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La cultura iper connessa: un articolo di Valentina Vacca

Museo digitale e fruizione culturale collettiva. Il dibattito con gli addetti ai lavori.


Ipermoderno, iperreale, iper connesso, iper social. E’ un dominio imponente e inarrestabile quello messo in atto dal prefissoiper durante questi tempi contemporanei, ed è proprio quest’ultimo l'assioma dal quale partire per trattare la tematica del Museo 3.0 e, al contempo, degli incalzanti progetti del Mibact improntati sulla creazione del Museo digitale. Poteva forse la cultura d'oggigiorno -e pertanto tutto il sistema museale- non essere forse integrato entro l'orbita commemorativa dell'iper? .....................................................................

Divulgare con sapienza

Saper comunicare è un'arte, ci spiega la blogger Francesca Pontani 

A proposito della capacità di comunicare, che si tratti di professionisti museali o di specialisti che cercano di fare divulgazione, purtroppo c’è ancora poca consapevolezza di quanto sia importante conoscere i modi e gli strumenti più indicati per rapportarsi con il pubblico non specialista.

L’archeologa e blogger Francesca Pontani ha scritto un bellissimo articolo sul suo blog ArcheoTime, News di Archeologiaa seguito del Festival degli Etruschi. I pirati della bellezza*. Mi è gradito riportare qui alcuni stralci, invitandovi a leggere integralmente l’articolo.

Scrive Francesca:

«L’ho trovato molto evocativo (il titolo della manifestazione) e già da solo ti faceva viaggiare con la mente e l’immaginazione. Ma accanto a tutto questo enorme sforzo di creare una manifestazione apripista e volano anche economico per tutta la provincia, ci sono state una serie di occasioni perse da parte degli attori chiamati in campo in questa “partita”»

«…ma negli eventi pubblici mostriamo il meglio di noi e soprattutto proviamo a COMUNICARE, a TRASMETTERE IL VALORE di quello di cui stiamo parlando: museo/area archeologica/scavo archeologico, ecc. ecc.».

«Basterebbe essere più sicuri di se stessi e COMUNICATIVI per acquistare automaticamente autorevolezza. Anche perché si può essere professionali, precisi e “scientifici” ma anche divulgativi allo stesso tempo».

«Le slide: anche questo un capitolo a parte… pure queste (nella maggior parte) accademiche e “noiose” …tranne un caso in cui per mostrare i luoghi di cui si parlava ci si è rivolti a chi con la fotografia cerca di comunicare emozioni e viaggi interiori… (e ci riesce sempre davvero…) ecco: perché in occasione di questa manifestazione i vari relatori non hanno cercato di trovare immagini più accattivanti??…boh (…mistero…)».

«Si perché tu CI DOVEVI INVITARE A VENIRE a trovarti lì dove tu stai, ci dovevi coinvolgere, CI DOVEVI FAR VENIR VOGLIA DI VENIRE DI CORSA (dico: DI C-O-R-S-A) a vedere il tuo museo/area archeologica/reperto archeologico di cui stavi parlando … e invece no, solo (o quasi) analisi dettagliate con linguaggio tecnico».

«ESSERE COMUNICATIVI È UN’ARTE E UN TALENTO, su questo mi rendo conto: è un lavoro vero e proprio che a volte dobbiamo fare su noi stessi… però uno sforzo a calibrare e “adattare” le proprie (solite) didascaliche relazioni andava fatto, questa volta ne valeva la pena davvero…».

Riguardo, poi, i rappresentanti delle pubbliche amministrazioni che hanno patrocinato l’evento, scrive Francesca:

«Dico solo una frase: ma dove stavano?? Non hanno alcun interesse a dare valore a chi (a titolo gratuito) va lì a fare “pubblicità” alle bellezze storiche/archeologiche/naturalistiche del loro territorio comunale? Io non li ho visti per nulla: non hanno questi comuni degli assessori alla cultura? Qualcuno che si occupa del museo che è presente nel loro territorio?»

Non posso non essere d’accordo con Francesca Pontani. Troppo spesso le Istituzioni locali si preoccupano più del fatto che i propri musei sono un fardello da sostenere piuttosto che pensare ad essi come ad un una opportunità da sfruttare, iniziando proprio, tra le varie priorità, da una valida strategia comunicativa che faccia dei musei il miglior biglietto da visita soprattutto dei piccoli centri. Non ci si può meravigliare, poi, che quando i musei sono lasciati abbandonati a se stessi, dopo un iniziale entusiasmo ed investimento economico (magari in concomitanza con qualche campagna elettorale), subiscano l’inevitabile destino di scomparire.

La comunicazione, dunque, è un gioco di squadra, un’arte – come ha ben scritto Francesca – ed è fatta di strategie sapienti che vanno oltre le “adunate” sul web, e che prendono in considerazione tutti gli strumenti a nostra disposizione, da quelli moderni, digitali e non, a quelli tradizionali, combinandoli insieme, sotto forma di racconto, di dialogo, di compartecipazione, senza trascurare alcuno e cercando di raggiungere tutti, dal bambino delle elementari all’ottantenne che non possiede né tablet né pc. 


* Manifestazione che si è svolta nei giorni 11-13 settembre a Viterbo, da un progetto degli ideatori di Caffeina Cultura. Qui il programma.

