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Quale futuro per i musei civici e per i piccoli musei?

A proposito della creazione dei poli e dei sistemi museali regionali 

Un articolo di Ledo Prato del 26 febbraio scorso, comparso su Il Giornale delle Fondazioni, fa il punto sul futuro che potrebbe attendere i musei civici italiani a seguito della Riforma Franceschini. Vorrei esporre qui alcune mie considerazioni in merito all’argomento trattato. Quando si parla di politiche museali che propongono modalità di accentramento delle scelte gestionali e culturali, mi invade un vivo senso di preoccupazione in quanto il rischio è sempre quello di una perdita della capacità di produrre cultura in modo indipendente e senza i filtri di organi istituzionali sovrastanti. Non intendo dire, con questo, che i sistemi museali siano una scelta sempre negativa, ma dipende da che cosa si intende con questo termine. Se significa essere inquadrati in un rigido sistema gestionale che impone solo standard generali e che inibisce le iniziative dei singoli, allora ritengo che i sistemi museali siano una scelta negativa; se invece sono utili soprattutto per dare vita ad occasioni di confronto e a progetti comuni, nel rispetto delle individualità e delle autonomie di ciascuna istituzione museale aderente, allora ben venga questa soluzione. Nell’articolo di Prato si parla della possibilità di un accorpamento dei musei locali ai Poli regionali, i quali - si legge - “possono favorire le relazioni con le diverse forme di autonomia che hanno assunto i musei civici e porre le basi per la realizzazione di politiche museali territoriali che ricompongono l’offerta a vantaggio dei cittadini e dei visitatori”. I Poli, in realtà, saranno inevitabilmente organismi fortemente accentratori, "la cui costituzione sarà promossa e realizzata dai direttori dei poli museali regionali sulla base di modalità di organizzazione e funzionamento del sistema museale nazionale stabilite dal Direttore generale Musei, sentito il Consiglio superiore “Beni culturali e paesaggistici” (vedi decreto musei). Non sembra poi così improbabile che un museo locale, inglobato in una struttura così complessa, gestita da una tale pluralità di soggetti, avrebbe poco margine di manovra e vedrebbe fortemente ridotta la propria indipendenza scientifica, culturale e gestionale. Oltretutto non è chiaro se tale soluzione porterebbe effettivi benefici dal punto di vista finanziario dato che nell’articolo di Ledo Prato si legge espressamente che sarà opportuno il ricorso alle associazioni e al volontariato “per la gestione dei servizi destinati alla fruizione e valorizzazione dei beni culturali, attraverso lo strumento delle convenzioni”. Mi chiedo, allora: qual è la novità? I musei civici non sono forse quasi sempre gestiti in economia dagli enti locali con il supporto del volontariato? Se questo è ciò che prevede l’appartenenza ad un Polo, si deve pensare che i vantaggi da questo punto di vista sarebbero pari a zero. 

Si specifica, poi, che “con atti successivi è possibile che siano meglio definiti i “servizi strumentali comuni destinati alla fruizione e alla valorizzazione di beni culturali” e si capirà se in questo contesto si potranno immaginare accordi che contemplino l’affidamento congiunto fra musei statali e musei civici dei servizi al pubblico (ex legge Ronchey) o quali saranno le procedure attraverso le quali si potrà pervenire alla costituzione di uffici comuni, obiettivo già inseguito senza successo nelle riforme a cavallo fra i due decenni che ci hanno preceduto”. Questo è l’aspetto più preoccupante della visione che viene prospettata nell’articolo di Prato. Sebbene in ambito statale si sia constatato che l’affidamento a società esterne dei servizi al pubblico ha prodotto quella nefasta divisione tra tutela e valorizzazione e, in generale, un appiattimento delle proposte culturali ed educative dei singoli musei, si vorrebbe includere anche i musei locali in questa strategia che ha già mostrato molti lati negativi. Ciò è paragonabile a voler annullare le singole voci di un coro che può essere melodioso solo se ogni corista potrà esprimere le proprie specifiche vocalità e tonalità. Può esserci bellezza in un suono piatto e indifferenziato? 

Continuando la lettura dell’articolo, a un certo punto l’Autore fa riferimento ai piccoli musei affermando che “per lungo tempo è prevalsa l’idea che occorresse una specifica politica per i piccoli musei e, in qualche caso, si è sostenuto che fosse necessaria una legislazione speciale che ne rispettasse le specificità. Probabilmente poteva essere una strada utile. Ma in un Paese dove tutto si ritiene che possa essere affrontato e risolto con il ricorso alla produzione di nuove leggi, con tutto ciò che ne consegue, dubito che sarebbe stata o sia una strada efficace”. Ora, chi ha seguito il dibattito museologico di questi ultimi anni sulle tematiche che riguardano i piccoli musei, sa che l’Associazione Nazionale Piccoli Musei fondata da Giancarlo Dall’Ara è stata la prima a focalizzare l’attenzione generale sulla necessità di una specifica politica per i piccoli musei. Stiamo parlando degli ultimi sei anni e bisogna anche precisare che finora nulla è stato fatto, a livello ministeriale, per discutere le proposte avanzate dall’Associazione. Non si può dire, quindi, che si tratti di un argomento ormai superato perché, al contrario, chi segue i convegni nazionali dell’APM sa che è ancora molto vivo e sentito e che si è tuttora in attesa dell’auspicato, diretto confronto tra le Istituzioni e i musei di ogni forma giuridica. Finché tutto ciò non sarà attuato, dunque, non è lecito affermare che la questione è ormai vecchia e superata. Certamente ritengo che, per i motivi sopra espressi, la soluzione ai problemi di gestione non possa essere la creazione di “reti museali di area vasta” e l’istituzione di “forme consortili non imprenditoriali per la gestione di uffici comuni” perché, al contrario di quanto prevede Prato e nonostante le migliori intenzioni dei legislatori, temo che proprio questo potrebbe invece marginalizzare i piccoli musei, in particolare quei musei che risultano “poco produttivi” dal punto di vista economico, dimenticando che i risultati che un museo deve garantire, in particolare un piccolo museo situato in aree poco interessate da grandi flussi turistici, devono piuttosto riguardare non il numero di biglietti staccati ma l’efficacia della sua azione culturale, educativa e sociale in seno alla propria comunità. Ciò può essere assicurato solo da professionalità che siano fortemente integrate nel tessuto sociale in cui operano, che siano in grado di conoscere profondamente le problematiche e le aspettative della comunità e che quindi sappiano adeguare le finalità del museo alle specifiche situazioni socio-ambientali. 
A che cosa potrà servire, allora, l’appartenenza ad un polo museale e la conseguente imposizione di direttive a istituzioni museali completamente diverse tra loro per tipo, forma giuridica e dimensioni? Si finirà con il peggiorare le stesse difficoltà che finora sono emerse con l’applicazione di standard generali a modelli museali eterogenei, alla fine privilegiando sempre la grande dimensione rispetto alla piccola. Da ciò era nata l’esigenza di normative specifiche per i piccoli musei che è stata appunto rimarcata dall’Associazione Nazionale Piccoli Musei.

