una comunità, per coloro che sono interessati
a discutere argomenti ancora più specifici, per esempio determinate opere o movimenti
artistici, storici, ecc. ecc. Le possibilità di utilizzo sono veramente
illimitate.
Forse la visita di una mostra
on-line potrebbe non essere così appagante come l'esperienza reale, ma le
funzioni del MOOC, per mezzo delle connessioni e delle interazioni su cui si
basa il sistema, sono in grado di ricreare ciò che avviene durante una visita
reale, quando si formano comunità temporanee tra le persone che vi partecipano;
e questo è il primo passo per rendere la visita on-line più vicina a quella on-site.
Mi viene in mente l’esempio
citato da Umberto Eco nel suo articolo “Il
museo nel terzo millennio”: l’idea di un museo trasportabile, fatto non di
opere originali, ma di immagini proiettate dei capolavori dei più importanti musei
del mondo, per permettere a tutti di vedere ciò che probabilmente non potranno
mai raggiungere fisicamente. Un’idea concepita dall’architetto Konrad Wachsmann,
condivisa da Eco, per il quale il museo del terzo millennio sarà “sempre inedito, sempre capace di offrirmi
nuove sorprese”. E forse questo è l’obiettivo che si potrà raggiungere con
le nuove tecnologie, grazie al superamento delle distanze e alla possibilità di
mettere in connessione tra loro milioni di persone.
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"Se occhio non mira, cuor non sospira"
Ma alcuni turisti in visita al MET si sono accorti, invece, che non avrebbero dovuto pagare il biglietto d'ingresso: intentata una causa contro il famoso museo di New York
di Caterina Pisu
E’ di questi giorni la notizia
che il Metropolitan Museum of Art di New York è stato citato in
giudizio, accusato di aver ingannato i visitatori: sembra che la maggior parte di
essi non avesse idea di poter visitare gratuitamente il museo e che la quota “consigliata”
di $ 25 (prima del 2011 era di soli $ 5) fosse facoltativa.
La causa, secondo l’agenzia di stampa
Reuters, sarebbe stata intentata da due turisti cechi e da un associato del museo,
i quali incolpano il MET di aver fatto ricorso a informazioni ingannevoli e ad
altri metodi per far credere che i visitatori dovessero pagare per poter
entrare. Un reclamo era stato presentato anche alla fine dello scorso anno
da due associati del museo che sostenevano che la segnaletica del museo è
fuorviante per il pubblico.
Il prezzo di 25 dollari “consigliato”
per l’ingresso si applica soltanto agli adulti, mentre per gli anziani sopra i
67 anni è di $ 17. I bambini sotto i 12 anni possono entrare gratuitamente
se accompagnati da un adulto.
Il museo si è giustificato
affermando che con il bilancio in perdita è difficile fare fronte alle continue
sfide imposte dal momento attuale, anche a causa della notevole diminuzione del
supporto finora assicurato dalle istituzioni pubbliche.
Negli Stati Uniti, i prezzi
d'ingresso ai musei d'arte variano grandemente da un museo all’altro, ma in
ogni caso sono quasi sempre molto più alti, per esempio, rispetto al prezzo di
un biglietto del cinema. Insomma, in qualche modo un lusso per pochi. In alcuni
musei, dove non c’è ingresso gratuito, come per esempio al Museum of Modern Art
di New York (MoMA), è richiesto un biglietto d’ingresso di $ 25, mentre il Los
Angeles County Museum of Art (LACMA), ha fissato un biglietto di $ 15 per gli
adulti.
In alcuni casi, tuttavia, bisogna
anche rilevare il passaggio dall’ingresso a
pagamento all’ingresso gratuito: per esempio al Dallas Museum of Art, che prima
chiedeva un biglietto d’ingresso di $ 10 e ora ha aperto le sue porte a tutti.
Grazie a Martin G. Conde, autore del blog Rome -The Imperial Fora, per avermi segnalato la notizia.
Grazie a Martin G. Conde, autore del blog Rome -The Imperial Fora, per avermi segnalato la notizia.
LE FAMIGLIE BRITANNICHE PREMIANO I LORO MUSEI PREFERITI
Torna anche nel 2013 il Telegraph Family Friendly Museum Award
di Caterina Pisu
Anche quest’anno il giornale
britannico The Telegraph propone il Premio Telegraph Family Friendly Museum,
pensato per avvicinare le famiglie ai musei. Saranno premiati quei musei,
scelti dalle famiglie, che avranno dimostrato di essere capaci di affascinare i
bambini di tutte le età, ma non solo, anche sulla base delle attività proposte,
della capacità di saper accogliere, dell’originalità. Dopo le segnalazioni dei
lettori, una commissione formata da esperti del settore museale, del Telegraph
e di Kids in Museums, effettuerà una pre-selezione, ma saranno le famiglie,
alla fine, a scegliere il vincitore.
E’ possibile partecipare entro il
10 maggio prossimo. Tutte le informazioni sono reperibili in questa pagina:
Il testimonial del Premio, Dan
Snow, presentatore televisivo anglo-canadese, conduttore di programmi di storia
per la BBC, ha espresso il suo grande interesse per una iniziativa che
finalmente premia quei musei e quelle gallerie che sono attenti a ciò che le
famiglie vogliono davvero.
Dan Snow |
E detto da Snow, che oltre ad
essere un esperto è sempre stato un appassionato di musei fin da bambino, e che
sta già educando sua figlia ad amarli, è una bella promozione. Quando era
piccolo – racconta Snow – i musei non erano luoghi molto amati dai più piccoli,
ma ora sono davvero cambiati: le
tecnologie, per esempio, sono di grande aiuto e i bambini possono imparare e
divertirsi nello stesso tempo.
Lo scorso anno fu premiato un
piccolo museo, il Brixham Heritage Museum, gestito da uno staff ridotto e
part-time, con l’aiuto di ben 65 volontari e con un flusso di circa 9.000
visitatori l’anno (http://museumsnewspaper.blogspot.it/2012/04/un-piccolo-museo-per-un-grande-premio.html),
a dimostrazione che non c’è bisogno di essere famosi e importanti per essere
graditi alle famiglie e al pubblico in generale. Ciò che conta è, come sempre,
la capacità di accogliere, di riuscire a coinvolgere la comunità nella gestione
del museo (65 volontari non sono pochi!) e, ovviamente, avere alla base un buon progetto
culturale.
Lo scrissi anche nel mio articolo
dello scorso anno, ma lo ripeto: sarebbe bello se anche in Italia qualcuno
volesse promuovere un premio simile, dedicato ai musei e alle famiglie. Ne vogliamo riparlare?
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Cari amici, in questi anni in cui ho svolto l’incarico di direttore scientifico del Museo Civico “Ferrante Rittatore Vonwiller”, dal 2019 a...
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From: http://chasingaphrodite.com/2012/02/08/robert-e-hecht-jr-leading-antiquities-dealer-over-five-decades-dead-at-92/ Robert ...
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Attualmente non esiste in Italia un documento che ripartisca tutti i tipi di musei, anche se una classificazione può essere desunta da un...