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I musei nell'era di Facebook e Twitter: istruzioni per l’uso


di Caterina Pisu




I musei moderni sono necessariamente obbligati a confrontarsi e ad adattarsi alla circolazione sempre più intensa di informazioni e di immagini attraverso il web? 
Un articolo di Yasmin Khan del giornale britannico The Guardian ha riportato il parere di alcuni esperti. Il dibattito è aperto e nel Regno Unito  ci si chiede a quale personaggio di Dickens si potrebbero paragonare, oggi, i musei britannici: a una Miss Havisham, imprigionata in un vecchio abito da sposa dentro una camera coperta di ragnatele, oppure all'imprenditore Fagin, preoccupato di aumentare la sua influenza sull’intera città? In Italia potremmo accostare una parte dei musei più tenacemente affezionati alla comunicazione tradizionale, a un Don Abbondio, timoroso di avventurarsi in situazioni più grandi di lui che metterebbero in pericolo le tranquille certezze del suo quotidiano.
Il The Guardian fa riferimento al convegno organizzato dall’Università di Leicester, "Museums in the Information Age: Evolution or Extinction?", svoltosi a Londra, presso il Science Museum, cui hanno partecipato alcuni esperti del settore museale. Si è cercato di capire se i musei stiano effettivamente rispondendo al progresso tecnologico nell’ambito della comunicazione o se, invece, siano in ritardo. Si è discusso soprattutto della necessità di adeguare i musei anche a nuove forme di fruizione dei beni culturali, grazie alla digitalizzazione delle immagini. A questo riguardo, Carole Souter, della Heritage Lottery Fund, ha affermato: - “I musei hanno bisogno di evolversi se vogliono mantenere un ruolo rilevante in questo particolare momento storico. Ciò vuol dire che devono anche essere attenti a quella parte di pubblico che non può venire fisicamente al museo, per esempio mettendo a disposizione online le collezioni esposte nel museo e dando la possibilità anche ai non esperti di partecipare alle discussioni postando i loro commenti”.
Per sua stessa ammissione, Ian Blatchford, direttore del Science Museum, afferma di avere sempre svolto il ruolo di “vecchio parruccone”, concordando sì con la necessità che il museo si orienti verso una evoluzione digitale, ma anche confutando la certezza che le mostre digitali possano realmente sostituirsi in modo efficace a quelle reali: - "La tecnologia digitale non dovrebbe in ogni caso modificare il senso di identità di un museo, le cui finalità e funzioni dovrebbero rimanere le stesse" - ha continuato Blatchford - "Molte delle attività tradizionali che si svolgono nei musei, come le borse di studio, la cura per le collezioni e le esposizioni museali, oggi sono più che mai rilevanti e si riflettono anche nella crescita del numero di visitatori."
In un'epoca in cui il flusso di informazioni è ridondante, l'autenticità e la fiducia hanno ancora più importanza per le persone.” - ha aggiunto – “Non dobbiamo scambiare quello che il pubblico vuole veramente con quello che noi pensiamo che dovrebbe volere.
D’altronde, “è nel DNA di un museo evolversi” - sostiene Ross Parry, docente presso la University of Leicester's School of Museum Studies. – “Il museo moderno ha inevitabilmente cambiato la sua struttura, alcuni aspetti legati alle sue stesse finalità e ai rapporti con il pubblico, così come l’impostazione intellettuale che dà senso alle sue collezioni. Probabilmente Robert Cotton, Hans Sloan, Henry Cole e Oppenheimer non riconoscerebbero più i musei che hanno contribuito a creare.”
Quest’ultima asserzione è assolutamente condivisibile: il museo è sempre stato lo specchio della società nel tempo; un museo ottocentesco non è più in grado di rappresentare le comunità dei nostri giorni. Ed essendo, la nostra, l’epoca della comunicazione globale, dovrebbe essere del tutto naturale, direi fisiologico, che i musei sentano la necessità di una maggiore interazione e capacità di dialogo con i visitatori e le comunità di riferimento, sebbene uno sguardo sereno e obiettivo non potrà non rilevare anche una enfatizzazione della questione, soprattutto in questi ultimi anni, sia in Europa che oltreoceano[1].