Ritengo, dunque, che non si possa fare una proposta di tale impatto per il futuro dei piccoli musei e liquidare le criticità che potranno presentarsi lasciando al dopo “tutte le questioni sul futuro dei musei, sul loro ruolo, sulle innovazioni possibili, sul rapporto con i territori e le comunità, sul ruolo dei visitatori e così via”. Tutto questo, invece, deve essere discusso prima di ogni tentativo di riforma in modo da non incorrere in errori che potrebbero essere fatali per il futuro delle piccole realtà museali del nostro Paese.

Kenneth Hudson non sbagliava quando diceva che i grandi musei dovrebbero comportarsi come un insieme di musei piccoli perché aveva intuito che un museo di piccole dimensioni presenta dei vantaggi che ancora oggi troppo spesso la politica tende non solo a sottovalutare ma, ancora peggio, a considerare un problema, indirizzando così le proprie decisioni non verso la valorizzazione dei piccoli musei ma verso una loro trasformazione in musei grandi, accorpando, centralizzando, snaturandone l’essenza stessa e la vocazione.
Ci sono ambiti che non possono essere gestiti con una mentalità da banchiere. Sono quegli spazi, come i musei, che appartengono di diritto alla comunità ed è principalmente in ragione di questo legame che devono essere studiate le soluzioni più idonee. Se molti musei rischiano la chiusura è perché non si è lavorato per “essere amici del pubblico”, per riprendere un’altra frase di Kenneth Hudson. Tutto il resto è secondario, a cominciare dal numero dei visitatori che sembra essere la preoccupazione maggiore delle politiche culturali di sempre. Quando si inizierà a parlare meno di numeri e più di progetti realizzati, saremo sulla buona strada.

Appuntamento a Massa Marittima!

Vi aspetto tutti venerdì a Massa Marittima per il Sesto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei. Puntuali alle 15, mi raccomando, in via Carlo Goldoni, Palazzo dell'Abbondanza! A presto!

http://piccolimusei.weebly.com/sesto-convegno-nazionale-dei-piccoli-musei.html


In attesa del Sesto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei



Mancano 32 giorni al Sesto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei, il momento più atteso per tutti coloro che seguono l’attività dell’APM perché si tratta di una delle poche occasioni in Italia in cui si pone l’attenzione sulle realtà “minori” e “periferiche” del patrimonio museale nazionale. 
Si parla, però, non di un ambito minoritario, ma del 90% circa dei musei italiani; per questa ragione ci sorprende che di essi si discuta così poco: forse la causa è da individuarsi nel fatto che le politiche culturali sono in genere più orientate verso quelle istituzioni museali che meglio rispondono al bisogno di valorizzazione piuttosto che di tutela, di grandi numeri anziché di conservazione dei patrimoni locali. Allora forse noi siamo in controtendenza ma nonostante questo i nostri convegni attirano ogni anno un gran numero di uditori, fatto che dimostra che in realtà l’interesse intorno ai piccoli musei è molto alto.

Il nostro convegno è un’occasione di reciproco scambio perché non solo si discute di tematiche che riguardano la gestione dei piccoli musei, ma perché si cerca anche di dare voce a chi vi lavora. Conoscere questi che spesso definisco “casi studio” ma che forse sarebbe più corretto indicare come “storie di persone e di comunità”, sempre coinvolgenti e sorprendenti, è essenziale per comprendere la necessità di preservare questi luoghi, importanti non per il numero di visitatori ma soprattutto per la loro missione culturale e sociale.  

Gli esempi sono i più svariati: negli anni passati sono state presentate le esperienze di musei statali, regionali, civici, privati, gestiti da fondazioni e da associazioni; musei dislocati tanto in piccole città quanto in grandi centri. Il concetto di “piccolo museo” può essere applicato in molti casi e proprio su questo tema si sta svolgendo, ormai da due anni, una ricerca interna all’APM che condurrà alla definizione formale di “piccolo museo” e che potrà essere un punto di riferimento per gli studi futuri in questo ambito.

Grazie per i piccoli musei!” ha scritto un ex direttore di un piccolo museo americano, Frederick A. Johnsen, sul sito Museumerica. Si riferiva alla sua visita del Baker Heritage Museum, commentando così il suo entusiasmo: “Il Baker Heritage Museum esemplifica la gioia dei musei, puri e semplici. Le sue esposizioni e i diorami sono la prova che apprendimento e divertimento si possono trovare anche nei piccoli musei delle più piccole comunità. La mia visita mi ha ricordato di non trascurare musei come questo durante i miei viaggi attraverso il Paese”.

E’ lo stesso invito che anche noi dell’APM rivolgiamo a tutti coloro che ci seguono: non trascuriamo questi piccoli luoghi culturali perché molto spesso ci riservano emozioni ed esperienze non inferiori a quelle dei musei più noti e frequentati.

Vi aspettiamo a Massa Marittima, Palazzo dell’Abbondanza, il 2 ottobre dalle ore 15 e il 3 ottobre dalle 9.30.