Public engagement: iniziare dai più vicini

La fondamentale azione di un “team comunitario” nella progettazione dei musei



Un articolo di evemuseografia.com suggerisce con quali modalità e quali professionalità necessitano quando si allestisce un nuovo museo o si rinnova un allestimento: le fasi fondamentali non sono solo quelle che riguardano la progettazione e, successivamente, la campagna pubblicitaria o di marketing che servirà a promuoverlo; chi partecipa alla sua realizzazione, dovrebbe mettere in atto determinate strategie molto tempo prima dell’apertura o della riapertura del museo. E’ fondamentale che in questo procedimento sia coinvolta la comunità dal momento stesso in cui il progetto museale viene concepito. Al momento della creazione di un progetto di costruzione o di ristrutturazione di un museo, infatti, parallelamente al lavoro svolto da tecnici, designer, scrittori, ed altri specialisti (team scientifico), bisognerebbe anche formare un team di mediatori incaricato di fare da collegamento tra i professionisti museali e la comunità. Ovviamente questo team dovrà agire in stretto coordinamento con il primo.
Questo gruppo di specialisti, che chiameremo team comunitario, avrà la funzione principale di trasferire i bisogni, le preoccupazioni e i valori importanti per la comunità al team scientifico che dovrà poi elaborarli e cercare di darne riscontro nell’esposizione museale. Il metodo di lavoro dovrebbe essere basato sulla creazione di vari gruppi di discussione formati per esempio da storici oppure, a seconda dei musei, da scienziati, insegnanti, esperti di turismo, imprenditori, organizzazioni culturali, associazioni di quartiere, associazioni giovanili, eccetera. In altre parole, nel dibattito bisognerà includere voci complementari che potranno fare proposte al team tecnico e quindi aiutarli a recepire gli aspetti fondamentali o le questioni legate alla tradizione, al costume e alle aspirazioni fondamentali della gente.
Dobbiamo anche tenere conto di quelle minoranze che sono più distanti rispetto alle peculiarità del museo in questione, come nel caso di altre realtà culturali e religiose di gruppi di immigrati, di fasce sociali emarginate e con accesso limitato alla cultura, di gruppi con bisogni educativi speciali e così via.
L’approccio collaborativo può essere utilizzato sia per i nuovi musei che per quelli che hanno bisogno di rinnovarsi e quindi di riformulare la propria missione perché quando sono stati creati questi aspetti sociali non erano stati presi in considerazione.

Bisogna partire dal presupposto che la nostra rete di visitatori è concentrica e inizia dal pubblico più vicino a noi: il quartiere, per primo, poi la città e la regione, sono le prime realtà da coinvolgere. L’attrazione che si saprà esercitare nei confronti del pubblico più vicino sarà fondamentale per attrarre, poi, tutti gli altri.

Anteprima di #smallmuseumtour speciale #EXPO Milano 2015

Domani, lunedì 4 maggio, alle ore 15, appuntamento su Twitter per l'anteprima di #smallmuseumtour, l'iniziativa social promossa da Associazione Nazionale Piccoli Musei: parleremo dei musei che parteciperanno, delle tematiche, della ultimazione del calendario in relazione ai mesi di giugno e luglio.
Ci sarà del materiale da vedere e soprattutto faremo in modo che anche l'anteprima si trasformi in un bel dialogo tra professionisti museali, studiosi e pubblico.

Libere riflessioni sulle Invasioni Digitali



Invasioni Digitali si è imposta all’attenzione del pubblico ormai da alcuni anni, invitando le persone a visitare i luoghi della cultura e a condividerne fotografie e video attraverso i social media. Osservando le Invasioni che si sono svolte in questi anni e che si stanno compiendo proprio in questi giorni, si nota la quasi totale assenza, con poche eccezioni, di un “racconto” delle varie iniziative. Intendo, con questo, non tanto la creazione di storify realizzati dopo gli eventi, ma il racconto dell’Invasione mentre questa è in corso. Un esempio può essere Urban Experience, cui ho avuto occasione di prendere parte non molto tempo fa, a Viterbo.
Chi non partecipa realmente all’evento, infatti, rimane escluso, e le foto, soprattutto quelle postate su Twitter, spesso sono corredate da poche descrizioni. Ciò comporta che, nell’insieme, le Invasioni non siano altro che un’ampia panoramica di tanti luoghi culturali che rischia, però, nel suo insieme, di apparire indistinta. Inoltre, mancando delle efficaci forme di “racconto”, chi segue dall’esterno non viene coinvolto, soprattutto dal punto di vista emotivo, e quindi si osservano poche interazioni esterne. La “partecipazione” collettiva sui social è un aspetto fondamentale e indispensabile per un evento che vuole promuovere la comunicazione digitale. Il primo impegno dovrebbe essere, dunque, non solo la condivisione di immagini (e possibilmente di contenuti) ma soprattutto l’interazione con il resto della comunità digitale.


La sensazione che Invasioni Digitali non faccia emergere le singole esperienze in modo più visibile si evidenzia anche nella consuetudine, prevista dal regolamento, di scattare una foto di gruppo finale con il cartello recante la scritta “Invasione compiuta”. Questo dettaglio, apparentemente poco rilevante, in realtà contribuisce a rendere le iniziative meno “personali”. Se infatti ogni Invasione si concluderà in maniera identica, soprattutto per quanto riguarda lo slogan utilizzato, sarà problematico individuare delle differenze tra un evento e l’altro; invece, se al posto dello slogan uguale per tutti, il cartello venisse utilizzato per inviare un messaggio più soggettivo, una breve frase che sia in grado di rappresentare con estrema sintesi i sentimenti del gruppo che ha compiuto quella determinata Invasione, scelta con l’aiuto di ciascuno (operazione che aiuterebbe anche a elaborare l’esperienza), allora non solo le Invasioni apparirebbero meno standardizzate, ma gli Invasori assumerebbero un ruolo ancora più attivo. 



#smallmuseumtour: meeting the museum on Twitter









by Caterina Pisu


Virtual Visits and Access


A museum may be visited in various ways, either alone or together with a party of others or virtually. Technology today makes this possible and visitors have the opportunity to visit museums from their own home.