In parte, la necessità di allargare il proprio pubblico attraverso le tecnologie della web communication, potrà trovare le sue motivazioni anche nelle trasformazioni sociali degli ultimi decenni che hanno visto, e vedranno ancora di più in futuro, una considerevole contrazione demografica a fronte di un aumento del fenomeno dell’immigrazione nei Paesi industrializzati. E si è notato che questo fenomeno si accompagna all’instaurarsi di abitudini diverse, tra le quali un minor consumo culturale. Attraverso varie indagini condotte fino ad oggi, si calcola che entro 25 anni si avrà un collasso delle visite museali dell’ordine del 20% circa[2]. Anche l’impoverimento generale, dovuto alle gravi crisi finanziarie degli ultimi tempi, produrrà senza dubbio altri cambiamenti delle abitudini sociali che coinvolgeranno anche i musei.
Il bisogno di rinnovamento, quindi, è giustificato ed è realmente urgente trovare nuovi modelli di fruizione per salvare le tradizioni culturali, senza “mummificare” le nostre istituzioni museali ma anche senza sconvolgerne la naturale vocazione. Si è riconosciuta nella “rivoluzione del web 2.0” una delle “ciambelle di salvataggio” che potranno modernizzare rapidamente i musei, ma è necessario comprendere attraverso quali modalità ciò potrà avvenire. Il web 2.0 può essere anche un ambiente insidioso perché alla sua capacità di coinvolgere milioni di persone e di rendere la ricerca delle informazioni del tutto nuova rispetto a decenni fa (grazie alla possibilità di accedere simultaneamente a un gran numero di fonti, all’interscambio di dati e di contenuti, all’utilizzo degli strumenti del project management 2.0), si accompagna, simultaneamente, il rischio di autoreferenzialità o peggio di “protagonismo”, o  ancora il pericolo di restare affascinati da «strategie persuasive» prodotte dall’informazione che fa «rumore»[3]. E gli esempi più recenti ci vengono, per esempio, dalla politica. Grazie al web sono nati movimenti politici, sono scoppiate sommosse (il pensiero va alla primavera araba), e sempre più spesso la “piazza virtuale” si sostituisce agli ambiti istituzionali tradizionalmente vocati al dibattito politico. Ma possiamo dire che si tratta realmente di trasformazioni profonde del sistema politico o si è semplicemente sostituito il vecchio slogan che animava le manifestazioni degli anni Settanta e Ottanta con i più moderni “tweets”? Gli slogan, si sa, entusiasmano le folle, riescono a muoverle all’unisono sia che si tratti di compiere una rivoluzione sia che si debba semplicemente partecipare ad un flash mob; ma oltre questo ci deve essere qualcosa di più: contenuti, proposte, progetti. Altrimenti si rischia che gli slogan restino solo parole, e che le rivoluzioni si trasformino non in un cambiamento ma soltanto in uno spostamento di poteri da una forma di autorità tradizionale ad un’altra che è del tutto simile alla precedente se non peggiore.
In ambito culturale si può affermare che il rischio è più o meno simile. L’autoreferenzialità è un pericolo costante e può avere come conseguenza la diffusione di contenuti non corretti, ma ugualmente convalidati dall’approvazione del popolo del web. L’istituzione museale può svolgere senza dubbio un ruolo importante nella verifica dei contenuti, tanto più efficace quanto più è consolidata la sua autorevolezza negli specifici settori di specializzazione. Questo ruolo del museo non è inconciliabile con il sistema di relazioni che questo intreccia con il proprio contesto di riferimento, tenendo conto, appunto, dell’importanza sempre crescente che ha assunto il visitatore del museo nella creazione e diffusione di contributi “dal basso” che lo hanno reso «protagonista attivo e partecipe ai processi di valorizzazione del museo, finanche nella fase della loro progettazione[4]». La qualità dell’informazione può certamente coesistere, anzi è opportuno che lo sia, con la libera partecipazione della collettività. Questa operazione, così come altre legate alla comunicazione museale, non può svolgersi in modo “astratto” ma necessita di figure professionali specifiche che sono, appunto, i comunicatori museali, e che riassumono, innanzitutto, quelle che sono le competenze proprie di un esperto di comunicazione, ma non solo. Altrettanta importanza è data, per esempio, alla conoscenza delle dinamiche turistiche. Ma dal punto di vista della formazione, c’è ancora una separazione tra le scienze del museo e gli «insegnamenti relativi al turismo ed ai cambiamenti in atto nel settore, in cui è facilmente collocabile anche una ridefinizione del ruolo e delle funzione del museo stesso. Rispetto alla tradizionale idea di “luogo di conservazione” ci si sta avvicinando a quella di “strumento di comunicazione”, rivolto ad un pubblico di soggetti sempre più ampio» [5]. Il cambiamento dovrà partire, dunque, anche da una riprogettazione della formazione universitaria.