Associazione Nazionale Piccoli Musei e Artribune insieme per dare voce ai piccoli musei




L’APM ha stipulato un accordo con Artribune, importante testata di arte e cultura contemporanea, con la più ampia e diffusa redazione culturale del Paese (conta 250 collaboratori in tutto il mondo), per dare vita ad una partnership che prevede le seguenti azioni:
- Artribune sarà il referente editoriale dell’APM per il Convegno Nazionale del 2015 e per quello del 2016;
- pubblicazione su Artribune di notizie che riguardano l’attività istituzionale dell’APM;
- promozione di ‪#‎smallmuseumtour‬, diffusione delle date e dei nomi dei musei partecipanti;
- pubblicazione settimanale su Artribune di notizie selezionate ed innovative attinenti i piccoli Musei Italiani;
- pubblicazione mensile di un servizio, in esclusiva editoriale, su un piccolo Museo con immagini e con una intervista.
Invitiamo, pertanto, i Piccoli Musei, soci e non soci, che seguono le attività dell’APM, a collaborare, inviandoci settimanalmente notizie che riguardano i propri musei (mostre, convegni ed altre attività culturalmente rilevanti e significative) a questo indirizzo di posta elettronica.
Vi invitiamo, inoltre, a iscrivervi alla Newsletter e a seguire la Pagina Facebook di Artribune per rimanere sempre aggiornati.

Hug a Museum Worker Day


“Hug a Museum Worker Day”, ovvero la Giornata dell’abbraccio a chi lavora in un museo, è una iniziativa nata in America dopo il successo dell'“International Hug Medevalist Day” di qualche anno fa, giornata indetta per sostenere gli storici dell’arte (sarebbe bello anche un "Hug Archaeologist Day"!).

"Hug a Museum Worker Day" è la prima giornata internazionale dedicata ai lavoratori e ai professionisti museali. L'obiettivo è rendere più comprensibile per l'opinione pubblica, il lavoro continuo che tutti coloro che operano in un museo devono svolgere per salvaguardare e valorizzare il patrimonio culturale a vantaggio della comunità, ma anche per svolgere tutte le altre funzioni che permettono di interpretare in modo più attuale il ruolo che il museo occupa oggi nella società. 

E' importante che i musei seguano l'evolversi e il cambiamento della società affinché la comunità apprezzi il lavoro che vi viene svolto e possa usufruire pienamente delle opportunità educative, dei momenti di socializzazione, di incontro e di dibattito che esso può offrire a tutti indistintamente, superando le barriere delle disuguaglianze, di qualsiasi natura esse siano.  
Grazie agli strumenti messi a disposizione dal web ed alla sempre più ampia diffusione dei social network, oggi le distanze tra museo e pubblico sono state notevolmente accorciate e i musei sono diventati luoghi più famigliari e accoglienti, soprattutto i numerosissimi piccoli musei che da nord a sud animano la vita culturale di città e paesi, facendosi interpreti e custodi delle tradizioni e delle storie locali.
Comprendendo l'importanza di questo impegnativo e prezioso lavoro, non si può non donare simbolicamente, oggi, il nostro abbraccio a tutti coloro che lavorano nei musei svolgendovi le differenti mansioni che sono richieste. Grazie per il vostro lavoro!

Come si salva un museo?

Dalla lettura di un post di Claire Madge, dal blog Tincture of Museum, alcune riflessioni sulla crisi dei musei




In questi giorni mi è capitato sotto gli occhi un articolo di Claire Madge, laureata in storia, bibliotecaria e volontaria in alcuni musei di Londra, tratto dal suo blog Tincture of Museum. In questi anni, Claire, già convinta sostenitrice dell’importanza dei musei per lo sviluppo intellettivo e psicologico dei bambini, quando è diventata mamma di una bambina autistica si è molto interessata alle tematiche che riguardano la cura dei bambini autistici con il supporto delle attività museali. Dopo aver lasciato il suo lavoro di bibliotecaria, ha scelto di entrare come volontaria in tre musei: il Museum of London l’Horniman Museum, come volontaria in progetti rivolti a migliorare l’accessibilità del museo per vari tipi di disabilità, e infine il Bromely Museum, in cui, dopo un inizio come volontaria generica, è riuscita ad inserirsi nei progetti che riguardano l’apprendimento e la partecipazione del pubblico. Purtroppo uno di questi musei, il Bromely Museum, rischia di chiudere e nell’articolo cui ho fatto cenno, la Madge riporta i punti essenziali di un dibattito cui ha partecipato e che avrebbe dovuto trovare delle soluzioni per evitare questa sfortunata eventualità.

Il Bromely Museum è un museo periferico di Londra che l’Associazione Nazionale Piccoli Musei includerebbe sicuramente nella categoria dei “piccoli musei”. Claire descrive bene la sensazione di inferiorità che l’essere “piccoli” fa nascere in quelle situazioni in cui bisogna confrontarsi con la dura realtà dei “conti”, della “produttività economica” applicata spietatamente e indifferentemente tanto a istituzioni gigantesche come il British Museum quanto a musei periferici che non sono nati per fare grandi numeri ma che sono stati creati soprattutto per rendere vitale e produttiva la cultura locale con particolare attenzione agli aspetti educativi e sociali. Così racconta:

«Fa sorridere partecipare ad un dibattito sul futuro dei musei regionali, nel cuore di Londra.  Il Courtauld Institute of Art ha voluto dar vita ad un ampio dibattito per trovare una soluzione alla crisi dei musei regionali. (…) ». Il Bromely Museum si trova nella Greater London, fa notare Claire, la stessa contea in cui si trova quella Londra che catalizza gli enormi finanziamenti dell’ArtsCouncil. I musei regionali, invece, non riescono a trovare finanziamenti. «Ci si sente come se si stesse per entrare nel sancta sanctorum in cerca di risposte».

Claire sa che il suo intervento sarà preceduto da quello dei “decisori” e lei, un po’ intimidita, si sente come una “novizia” che cerca di scoprire i misteriosi meccanismi del mondo dei musei. Ascolta tutti gli interventi con molta attenzione e non tutto è piacevole da apprendere per chi sta dedicando tutta la propria vita a uno di questi musei apparentemente “perdenti”.

Qualcuno afferma che non si potrà evitare la chiusura di alcuni musei, che non si può indorare la pillola e che bisogna guardare in faccia la realtà, che la risposta non può essere la filantropia, che c’è bisogno di nuovi modi di fare le cose, nuovi modelli di business per portare avanti il cambiamento. Claire pensa che se si taglierà il personale tutto questo sarà molto difficile o si pensa di farlo con un museo condotto esclusivamente da volontari? Come soluzioni si suggeriscono la ricerca di finanziamenti attraverso l’adesione a progetti universitari oppure la dinamicità delle collezioni, con frequenti cambiamenti, grazie a partenariati e collaborazioni.