Visiting museums on the web may be very useful in preparing for the real visit, but the spirit of a work of art as described in a museum may be lacking in spite of HD technology resembling closely reality as we know it. 

Yet sometimes this is the only way for some of us to be able to visit a museum ! Having “access” to a museum means efficient technology to overcome barriers which may prevent access to visitors who are unable to reach a museum physically. This would greatly reduce differences and is sometimes the only possible solution for some art lovers and museum visitors.



Virtual visits: creating interaction


The inevitable limit of virtual tours is the lack of a certain atmosphere and emotion created by being there, and the personal and social interaction. The great difference between visiting a museum really and visiting it virtually, is the lack of human interaction.

The human element cannot be reproduced by virtual reality, unless the idea of virtual is adapted to new kinds of communication used by the social media. This is the idea at the root of the #smallmuseumtour project which simulates a museum visit throughTwitter. Its main feature is not high definition images, but the emphasis on dialogue within a virtual community interacting exactly as if each member virtually visiting the museum on site in different locations were all one party. The social aspect is perhaps the most important feature when it comes to overcome obstacles and inequalities. Bearing this in mind, we also considered institutions for the disabled, prisons and the like, while we worked on this project. 



Museums staff and Visitors : two worlds meet


Overcoming barriers was not the only target of #smallmuseumtour. The formality between the public and staff attracted our attention. Excepting certain special occasions, in some museums the only staff in touch with visitors was Security staff. Thus, the “behind the scenes” was hidden or left to the imagination.

Yet whoever has visited a museum and conversed with the museum curator or other qualified staff would agree that they gained deeper knowledge and made new discoveries that otherwise would not have been made in an ordinary visit. Only rarely does close contact occur, and this is where we step in to offer precisely that kind of interaction through the medium of the social network on the web. We aim to create a close and exciting relationship with museums and the marvelous treasures they contain.



The #smallmuseumtour project


#smallmuseumtour has devised to this effect a plan to promote museums through dialogue and social interaction. The first of its cyclical virtual visits which took place May 12th to July 28th 2014on a weekly basis ; we involved twelve museums of various kinds and different forms of ownership. We avoided ‘tweet’ counts and other web statistics which usually determine the "success" of a hashtag, because our aim in fact, was to perfect virtual museum visits rather than create a web trend. We aimed at creating as closely as possible the reality of a visit to a museum, especially for those who were physically unable to admire real life collections and at creating a dialogue with museum curators, staff and followers.

Other opportunities have been introduced on the Web in various forms, as for example #AskACurator day, but #smallmuseumtour offers exclusively and for the first time, a virtual visit to one single museum at a time. Thus, closer attention is given to a further dialogue between curators and followers. 



#smallmuseumtour  step by step


In order to achieve the best results in terms of a virtual museum tour using Twitter as a social network, certain rules had to be applied: virtual visit duration is 60 minutes; eight pictures are chosen by the curators for each visit, and under special circumstances according to advice from the museum curators themselves, the number may be more. During visits, the Twitter accounts of National Association of Small Museums act as curators “assistants”, tweeting pictures at regular intervals. Museum curators commented each picture and answered questions put by the followers at that very moment. In some cases the tour takes on a livelier turn by adding quizzes and video.


Future Prospects

A second cycle of virtual tours is planned at November 2014.


@piccolimusei @piccolimusei2

Musei e social networks: i diversi livelli dell’engagement





Un interessante articolo di Natalia Grincheva, “How Far Can We Reach? International Audiences in Online Museums Communities” [1], analizza il metodo per rilevare in che modo i musei, attraverso i social networks, riescono a ottenere il coinvolgimento non solo del pubblico più vicino ma anche di quello internazionale.
Nella sua analisi, l’autrice compie una “scomposizione” del concetto di “engagement” suddividendo questo processo in vari livelli [2]: coinvolgimento, partecipazione, interazione, intimità, e influenza. 
In questa sede si focalizzerà l’attenzione sulla descrizione di tali livelli.

Coinvolgimento

Il “coinvolgimento” è il livello iniziale del rapporto che il pubblico instaura con un museo. In questa fase la partecipazione avviene a livello generale e rappresenta l’interesse che il pubblico esprime riguardo il contenuto, le attività e le collezioni del museo. Il coinvolgimento può essere monitorato e controllato in base ai dati quantitativi offerti dal web, ovvero attraverso il numero delle visite, il numero di pagine viste, il tempo di permanenza su ogni pagina,  la frequenza delle visite e le connessioni stabilite con il museo sui siti di social network (ad esempio Facebook, Flickr, YouTube, e Twitter).

Partecipazione

La “partecipazione” rappresenta un livello più alto dell’engagement e si riferisce a tutte quelle azioni che portano il pubblico a stabilire una relazione o a connettersi con il museo. Si evidenzia in base agli eventi cui le stesse persone danno un loro contributo con propri contenuti creativi, scrivendo commenti o partecipando a sondaggi, richiedendo ulteriori informazioni su mostre o progetti, iscrivendosi ai feed RSS, via newsletter o e-mail, o acquistando biglietti per il museo on-line. La misura della partecipazione si ottiene attraverso la presenza di una serie concreta di azioni che le persone compiono: per esempio conversazioni che si svolgono sui blog, il caricamento di foto e video, i contributi sui social media, compresi quelli di propria creazione, i “like” e i commenti.