I rischi nel web di cui si è trattato finora non sono solo quelli legati a ciò che viene scritto ma riguardano anche l’uso delle immagini e i diritti derivanti dalla proprietà intellettuale. Quando la legge pone dei limiti alla libera circolazione di questi contenuti, in qualche modo va ad imbrigliare la libertà di Internet e il diritto di accedere gratuitamente alle informazioni. Un superamento di questa barriera alla libera fruizione dei dati, è rappresentata dagli Open Data, cioè i dati prodotti da vari enti, resi accessibili a tutti in formato aperto, tra i quali sono incluse anche informazioni finora rimaste inaccessibili al pubblico, come i dati provenienti da musei, librerie e archivi[6]. Tuttavia non sempre l’accesso agli Open Data è garantito in forma totale e non di rado si riscontrano reticenze o restrizioni alla diffusione dei dati. Talvolta ci possono essere ragioni economiche dietro questi modi di agire, anche quando si tratta di immagini fotografiche autoprodotte. In alcuni musei, per esempio, il divieto di fotografare riguarda sia i turisti che gli studiosi e gli studenti, per cui per motivi di studio e di ricerca si è costretti a sborsare svariate decine di euro per ottenere un file di archivio e molti di più per le foto ex novo[7], tariffe di gran lunga superiori a quelle richieste da altri musei europei. Si tratta di restrizioni che certamente dovranno essere modificate o del tutto abolite. Se alcuni musei consentono lo scatto di fotografie e non sono stati riscontrati problemi per la regolare fruizione della visita, non si vedono ragioni perché il consenso non possa essere esteso a tutti. La stessa crescente diffusione di smartphone, tablet e macchine fotografiche digitali, sono un invito a fotografare e condividere le immagini; continuare a imporre divieti che potevano forse ancora essere accettati dieci anni fa, è anacronistico e autolesionistico per i nostri musei.



[1] V. Falletti, “Ripensare il museo” in V. Falletti, M. Maggi, “I musei”, Il Mulino 2012, p. 60
[2] M. Maggi, “Le sfide” ” in V. Falletti, M. Maggi, “I musei”, Il Mulino 2012, p. 185
[3]Autenticità e verità nella cultura dei social network”, L’Osservatore Romano, 25 gennaio 2013)
[4] L. Sollima, “Il museo in ascolto. Nuove strategie di comunicazione per i musei statali”, Rubbettino 2012, p. 25
[5]Rapporto di analisi comparata basata su peer review”, Rapporto di ricerca dell’Università La Sapienza di Roma, 30/07/2011, p. 3. La ricerca ha considerato in che modo i musei di quattro paesi  (Italia, Bulgaria, Romania, Regno Unito) si stanno preparando ad affrontare le trasformazioni che coinvolgono la loro stessa missione: « le istituzioni museali pubbliche e private – e soprattutto quelle di dimensioni medie e piccole – paiono risentire dell’impatto della congiuntura economica sfavorevole nel momento stesso in cui viene a definirsi – anche in modo problematico – una nuova funzione del museo: accanto a quella tradizionale di tutela, conservazione ed esposizione degli oggetti, si sta infatti sempre più facendo strada la concezione del museo anche come spazio pubblico, luogo di espressione dell’identità e di fruizione culturale, polo attrattivo per un vasto pubblico. In sintesi, è in atto un processo per superare la dicotomia tra conservazione, da un lato, e dall’altro valorizzazione dei patrimoni».
[6] Tra i progetti di Open Data che riguardano più direttamente le istituzioni culturali, si ricorda, per esempio, Europeana.
[7]Guardare ma non scattare”, dal blog di Michele Smargiassi, Fotocrazia (http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2011/02/08/guardare-ma-non-scattare/)

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