Tutte le soluzioni proposte, osserva Claire Madge, sono a lungo termine mentre c’è bisogno di soluzioni immediate per scongiurare la chiusura dei musei regionali. Alla fine il colpo di grazia arriva dall’ultimo intervento, quello di Piotr Bienkowski, Museum Independent Consultant, il quale afferma che non tutti i musei dovrebbero rimanere aperti.  Se non riescono, quasi sempre la causa principale è la governance intrinsecamente debole e una scarsa comprensione degli aspetti finanziari della gestione.

Alla fine dell’intervento di Bienkowski, Claire si rende improvvisamente conto che tutto ciò che apprezza del Bromley Museum, il personale, il suo ruolo di volontaria, la sua fuga dalla realtà quotidiana, non sono più sufficienti per impedirle di vedere che il museo sta fallendo: questo, purtroppo, è il risultato di anni di declino. Da una indagine da lei condotta intervistando famiglie è risultato che il 90% di queste non sapeva dell’esistenza del museo. Nonostante ciò – riflette Claire – «io ho ignorato questo (…).  Ho lavorato spesso di sabato, i visitatori erano pochi e ancora ho scelto di non vedere.  Ho guardato ciò che c’era di buono, i progetti educativi, la passione del personale e mi sono rifiutata di vedere oltre. (…) Allora, qual è la risposta? Il Museo Bromley avrebbe potuto consolidare da solo il proprio “stato di salute” anni fa.  Avevamo bisogno di animare il dibattito sul cambiamento ben prima di arrivare sul ciglio del baratro.  Credo che sia stato Paul Greenhalgh a dire: “tenere aperta la porta è un lavoro per tutti noi e qualcosa che dovremmo fare insieme".  Ha ragione, naturalmente, ma abbiamo ancora bisogno di sapere come fare. Mentre lascio il dibattito, sento che stanno parlando di un altro museo sull'orlo della chiusura.  Il Bromley Museum non è l'unico e non sarà l'ultimo.  Ho imparato molto e mi è stata data una quantità enorme di spunti sui cui riflettere. Era ingenuo pensare che avrei trovato risposte immediate e soluzioni rapide.  Il dibattito mi ha fatto guardare la realtà alla luce fredda del giorno.  E forse questo è ciò che mi serviva più di qualsiasi altra soluzione».

Le conclusioni di Claire mi hanno indotta a tentare un confronto in particolare con la realtà del nostro Paese, tenendo conto che quando si parla di musei “in crisi” le situazioni sono le più varie e bisogna considerare le legislazioni, la natura giuridica, le finalità che si propone un museo e molti altri fattori discriminanti. In ogni caso ritengo che, pur nell’ambito di un necessario processo di autocritica (ed avendo ben presenti anche i casi - non pochi - di incuria da un lato e di vero e proprio abbandono da parte delle istituzioni dall’altro), le cause del “fallimento” di alcuni musei siano da ricercare non solo nelle responsabilità individuali e istituzionali, ma spesso nella inadeguatezza di un sistema generale di gestione che ha troppo “uniformato” i musei rendendoli poco interessanti. Afferma a questo proposito, Giovanni Pinna:

«(…) Ormai, nelle sale espositive di queste istituzioni, non sono più gli specialisti del museo che parlano al pubblico, ma anonime équipes specializzate nella realizzazione delle esposizioni, mentre il rapporto con il pubblico, la realizzazione delle guide o l’organizzazione delle manifestazioni pubbliche sono affidati ai cosiddetti “servizi culturali” che, di norma, operano autonomamente rispetto alla struttura scientifica dell’istituto. Il risultato di questa separazione è stato un inevitabile appiattimento dei contenuti delle esposizioni del museo e del loro significato culturale, poiché équipes specializzate nella didattica espositiva non possono che uniformarsi a un modello generale, che, proprio in quanto generale, non è mai rappresentativo di una specifica cultura. Il museo ha perso allora la propria conoscenza e la propria individualità a favore di questo modello generale, con il risultato finale che nei suoi rapporti con il pubblico ogni museo è divenuto uguale a ogni altro museo. Io ritengo che una delle ragioni dell’attuale debolezza politica e sociale dei musei – una debolezza pericolosa poiché conduce inevitabilmente il museo stesso a una debolezza finanziaria e quindi culturale, e la società alla perdita delle proprie radici – risieda nella separazione dei ruoli che porta alla perdita della cultura individuale di ciascun museo».

E in effetti, se pensiamo ai casi di “piccoli musei” di successo che sono a me famigliari grazie al mio lavoro nell’ambito dell’Associazione Nazionale Piccoli Musei, si può constatare che si tratta sempre di musei con una spiccata individualità e originalità: penso al Museo del Bottone di Santarcangelo di Romagna, al Museo della Bora di Trieste, al Museo del Precinema di Padova, solo per citarne alcuni e senza nulla togliere a numerosi altri che potrebbero essere citati come esempi.

E’ necessario ripartire, dunque, dal dato di fatto che i musei hanno bisogno di uscire da un anonimato imposto da metodi di gestione troppo uniformanti, in cui talvolta, soprattutto nel caso di reti e sistemi museali (quando sono organizzazioni rigide, con un'unica fonte di comunicazione, un unico sito uguale per tutti, stessa pianificazione delle attività didattiche, ecc.), conta più la struttura amministrativa e burocratica che gestisce i musei che non il singolo museo. Ciò produce appiattimento e quindi incapacità di rendersi attraenti agli occhi del pubblico grazie alla valorizzazione delle proprie specificità, legate alla natura delle collezioni, al luogo cui si è legati, alla comunità di riferimento.

Poggiandosi su una base solida - cioè su questo presupposto fondamentale che richiede autenticità, radicamento territoriale, originalità - si potranno innestare, poi, altre soluzioni, non escluse quelle che provengono anche dal settore dell’economia e del marketing, che aiuteranno a fare chiarezza sui “punti deboli” che impediscono ai musei di esprimere le proprie potenzialità.

A questo proposito, afferma Giancarlo Dall’Ara: «Modello gestionale inadeguato può significare inoltre che il museo ha personale insufficiente o demotivato, o propone orari di visita o "politiche di prezzi" sbagliati, una organizzazione degli spazi “fredda”, asettica e non accogliente, o adotta modelli espositivi di difficile comprensione. Oppure ancora i problemi possono essere nell’assenza di nuove competenze professionali oggi assolutamente necessarie (web, accoglienza, narrazione…), o nella visione autoriferita di alcuni responsabili. In sostanza credo si possa affermare che in Italia non esistano luoghi privi di interesse o musei privi di “attrattori”, esistono invece problemi di gestione, di sedi museali inadeguate, di mancanza di passione, di conoscenze, di competenze, di visione, di risorse, di umiltà».