Interazione

L'"interazione" è un livello dell’engagement che rappresenta come gli individui all'interno di una comunità sono collegati tra loro e se questi collegamenti sono abbastanza forti per sostenere la comunità online che si è formata intorno al museo. L’ interazione si misura attraverso i dati qualitativi e quantitativi che indicano se gli individui si scambiano informazioni, contenuti e opinioni attraverso attività di collaborazione o interattive. Questi dati si basano sul numero di collaborazioni che si sono create tra i partecipanti, sul numero di contributi realizzati in collaborazione, sul numero e sui contenuti dei messaggi che queste persone si scambiano tra loro, e infine sul numero e sul significato dei commenti lasciati ciascuno sui post degli altri.

Intimità

L'”intimità” rappresenta la componente emotiva dell’engagement ovvero i sentimenti (positivi o negativi) che gli spettatori hanno verso un dato museo. La misurazione dell’”intimità”, dunque, va oltre la quantificazione delle interazioni e misura, piuttosto, lo stato emotivo o il sentimento che il pubblico mostra verso il museo o nei riguardi di eventi specifici, collezioni e progetti. Questa misurazione si basa sulla raccolta e sull'analisi di tali dati qualitativi quali opinioni, sensazioni e stati emotivi nei confronti del museo, che possono essere espressi attraverso il linguaggio (la scelta di determinate parole) e il contenuto/significato dei messaggi provenienti dal pubblico.

Influenza

L'”influenza” indica la capacità che alcuni individui hanno nel promuovere il museo ad un pubblico più ampio. Per un museo, quindi, è importante identificare gli "influenzatori" tra il pubblico e misurare la portata della loro influenza attraverso la grandezza e la diversificazione delle loro reti personali e  il tipo di azioni svolte al fine di promuovere il museo. Quantitativamente, l’influenza può essere evidenziata, dunque, nel numero di tali "influenzatori", nella frequenza delle loro azioni promozionali a favore del museo, e nel numero di followers che essi hanno. Qualitativamente, invece, esse si evidenzia nel linguaggio e nel contenuto dei messaggi che essi sollecitano nell’ambito della più ampia comunità. L'influenza è una componente determinante dell’engagement perché indica se il museo, nell’ambito della sua  comunità, ha dei sostenitori che agiscono per conto del museo per attirare nuovi simpatizzanti e in questo modo moltiplicano la portata e l’efficacia dei messaggi originati dal museo.






[1] The International Journal of Technology, Knowledge and Society, Volume 7, Issue 4, Champaign, Illinois, USA, 2012
[2] Questa analisi è stata effettuata dall’autrice combinando due differenti punti di vista: da una parte il concetto espresso da Brian Haven, un ricercatore in social computing della Forrester University, (Haven, Brian. 2007, Marketing’s New Key Metric: Engagement. Forrester. http://www.adobe.com/ engagement/pdfs/marketings_new_key_metric_engagement.pdf (accessed October 08, 2010); dall’altra il concetto sviluppato da Nina Simon, autrice del libro The Participatory Museum, (Simon 2007, www.participatorymuseum.org).

The spirit of sharing: le nuove strategie di comunicazione dei musei nell'epoca di Twitter


Dal New York Times del 16 marzo 2011, è tratto questo articolo di Carol Vogel, intitolato “The Spirit of Sharing” che descrive in che modo alcuni musei statunitensi si sono preparati ad affrontare i cambiamenti imposti dalle nuove tecnologie alla comunicazione museale. L’articolo mette in evidenza il lavoro svolto dai singoli professionisti che operano nel settore della comunicazione digitale di alcuni grandi musei. Persone che, talvolta, vivono quasi ininterrottamente “on-line” e che hanno il compito di monitorare le propensioni e gli interessi dei visitatori internauti e il loro modo di comunicare con l’istituzione museale. Un lavoro non facile che deve essere affrontato tenendo sempre presente gli obiettivi primari del museo senza farsi condizionare dalle “mode” che inevitabilmente le folle contribuiscono a diffondere e cercando di svolgere il proprio ruolo di mediatori nei confronti della società. Siamo, però, ancora all’inizio di questa trasformazione della comunicazione tra i musei e il pubblico. I progetti che implicano partecipazione e condivisione di contenuti sono ancora relativamente pochi e per ora la maggior parte dei curatori continua a svolgere il proprio lavoro in modo tradizionale.





Shelley Bernstein vive con il suo computer. Quasi tutti i giorni si rintana nel suo ufficio spartano presso il Brooklyn Museum, dove lavora come Chief Technology Officer, inventando modi per far venire le persone in visita al museo e al suo sito Web, brooklynmuseum.org.