Se il mondo dei musei, per primo, deve affrontare un’approfondita autoanalisi, anche le istituzioni e la società non possono sottrarsi a questo processo: solo se l’intera collettività rispetterà i musei, i grandi quanto i piccoli, quali “produttori di cultura”, ogni strumento destinato ad aumentarne l’efficienza si mostrerà efficace, accrescendo anche l’attrattività dei musei nei confronti del pubblico. Se, al contrario, si perderà di vista questo compito primario dei musei, questi appariranno inevitabilmente sempre inferiori alle aspettative e la misurazione della loro efficienza resterà circoscritta quasi esclusivamente al conteggio dei biglietti venduti. Infatti, raramente, soprattutto a livello di informazione mediatica, si focalizza l’attenzione su altri aspetti determinanti, come la qualità dei programmi culturali ed educativi e la capacità di essere presenti nella vita della società. Ciò non vuol dire, come afferma Giancarlo Dall’Ara, che non ci si debba porre il problema dell’assenza o della diminuzione di visitatori, ovviamente in relazione al proprio potenziale bacino di utenza, ma questo aspetto va inquadrato in una più ampia e articolata valutazione di tutta l’attività promossa dai musei.

 “Il museo non è un’azienda” scriveva qualche anno fa Salvatore Settis per il quale “la vera "redditività" (…) non è negli introiti diretti e nemmeno nell'indotto che esso genera (incluso il turismo), bensì in un senso di appartenenza che incide a fondo sulla qualità della vita, e dunque anche sulla produttività della società nel suo insieme”.

E’ pur vero, però, che gli studi sul marketing museale nel frattempo si sono evoluti e dopo una prevalente attenzione per le tecniche che miravano ad aumentare fatturato e utili, si concentrano, ora, sulla ricerca di soluzioni che siano in grado di creare autentico valore per il visitatore (Vittorio Falletti, I musei, 2012, p. 129).

Nel nuovo marketing l’attenzione è più focalizzata sulle persone, sulla cura delle relazioni interpersonali, sulle opinioni, sui “luoghi” intesi come insieme di tradizioni e di cultura locale ma non solo, anche come spazi virtuali di condivisione (social media, ecc.). Esso si propone di creare esperienze di vita conformandosi ai desideri della gente e, in base a questo, cerca di creare prodotti che rispecchino quelle esigenze e aspettative. Da questa filosofia anche il mondo dei musei potrà attingere strategie e idee.

Oltre ai doveri tradizionali del conservare, esporre, educare, i musei oggi hanno assunto altri generi di responsabilità rivolte, per esempio, all’inclusione sociale (quindi alla ricerca dei pubblici solitamente esclusi dalla fruizione museale), all’armonia sociale (diventando luoghi di incontro, di conoscenza reciproca e di dialogo) e alla promozione territoriale (quando sono mediatori di azioni sinergiche finalizzate a valorizzare le ricchezze culturali ed economiche).
Trovare un punto di incontro tra il desiderio di rendere più “attrattivi” i musei, il dovere di non snaturarne le funzioni primarie e l’assunzione di nuovi compiti, è l’unico modo possibile per non perdere pezzi importanti del nostro patrimonio museale lungo il cammino.

#smallmuseumtour speciale EXPO Milano 2015

 
 
Dal 4 maggio al 3 luglio, salvo eventuali proroghe, si svolgerà una edizione speciale di #smallmuseumtour, l’iniziativa ideata e organizzata dall’Associazione Nazionale Piccoli Musei (APM) per Twitter. Come nelle edizioni “classiche”, anche i tour virtuali dell’edizione speciale si svolgeranno settimanalmente e avranno la durata di un’ora. 
Ogni settimana un museo italiano, i cui contenuti sono incentrati sul cibo e l’alimentazione, darà vita con il proprio account, con l’hashtag #smallmuseumtour e con gli account dell’APM, @piccolimusei e @piccolimusei2, ad un dialogo con i followers utilizzando immagini e brevi video, e rispondendo alle domande che saranno loro poste liberamente dagli utenti di Twitter. Oggetto del dialogo saranno le tematiche proposte dai musei, le iniziative e le attività incentrate sul cibo e l’alimentazione.

Oltre ai musei del cibo, dedicati ad alcune eccellenze dei nostri territori o alle produzioni locali, parteciperanno anche alcuni musei archeologici che affronteranno l’argomento in relazione ai periodi più antichi della storia.

L’edizione speciale di #smallmuseumtour ha ottenuto il patrocinio di EXPO Milano 2015 e siamo lieti, pertanto, di poter offrire il nostro contributo all’evento dando voce ad alcuni fra i tantissimi piccoli musei italiani che ogni giorno diffondono la cultura del cibo e dei prodotti agroalimentari di eccellenza del nostro Paese, e a quei musei che raccontano la storia anche attraverso lo studio delle tradizioni e degli usi alimentari di ogni tempo.

Hanno già aderito all’iniziativa i seguenti musei:

- Museo Nazionale “G. A. Sanna”, Sassari

- Poli Museo della Grappa, sedi di Bassano del Grappa e di Schiavon (VI)

- Museo del Balsamico Tradizionale di Spilamberto (MO)

- Museo dell’Olio e della Civiltà Contadina, Tenuta Amari, Castelvetrano (TP)

- Parco Archeologico di Poggio La Croce (SI)

 Il 4 maggio inaugureremo l’edizione speciale, alle 15, con un’anteprima in cui presenteremo le modalità di svolgimento dell’iniziativa per coloro che non avessero seguito le prime due edizioni “classiche”. In quella occasione, per gentile concessione di Maurizio Pellegrini, responsabile del Laboratorio Didattica e Promozionale visuale della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale, presenteremo anche un video tratto dal documentario “Vinum. Storia del vino nell’Italia antica”, diretto da Maurizio Pellegrini, da cui è stata anche tratta l’immagine ufficiale che rappresenta #smallmuseumtour-speciale EXPO Milano 2105, “I musei, il cibo, l’alimentazione”.

Il primo #smallmuseumtour si svolgerà mercoledì 6 maggio, alle 15, con il Museo Nazionale “G. A. Sanna” di Sassari.