Ogni sera torna a casa in bicicletta, a Red Hook, Brooklyn, per stare con Teddy, il suo amato pit bull, e anche da casa continua a monitorare la presenza dell'istituzione su Facebook, Flickr, YouTube, Four Square e Twitter, dove ha quasi 183.000 seguaci.
Alcuni dei suoi progetti – per esempio mostrare ai suoi followers un tepee di 28 metri in costruzione nel museo o invitarli a partecipare ad una mostra proponendo un quiz sulle arti visive – le hanno portato a una marea di inviti a tenere conferenze in tutto il mondo.
Un decennio fa, i siti web museali erano poco più che una pagina di pubblicità on-line e si limitavano alla visualizzazione degli orari del museo, dei prezzi del biglietto d’ingresso e delle mostre in corso. Ora, invece, la tecnologia in continua evoluzione ha creato nuove opportunità, e persone come Shelley Bernstein stanno diventando elementi fondamentali per aiutare i musei a svilupparsi.
Se avrete occasione di parlare con qualunque professionista che si occupi di nuove tecnologie museali, vedrete che inevitabilmente la conversazione si focalizzerà soprattutto su una parola: fidelizzazione.
«Puntiamo più sul visitatore che sulla tecnologia» - conferma la trentasettenne, dinamica Shelley, rispondendo prontamente a ogni domanda del suo intervistatore. «Alla fine, quello che vogliamo è che le persone sentano di appartenere a questo museo. Chiediamo loro di dirci quello che pensano. Anche le recensioni negative, in caso di un nostro errore, ci possono essere d’aiuto. Vogliamo entrare in contatto con la nostra comunità.»
I musei hanno cercato a lungo di essere luoghi accoglienti e paradisi dell’apprendimento, ma ora i social media li stanno trasformando in luoghi di creazione di comunità virtuali. Su Facebook o su Twitter o su qualsiasi sito web museale, ognuno può esprimere il suo parere. Perciò i curatori e i visitatori on-line possono comunicare, imparando gli uni dagli altri. E quando i visitatori portano al museo i propri dispositivi palmari, la potenziale interattività si intensifica.
Tuttavia, c'è un avvertimento. La nuova tecnologia è «stimolante, e riusciamo a dare una grande quantità di informazioni» - afferma Thomas P. Campbell, direttore del Metropolitan Museum of Art - «ma dobbiamo ricordare alla gente che il loro obiettivo è la scoperta dell’arte.»
La tecnologia e tutti i suoi strumenti rappresentano anche le nuove sfide dei musei. Tra queste: come installare un accesso internet wireless in vecchi edifici, così che i visitatori possano utilizzare i propri dispositivi; come tenere il passo con le continue richieste dei social media e, ancora più importante, come calibrare l’influenza del pubblico sulle attività del museo.
E’ anche importante non farsi coinvolgere troppo dalle mode. Non dimentichiamo che una volta «tutti avevano un pogo stick (saltarello) e uno scooter», ha continuato il direttore - «e che ora, invece, tutti twittano.»
Il Met ha creato la sua pagina web sull’evoluzione della storia dell'arte nel 2000, riuscendo ad attirare, lo scorso anno, più di sei milioni di visitatori. Ora(2011) il sito Web sta avendo un restyling che sarà concluso  a fine estate.
Definendo quello che la tecnologia sta producendo per il museo "un delirio di creatività", il direttore ha aggiunto: «Ogni generazione deve trovare le giuste modalità di comunicazione, e se ciò aiuta a tenere le porte aperte, allora è una buona cosa.»
Gli sviluppatori di queste tecnologie dicono che non esiste un limite alla portata del flusso di informazioni. Quando il San Francisco Museum of Modern Art dovette portare al laboratorio di restauro uno dei suoi quadri più famosi, la "Donna con un cappello" di Matisse, fu postata su Facebook una fotografia delle operazioni di rimozione del quadro. «In questo modo la gente poteva dare una sbirciatina dietro le quinte in tempo reale» - ricorda Ian Padgham, membro dello staff che cura la comunicazione digitale del museo - «È tutta una questione di trasparenza e spontaneità.»
In occasione di un viaggio a Parigi, racconta Padgham, ha pensato di cercare i luoghi dove avevano lavorato gli artisti rappresentati nella collezione del museo: «Sono stato in grado di trovare il punto esatto in cui Man Ray ha fotografato St. Sulpice». Così ha realizzato una fotografia dalla stessa angolazione e l’ha postata su Facebook con un link che rimandava all'opera originale. Il post di Facebook è stato "apprezzato" da 189 persone ed ha suscitato commenti entusiastici.
Al Museo d'Arte di Indianapolis , invece, gli utenti web possono esplorare le sue collezioni, i suoi membri, il numero di visitatori che ha avuto in un giorno specifico, e anche quanto impegno viene messo in tutte le attività. «Ci piace condividere le informazioni con il pubblico, con la stampa e con il nostro personale» - ha detto Robert Stein, vice direttore per la ricerca, la tecnologia e l'engagement al museo di Indianapolis -«Questa è una delle nostre missioni più importanti.»
Il sito web del Metropolitan Museum of Art, invece, ha dato vita ad una nuova iniziativa denominata "Connections", dove, dietro le quinte, lo staff del museo – in particolare un educatore e un produttore di media - parlano delle loro opere preferite, appartenenti alla collezione del museo. «Abbiamo creato un equilibrio tra le opinioni personali e quelle degli accademici» - afferma Erin Coburn, il chief officer of digital media del Met.
Il museo ha anche creato una sezione del sito web denominata Date Night per il giorno di San Valentino , con un assistente editoriale che descrive le opere d’arte più romantiche del Met. L’iniziativa è stata postata su Facebook, ed è stato chiesto agli utenti di condividere ciò che pensavano di queste opere. «Volevamo riproporla in ambiti differenti», ha spiegato Erin Coburn, e così il post ha ricevuto centinaia di “like”.
La differenza è che mentre i social media hanno ricevuto sempre così tanta attenzione – continua Erin Coburn - «sul sito web non ci sono state richieste di avere un maggior numero di informazioni o di avere più immagini ingrandite, più testi descrittivi, video e audio, tutti riuniti in un medesimo spazio.»
Per coloro che vogliono conoscere nei dettagli i "singoli pezzi", il museo ha introdotto anche delle applicazioni per i dispositivi mobili. Il primo è stato quello per l’esposizione, Guitar Heroes: Legendary Craftsmen from Italy to New York. Da quando è stato introdotto, il 5 febbraio 2011, più di 40.000 persone lo hanno scaricato.
Per alcuni musei, i siti Web funzionano come se fossero il loro ingresso principale. Il numero di visitatori presso l’Indianapolis Museum of Art, nel 2010, era di 430.000 visitatori, ma il suo sito web ha avuto quasi un milione di utenti che hanno potuto vedere le collezioni del museo, guardare i video e contribuire ai blog.
«Dobbiamo essere rilevanti sul Web, rendendo costantemente interessanti le nostre informazioni» - afferma Maxwell L. Anderson , direttore del Museo d'Arte di Indianapolis. Un modo, ha detto, è  quello che lui definisce il potere del "pensiero collettivo." E così nel 2009, il museo, ha creato artbabble.org, un sito Web che offre video di istituzioni museali di tutto il mondo. «Abbiamo iniziato con sei partner e ora ne abbiamo 30 in tutto il mondo», ha detto Stein.


Il network internazionale del Solomon R. Guggenheim Museum ha dato un nuovo significato alla democratizzazione dell'arte quando ha creato il progetto YouTube Play, grazie al quale chiunque, con una videocamera e un computer, aveva la possibilità di inserire filmati nella sua biennale di video creativi che ha avuto luogo nel mese di ottobre in tutti i musei Guggenheim sparsi nel mondo. 
La biennale è stato un tale successo - 23.358 proposte provenienti da 91 paesi e più di 24 milioni di spettatori su YouTube – tanto che il Guggenheim è già in trattative con YouTube per l’organizzazione della prossima. «Ci ha dato la possibilità di comunicare in modo più diretto con le persone» - ha detto Nancy Spector, curatore capo del Guggenheim di New York - «Ed è stato l’inizio dell’utilizzo di un mezzo di comunicazione e di condivisione che si pensava che fosse di bassa cultura, ma che invece sta emergendo come una forma d'arte.»
La partecipazione pubblica sta prendendo forme diverse in vari musei. Il sito web del Brooklyn Museum, per esempio, ha organizzato un quiz  che aiuterà alla creazione della mostra Split Second: Indian Paintings.

Bisogna dire, in conclusione, che progetti come quelli del Brooklyn Museum e del Guggenheim sono eccezioni. La maggior parte di ciò che accade dentro i musei è ancora a cura dagli studiosi. L'obiettivo di tutta questa tecnologia resta ancora quella di portare la gente al museo.