Piccoli musei e #MuseumWeek: un modello di comunicazione attiva e interattiva

Alcune considerazioni a margine della manifestazione internazionale che ha riunito su Twitter 2800 musei di tutto il mondo

di Caterina Pisu

1- Analisi grafica de La Magnetica inerente l'attività dei musei italiani durante la #MuseumWeek 2015




A circa dieci giorni dalla conclusione di #MuseumWeek 2015 mi sembra opportuno tirare le somme di questo importante avvenimento social che, come è stato ampiamente divulgato da molti specialisti e da vari organi di informazione, è molto cresciuta rispetto alla prima edizione del 2014, coinvolgendo più di 2800 musei di 77 Paesi. Ben 259 delle adesioni sono arrivate dall’Italia, numero quadruplicato rispetto al 2014. Già dopo la prima edizione di #MuseumWeek si era avvertito un aumento di interesse da parte dei musei italiani per la comunicazione 2.0 e i dati di quest’anno ne sono stati la conferma. Si è trattato di una presenza non solo numericamente rilevante ma, in molti casi, anche molto incisiva. I dati diffusi dagli organizzatori di #MuseumWeek nel corso della manifestazione hanno evidenziato i dieci musei che hanno twittato, ritwittato e replicato di più (fig. 2); tra questi sono presenti quattro musei italiani: al primo posto l’Area archeologica di Massaciuccoli Romana, al secondo l’Antiquarium di Porto Torres, all’ottavo il Museo dell’Orologio di Bergallo, al decimo il Museo Archeologico del Distretto Minerario di Rio nell’Elba. L’Associazione Nazionale Piccoli Musei / APM – che lo scorso anno era tra le prime tre istituzioni culturali più attive della manifestazione – quest’anno, con lo sdoppiamento dell’account in @piccolimusei e @piccolimusei2, ha svolto ugualmente un ruolo rilevante, soprattutto di impulso al dialogo, risultando essere anche tra gli account più menzionati (http://www.socialmeteranalysis.it/museum-week-2015-twitter-contagia-i-musei/)
2 - I dieci musei più attivi durante la #MuseumWeek (dal sito http://museumweek2015.org/en/twitter-space/)

E’ interessante notare che tre dei quattro musei della “top ten”, Area archeologica di Massaciuccoli, Antiquarium di Porto Torres e Museo Archeologico del Distretto Minerario di Rionell’Elba, insieme ad altri musei molto produttivi durante la settimana dei musei su Twitter o a quelli che comunque hanno fatto sentire la propria presenza (tanti i musei che hanno interagito tra loro e con l'APM: il Museo della Fondazione Querini di Venezia, il Museoarcheologico virtuale di Ercolano/MAV il Museo Civico di Fucecchio, il Museodelle Palafitte di Fiavè, il Museo Civico di Maglie, il Museo della Memoria Locale di Cerreto Guidi/MuMeLoc, il Museo della Centuriazione Romana, il Museo della Bora, il Museo del Carbone, il Museo Ceriodi Capri, il Museo dei Tasso e della Storia Postale, il Museo della Ceramica di Montelupo, il Museo di Villa Bighi, il Castello Cavour di Santena, il Museo “G.Filangieri”) sono stati protagonisti delle due edizioni di #smallmuseumtour, una iniziativa ideata lo scorso anno dall’APM per Twitter e che ha avuto, tra i suoi migliori risultati, quello di aver dato vita ad una comunità virtuale di  musei, di professionisti museali, di specialisti e di followers, tuttora molto dinamica. Il Museo Archeologico Nazionale “G. A. Sanna”, Poli Museo della Grappa e il Parcoarcheologico di Poggio La Croce, che non hanno ancora partecipato a #smallmuseumtour ma che saranno tre dei musei presenti nelle prossime edizioni, sono già ben inseriti sin da ora in questa comunità. Infine, è proseguita l’interazione anche con altri musei che seguono i nostri account pur non avendo ancora preso parte direttamente ad iniziative collegate con l’APM: tra questi il Museo dell’Orologio di Bergallo, il Museo Etno Antropologico e dell'Emigrazione Valguarnerese, il Museo Civico di Belriguardo, il Museo CarloZauli, il Museo Civico di Belluno, il Museo Etrusco di Populonia, il Museo Tattile di Varese, il Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah/MEIS, il Museo d'Arte e Scienza di Gottfried Matthaes, il Parco Rupestre Lama D'Antico e il Palazzo Civico delle Arti di Agropoli, per citarne solo alcuni.

In occasione di #MuseumWeek, dunque, non è stato necessario concordare alcuna strategia comune. Il dialogo tra i musei si è attivato spontaneamente grazie all’esistenza di questa “rete” virtuale già consolidata. L’APM si è posta come obiettivo quello di essere parte attiva del dialogo utilizzando da un lato l’immissione di contenuti propri, dall’altro il rilancio di quelli prodotti dai musei. In una manifestazione come #MuseumWeek, di lunga durata e che ha visto coinvolti più di 76.000 utenti con un flusso di circa 270.000 tweet, ottenere visibilità era importante. Sui social network è necessario non solo postare contenuti ma anche interagire. Questa forma di comunicazione ha un senso se è bidirezionale/multidirezionale o si rischia di trasferire sui social lo stesso “modello gestionale autoritario” che impedisce  la “comunicazione e l’interazione culturale e sociale” e soprattutto la “partecipazione collettiva alla produzione di valore culturale” (Elisa Bonacini, v. http://piccolimusei.blogspot.it/2013/11/il-museo-partecipativo-sintesi-della.html).

Pertanto, a mio parere e alla luce di queste considerazioni, il tipo di comunicazione adottato dai piccoli musei italiani è stato ben concepito in quanto ha favorito il dialogo museo/museo e museo/followers, ha rafforzato la comunità virtuale preesistente e l’ha ampliata includendo nuovi musei, quali il Sistema museale di Ugento, il Museo Civico del Setificio Monti e il Museo della Vita contadina Cjase Cocèl. Intensa, come si è detto, anche la partecipazione di molti followers, per la gran parte specialisti/cultori della materia o comunque persone attive in ambito culturale e in particolare nel settore dei musei, come Valerio Deidda (@ArT9it),  Massimiliano Zane (@mz_arte), Luisa Moser (@MoserLluisa), Leontina Sorrentino (@LeontinaDAB), Daniele Cei (@danielecei), Rossella Luciano (@Rossella_l2014), Veronica Ramos (@ramosveronica86), Concetta Lapomarda (@conclapo), Valentina Caffieri (@ValenCaffieri), Anna Marras (@annamao), Marta Coccoluto (@MartaCoccoluto), Maria Stella Bottai (@Stellissa), Marzia Dentone (@MarziaDentone), Silvia Andreozzi e Monica Palmeri (fondatrice e caporedattore di Zebrart.it: @silviaandreozz1, @MonicaPalmeri, @zebrartit).