I musei nell'era di Facebook e Twitter: istruzioni per l’uso


di Caterina Pisu




I musei moderni sono necessariamente obbligati a confrontarsi e ad adattarsi alla circolazione sempre più intensa di informazioni e di immagini attraverso il web? 
Un articolo di Yasmin Khan del giornale britannico The Guardian ha riportato il parere di alcuni esperti. Il dibattito è aperto e nel Regno Unito  ci si chiede a quale personaggio di Dickens si potrebbero paragonare, oggi, i musei britannici: a una Miss Havisham, imprigionata in un vecchio abito da sposa dentro una camera coperta di ragnatele, oppure all'imprenditore Fagin, preoccupato di aumentare la sua influenza sull’intera città? In Italia potremmo accostare una parte dei musei più tenacemente affezionati alla comunicazione tradizionale, a un Don Abbondio, timoroso di avventurarsi in situazioni più grandi di lui che metterebbero in pericolo le tranquille certezze del suo quotidiano.
Il The Guardian fa riferimento al convegno organizzato dall’Università di Leicester, "Museums in the Information Age: Evolution or Extinction?", svoltosi a Londra, presso il Science Museum, cui hanno partecipato alcuni esperti del settore museale. Si è cercato di capire se i musei stiano effettivamente rispondendo al progresso tecnologico nell’ambito della comunicazione o se, invece, siano in ritardo. Si è discusso soprattutto della necessità di adeguare i musei anche a nuove forme di fruizione dei beni culturali, grazie alla digitalizzazione delle immagini. A questo riguardo, Carole Souter, della Heritage Lottery Fund, ha affermato: - “I musei hanno bisogno di evolversi se vogliono mantenere un ruolo rilevante in questo particolare momento storico. Ciò vuol dire che devono anche essere attenti a quella parte di pubblico che non può venire fisicamente al museo, per esempio mettendo a disposizione online le collezioni esposte nel museo e dando la possibilità anche ai non esperti di partecipare alle discussioni postando i loro commenti”.
Per sua stessa ammissione, Ian Blatchford, direttore del Science Museum, afferma di avere sempre svolto il ruolo di “vecchio parruccone”, concordando sì con la necessità che il museo si orienti verso una evoluzione digitale, ma anche confutando la certezza che le mostre digitali possano realmente sostituirsi in modo efficace a quelle reali: - "La tecnologia digitale non dovrebbe in ogni caso modificare il senso di identità di un museo, le cui finalità e funzioni dovrebbero rimanere le stesse" - ha continuato Blatchford - "Molte delle attività tradizionali che si svolgono nei musei, come le borse di studio, la cura per le collezioni e le esposizioni museali, oggi sono più che mai rilevanti e si riflettono anche nella crescita del numero di visitatori."
In un'epoca in cui il flusso di informazioni è ridondante, l'autenticità e la fiducia hanno ancora più importanza per le persone.” - ha aggiunto – “Non dobbiamo scambiare quello che il pubblico vuole veramente con quello che noi pensiamo che dovrebbe volere.
D’altronde, “è nel DNA di un museo evolversi” - sostiene Ross Parry, docente presso la University of Leicester's School of Museum Studies. – “Il museo moderno ha inevitabilmente cambiato la sua struttura, alcuni aspetti legati alle sue stesse finalità e ai rapporti con il pubblico, così come l’impostazione intellettuale che dà senso alle sue collezioni. Probabilmente Robert Cotton, Hans Sloan, Henry Cole e Oppenheimer non riconoscerebbero più i musei che hanno contribuito a creare.”
Quest’ultima asserzione è assolutamente condivisibile: il museo è sempre stato lo specchio della società nel tempo; un museo ottocentesco non è più in grado di rappresentare le comunità dei nostri giorni. Ed essendo, la nostra, l’epoca della comunicazione globale, dovrebbe essere del tutto naturale, direi fisiologico, che i musei sentano la necessità di una maggiore interazione e capacità di dialogo con i visitatori e le comunità di riferimento, sebbene uno sguardo sereno e obiettivo non potrà non rilevare anche una enfatizzazione della questione, soprattutto in questi ultimi anni, sia in Europa che oltreoceano[1].
In parte, la necessità di allargare il proprio pubblico attraverso le tecnologie della web communication, potrà trovare le sue motivazioni anche nelle trasformazioni sociali degli ultimi decenni che hanno visto, e vedranno ancora di più in futuro, una considerevole contrazione demografica a fronte di un aumento del fenomeno dell’immigrazione nei Paesi industrializzati. E si è notato che questo fenomeno si accompagna all’instaurarsi di abitudini diverse, tra le quali un minor consumo culturale. Attraverso varie indagini condotte fino ad oggi, si calcola che entro 25 anni si avrà un collasso delle visite museali dell’ordine del 20% circa[2]. Anche l’impoverimento generale, dovuto alle gravi crisi finanziarie degli ultimi tempi, produrrà senza dubbio altri cambiamenti delle abitudini sociali che coinvolgeranno anche i musei.
Il bisogno di rinnovamento, quindi, è giustificato ed è realmente urgente trovare nuovi modelli di fruizione per salvare le tradizioni culturali, senza “mummificare” le nostre istituzioni museali ma anche senza sconvolgerne la naturale vocazione. Si è riconosciuta nella “rivoluzione del web 2.0” una delle “ciambelle di salvataggio” che potranno modernizzare rapidamente i musei, ma è necessario comprendere attraverso quali modalità ciò potrà avvenire. Il web 2.0 può essere anche un ambiente insidioso perché alla sua capacità di coinvolgere milioni di persone e di rendere la ricerca delle informazioni del tutto nuova rispetto a decenni fa (grazie alla possibilità di accedere simultaneamente a un gran numero di fonti, all’interscambio di dati e di contenuti, all’utilizzo degli strumenti del project management 2.0), si accompagna, simultaneamente, il rischio di autoreferenzialità o peggio di “protagonismo”, o  ancora il pericolo di restare affascinati da «strategie persuasive» prodotte dall’informazione che fa «rumore»[3]. E gli esempi più recenti ci vengono, per esempio, dalla politica. Grazie al web sono nati movimenti politici, sono scoppiate sommosse (il pensiero va alla primavera araba), e sempre più spesso la “piazza virtuale” si sostituisce agli ambiti istituzionali tradizionalmente vocati al dibattito politico. Ma possiamo dire che si tratta realmente di trasformazioni profonde del sistema politico o si è semplicemente sostituito il vecchio slogan che animava le manifestazioni degli anni Settanta e Ottanta con i più moderni “tweets”? Gli slogan, si sa, entusiasmano le folle, riescono a muoverle all’unisono sia che si tratti di compiere una rivoluzione sia che si debba semplicemente partecipare ad un flash mob; ma oltre questo ci deve essere qualcosa di più: contenuti, proposte, progetti. Altrimenti si rischia che gli slogan restino solo parole, e che le rivoluzioni si trasformino non in un cambiamento ma soltanto in uno spostamento di poteri da una forma di autorità tradizionale ad un’altra che è del tutto simile alla precedente se non peggiore.
In ambito culturale si può affermare che il rischio è più o meno simile. L’autoreferenzialità è un pericolo costante e può avere come conseguenza la diffusione di contenuti non corretti, ma ugualmente convalidati dall’approvazione del popolo del web. L’istituzione museale può svolgere senza dubbio un ruolo importante nella verifica dei contenuti, tanto più efficace quanto più è consolidata la sua autorevolezza negli specifici settori di specializzazione. Questo ruolo del museo non è inconciliabile con il sistema di relazioni che questo intreccia con il proprio contesto di riferimento, tenendo conto, appunto, dell’importanza sempre crescente che ha assunto il visitatore del museo nella creazione e diffusione di contributi “dal basso” che lo hanno reso «protagonista attivo e partecipe ai processi di valorizzazione del museo, finanche nella fase della loro progettazione[4]». La qualità dell’informazione può certamente coesistere, anzi è opportuno che lo sia, con la libera partecipazione della collettività. Questa operazione, così come altre legate alla comunicazione museale, non può svolgersi in modo “astratto” ma necessita di figure professionali specifiche che sono, appunto, i comunicatori museali, e che riassumono, innanzitutto, quelle che sono le competenze proprie di un esperto di comunicazione, ma non solo. Altrettanta importanza è data, per esempio, alla conoscenza delle dinamiche turistiche. Ma dal punto di vista della formazione, c’è ancora una separazione tra le scienze del museo e gli «insegnamenti relativi al turismo ed ai cambiamenti in atto nel settore, in cui è facilmente collocabile anche una ridefinizione del ruolo e delle funzione del museo stesso. Rispetto alla tradizionale idea di “luogo di conservazione” ci si sta avvicinando a quella di “strumento di comunicazione”, rivolto ad un pubblico di soggetti sempre più ampio» [5]. Il cambiamento dovrà partire, dunque, anche da una riprogettazione della formazione universitaria.
I rischi nel web di cui si è trattato finora non sono solo quelli legati a ciò che viene scritto ma riguardano anche l’uso delle immagini e i diritti derivanti dalla proprietà intellettuale. Quando la legge pone dei limiti alla libera circolazione di questi contenuti, in qualche modo va ad imbrigliare la libertà di Internet e il diritto di accedere gratuitamente alle informazioni. Un superamento di questa barriera alla libera fruizione dei dati, è rappresentata dagli Open Data, cioè i dati prodotti da vari enti, resi accessibili a tutti in formato aperto, tra i quali sono incluse anche informazioni finora rimaste inaccessibili al pubblico, come i dati provenienti da musei, librerie e archivi[6]. Tuttavia non sempre l’accesso agli Open Data è garantito in forma totale e non di rado si riscontrano reticenze o restrizioni alla diffusione dei dati. Talvolta ci possono essere ragioni economiche dietro questi modi di agire, anche quando si tratta di immagini fotografiche autoprodotte. In alcuni musei, per esempio, il divieto di fotografare riguarda sia i turisti che gli studiosi e gli studenti, per cui per motivi di studio e di ricerca si è costretti a sborsare svariate decine di euro per ottenere un file di archivio e molti di più per le foto ex novo[7], tariffe di gran lunga superiori a quelle richieste da altri musei europei. Si tratta di restrizioni che certamente dovranno essere modificate o del tutto abolite. Se alcuni musei consentono lo scatto di fotografie e non sono stati riscontrati problemi per la regolare fruizione della visita, non si vedono ragioni perché il consenso non possa essere esteso a tutti. La stessa crescente diffusione di smartphone, tablet e macchine fotografiche digitali, sono un invito a fotografare e condividere le immagini; continuare a imporre divieti che potevano forse ancora essere accettati dieci anni fa, è anacronistico e autolesionistico per i nostri musei.