Si è detto che tantissimi sono stati i tweet e le repliche, numerosissimi anche i retweet, una funzione affatto banale di Twitter e quanto mai necessaria in una manifestazione come #MuseumWeek in cui si voleva da una parte “amplificare” la portata di un tweet e dall’altra mantenere tutta la propria rete unita e partecipe del dialogo in corso. La visibilità ottenuta è stata ricambiata dall’attenzione di nuovi followers che si sono aggiunti alla rete già esistente. E’ stato importante anche mantenere costante il flusso di tweet e retweet; ciò ha comportato un impegno notevole, dovendo coprire fino a 14 ore giornaliere. Contenuti, dialoghi informali, immagini e attività varie sono stati distribuiti in questo lungo arco di tempo, mantenendo sempre alto il livello di interesse generale, piacevole e mai noiosa la conversazione, a tratti divertente come è giusto che sia in un evento con le caratteristiche di #MuseumWeek e come dimostra, in effetti, il gradimento manifestato più volte dai followers. I musei hanno dato di sé una nuova immagine, più vicina alle persone, più dialogante e quindi meno “ingessata” nel ruolo istituzionale.

E’ importante rilevare che il vantaggio dei piccoli musei rispetto alle grandi istituzioni museali (le quali spesso affidano la comunicazione alle società in house), è che la gestione dei social media in molti casi è operata direttamente dallo staff dei musei senza alcun tipo di mediazione esterna. Ciò determina una comunicazione più libera, colloquiale e più immediata nell’interazione. Quest’anno si può affermare che sia stato raggiunto un risultato eccezionale, quindi, non solo in termini di partecipazione ma soprattutto per il grande cambiamento che in particolare i piccoli musei stanno operando per aprirsi all’esterno e per essere luoghi di produzione culturale e di fruizione attiva e interattiva.

L’aspetto che si cercherà di migliorare riguarda la partecipazione del pubblico più lontano dal mondo dei musei: si tratta di una sfida non facile ma che i piccoli musei sono in grado di affrontare con le giuste strategie, iniziando, per esempio, da un maggior uso dei social nei rapporti con le scuole. Le prime sperimentazioni di questo tipo sono già state fatte per esempio dal Museo Civico di Maglie nel corso di #MuseumSchool.
Tenendo conto della grande apertura dei musei nei confronti della comunicazione social, come ha dimostrato l’edizione 2015 di #MuseumWeek, le prospettive per il futuro sono senza dubbio molto promettenti.

Di seguito, una selezione di tweet postati durante la #MuseumWeek appena conclusa:




Musei accoglienti verso i disabili

Uno sguardo oltreoceano: dal Met ai piccoli musei del North Carolina e della Florida
Di seguito riporto la traduzione di un articolo pubblicato nell'ottobre del 2013 sul New York Times. E' interessante scoprire che l'attenzione per i visitatori disabili per alcuni musei americani è una tradizione che dura ormai da un secolo. Inoltre non solo i grandi musei, ma anche i piccoli musei sono attenti a rivolgersi a tutto il pubblico, sia ai disabili che possono recarsi in visita al museo ma anche a coloro che non possono farlo, raggiungendoli con attività di outreach.  
In un recente venerdì sera, il Metropolitan Museum of Art di New York ha organizzato la sua prima mostra pubblica di opere originali create nell’ambito del progetto «Seeing ThroughDrawing». I partecipanti, tutti ciechi o ipovedenti, hanno creato le opere ispirandosi agli oggetti della collezione del museo che sono stati descritti loro da istruttori vedenti e che sono anche stati autorizzati a toccare.
Annie Leist, left, a volunteer at Boston’s Museum of Fine Arts, 
guides Mercedes Austin, 17.
     (Photo Bryce Vickmark for The New York Times)
In un’altra galleria, un tour nel linguaggio dei segni è stato seguito da un gruppo di visitatori non udenti. E in certi venerdì, le nuove “installazioni multisensoriali” accolgono tutti i visitatori, compresi quelli con vari tipi di disabilità – per sperimentare le mostre attraverso l’olfatto, il tatto, la musica, le immagini verbali o la descrizione degli oggetti da parte di persone con disabilità visiva.
Il Met ha una lunga storia di attenzione e cura verso le persone con disabilità ", ha detto Rebecca McGinnis, che supervisiona i programmi di accesso e di comunità. Già nel 1908, il museo forniva una "sedia a rotelle" alle persone con problemi di mobilità, e nel 1913 teneva lezioni per i bambini non vedenti delle scuole pubbliche.
Students at the Metropolitan Museum in New York in 1922.
(Photo Metropolitan Museum of Art).        
Oggi il Met organizza programmi per persone con disabilità quasi ogni giorno.
Non solo il Met, ma in generale sono in notevole aumento i musei che si sforzano di orientare i propri programmi culturali verso questa direzione. Nel 2010, circa 56,7 milioni di persone, ovvero il 18,7 per cento della popolazione, è stata colpita da disabilità di gravità variabile, secondo il Census Bureau. E il numero di disabili americani dovrebbe aumentare nei prossimi anni a causa dell'invecchiamento della popolazione e quindi della maggiore longevità, cui si deve aggiungere un certo numero di casi con difficoltà nell’apprendimento – è stato specificato dall'organizzazione di Open Doors, un gruppo no-profit di Chicago al servizio delle persone disabili.
"Anche i progettisti dei musei usano grande fantasia, molto più di quanto richiesto dalla normativa, e realizzano cose notevoli", ha detto Lex Frieden, professore presso l'Università del Texas Health Science Center di Houston e direttore di uno dei centri regionali che favorisce la conformità dei progetti con l'Americans with Disabilities Act del 1990.
Frieden, che nel 1967 ha subito una lesione al midollo spinale dopo un incidente stradale che lo ha reso tetraplegico, ha detto che i musei si sono assunti l’impegno a favorire l'accessibilità dei disabili ancora prima della legge americana del 1990 e della legislazione federale. “La Smithsonian Institution è da tempo leader nel settore; le sue linee guida per l’accessibilità degli allestimenti museali sono utilizzate a livello globale” - ha affermato Frieden.
“I primi espedienti per far superare le barriere della disabilità agli ipovedenti sono stati gli specchi sul soffitto, gli schermi video a varie altezze e l’abbassamento dei piedistalli per favorire una migliore visione per tutti gli utenti, compresi gli utenti su sedia a rotelle” - ha detto Beth Ziebarth, direttore dei programmi di accessibilità dello Smithsonian. Ma l’innovazione continua. Un nuovo programma permette alle famiglie con bambini autistici e altre disabilità cognitive di arrivare prima degli orari di apertura e di ricevere i materiali in anticipo per prendere confidenza con l'edificio e le mostre.
Lo scorso anno, grazie ad una iniziativa di crowdsourcing, la Smithsonian ha invitato i visitatori a fornire descrizioni audio su dispositivi mobili dei circa 137 milioni di oggetti della sua collezione - un esempio di come le misure adottate in primo luogo per aiutare le persone con disabilità spesso permettono a tutto il pubblico di ottenere dei benefici.
Il Museum of Fine Arts di Boston, per esempio, quando pochi anni fa ha aperto l’ala “Art of Americas”, ha adottato un approccio universale, per disabili e non disabili, nella sua guida multimediale mobile. Hannah Goodwin, il manager per l’accessibilità, ha spiegato che, in tal modo, se una persona con disabilità della vista o dell'udito è in visita al museo con un amico non disabile "entrambi utilizzano gli stessi dispositivi e accedono agli stessi contenuti".
A Manhattan, il Whitney Museum of American Art ha recentemente introdotto il Vlog Project (Whitney Video Blogs), i cui video sono registrati da collaboratori sordi nella lingua dei segni americana. Ma dal momento che sono anche sottotitolati in inglese, i Vlogs sono diventati popolari anche tra le persone senza disabilità uditive.
"C’è un nuovo mondo coraggioso là fuori", ha affermato Larry Goldberg, direttore del National Center for Accessible Media, un dipartimento di ricerca e sviluppo del Public Broadcasting di Boston. "Ora ci sono molte nuove tecnologie e anche i musei ne stanno approfittando."
Per esempio, l'Art Institute diChicago prevede di sperimentare con la stampa 3-D la riproduzione di opere d'arte e di permettere ai visitatori, come quelli affetti da Alzheimer, di esplorare la consistenza, le dimensioni e altri elementi sensoriali degli oggetti con strumenti che prima non sarebbero stati possibili.
Le applicazioni mobili del Guggenheim include sottotitoli per i video; possibilità di ingrandire il testo, descrizioni sonore del tour e tecnologie avanzate di screen-reader che consentono la navigazione completa attraverso il tatto e la descrizione vocale in ogni parte dello schermo.
Nei musei stanno arrivando anche servizi di navigazione interna – ha spiegato Goldberg - che sono l'ideale per le persone con disabilità visive. Ad esempio, il software ByteLight traduce i segnali di localizzazione dalle luci a LED modificate alle smartphone apps per aiutare i visitatori a interpretare le mostre o navigare all'interno del museo.
Il Museo della Scienza di Boston prevede di ampliare la sua sperimentazione nell’ambito della tecnologia ByteLight nei prossimi mesi. "Come tecnologia di localizzazione interna è la più promettente", ha detto Marc Check, il direttore del museo di informazioni e tecnologia interattiva. "Le tecnologie come il GPS, invece, sono efficaci al di fuori, ma molto meno precise all’interno."
Il museo sta anche sperimentando la tecnologia touch-screen interattiva. Ha costruito un grande tavolo touch screen, come un iPad gigante, che permetterà alle persone con disabilità visive e motorie di accedere ai contenuti con movimenti di scorrimenti o semplici gesti. Un prototipo, ha spiegato Marc Check, dovrebbe essere collocato in una mostra nei prossimi mesi.
Anche i musei più piccoli offrono servizi per i disabili. In estate il Norton Museum of Art di West Palm Beach, in Florida, in accordo con le strutture locali per la cura delle malattie mentali, ha dato vita ad un programma per adulti con problemi per l’abuso di sostanze o per deficit mentali. Il North Carolina Museum of Art di Raleigh ha recentemente acquisito nove sculture in bronzo di Rodin per le visite sensoriali. Il Samuel P. Harn Museum of Art presso l'Università della Florida conduce programmi off-site per i residenti delle case di cura e per gli ospiti dei centri anziai che non possono muoversi per visitare il museo.
La direzione per lo scambio tra Arte e Disabilità presso il John F. Kennedy Center for Performing Arts di Washington, DC, assiste nell’allestimento di mostre o varie performances nei musei o in altri luoghi di cultura, consigliando, per esempio, sistemi di ascolto assistito o rappresentazioni sensoriali. Quando, diversi anni fa, Eric Lipp, direttore esecutivo di Open Doors, ha deciso di migliorare l'accessibilità alle istituzioni culturali di Chicago attraverso il suo "Inclusive Art and Culture Program" diversi anni fa, si è rivolto al John F. Kennedy Center.
Da allora, la compagnia teatrale Steppenwolf di Chicago ha migliorato i suoi servizi e i programmi di outreach. Le descrizioni audio dal vivo e le traduzioni nel linguaggio dei segni durante le rappresentazioni sono migliorate in qualità e sono state offerte durante un maggior numero di performances. Sono stati introdotti nuovi servizi, come visite guidate tattili che consentono agli ospiti non vedenti e ipovedenti di salire sul palco, prima dello spettacolo per familiarizzare con l’ambiente.
"Lo Steppenwolf e tutti gli altri intendono continuare così e andare anche oltre” - ha dichiarato Eric Lipp, che è parzialmente paralizzato. "E lo fanno con nessun altra finalità se non quella di produrre dei benefici per la società".
Ringrazio l'amica e collega Ilenia Atzori che mi suggerito la lettura di questo articolo.

 Cari amici, in questi anni in cui ho svolto l’incarico di direttore scientifico del Museo Civico “Ferrante Rittatore Vonwiller”, dal 2019 a...