[1] V. Falletti, “Ripensare il museo” in V. Falletti, M. Maggi, “I musei”, Il Mulino 2012, p. 60
[2] M. Maggi, “Le sfide” ” in V. Falletti, M. Maggi, “I musei”, Il Mulino 2012, p. 185
[3]Autenticità e verità nella cultura dei social network”, L’Osservatore Romano, 25 gennaio 2013)
[4] L. Sollima, “Il museo in ascolto. Nuove strategie di comunicazione per i musei statali”, Rubbettino 2012, p. 25
[5]Rapporto di analisi comparata basata su peer review”, Rapporto di ricerca dell’Università La Sapienza di Roma, 30/07/2011, p. 3. La ricerca ha considerato in che modo i musei di quattro paesi  (Italia, Bulgaria, Romania, Regno Unito) si stanno preparando ad affrontare le trasformazioni che coinvolgono la loro stessa missione: « le istituzioni museali pubbliche e private – e soprattutto quelle di dimensioni medie e piccole – paiono risentire dell’impatto della congiuntura economica sfavorevole nel momento stesso in cui viene a definirsi – anche in modo problematico – una nuova funzione del museo: accanto a quella tradizionale di tutela, conservazione ed esposizione degli oggetti, si sta infatti sempre più facendo strada la concezione del museo anche come spazio pubblico, luogo di espressione dell’identità e di fruizione culturale, polo attrattivo per un vasto pubblico. In sintesi, è in atto un processo per superare la dicotomia tra conservazione, da un lato, e dall’altro valorizzazione dei patrimoni».
[6] Tra i progetti di Open Data che riguardano più direttamente le istituzioni culturali, si ricorda, per esempio, Europeana.
[7]Guardare ma non scattare”, dal blog di Michele Smargiassi, Fotocrazia (http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2011/02/08/guardare-ma-non-scattare/)

I MUSEI nella RETE MULTIMEDIA E SOCIAL NETWORK

LE PAGELLE ALL' ARTE SICILIANA

di Paola Nicita 

tratto da: La Repubblica - Palermo, 18 aprile 2012

I beni culturali on line della Sicilia navigano a vista: dai grandi siti archeologici ai musei più piccoli, tutti da osservare, conoscere, scoprire insieme al modo stesso di essere presentati in quel mare magno che è la Rete. La cultura nell' era della telematica fa il suo ingresso dalla porta principale, e le possibilità sono davvero di grande rilievo: una full immersion attraverso il piccolo schermo del nostro computer conduce alla finestra globale, e dunque per comprendere la situazione dei musei siciliani on line, ecco il volume "La visibilit@ sul web del patrimonio culturale siciliano - Criticità e prospettive attraverso un survey on - line" di Elisa Bonacini (Giuseppe Maimone Editore, pagine 308, 20 euro). Dai tanti musei analizzati sulla base della loro "bacheca" (presenza su Internet, offerta multimediale, ling sui social network) emergono molte curiositàe una sorta di pagella sulla capacità di promuoversi sul web: si va dal museo del Papiro di Siracusa - ampia visibilità on line ma poca attenzionea dati di fruizione come orari e costi dei biglietti - passando per il Museo etnoantropologico di Sorrentini a Patti, nato per volontà degli abitanti del piccolo centro messinese, che ha un sito web semplice ed elegante ma con poca visibilità. Ancora, nel categoria "Musei misti on line" troviamo il Museo della lava e dei vulcani (MuLa il suo acronimo) di Viagrande, Catania, accessibile anche in inglese, un centro scientifico di primo livello sull' educazione al vulcanesimo e all' astronomia, che offre straordinari percorsi scientifici tridimensionali, con le immagini nel suo cinema 3D, proiettati in fulldome, ovvero sulla superficie curva di una cupola. Altri dati riguardano invece luoghi più celebri, come il Parco della Valle dei Templi di Agrigento, il cui sito web è accessibile in inglese e francese e permette di scaricare brochure in russo, giapponese, tedesco, spagnolo e cinese, ricco di immagini: il portale si presenta come una via di mezzo tra uno showcase e una guida, mentre si nota la mancanza di newslettere presenza sui social network. Il museo archeologico Salinas, invece, il cui sito è stato realizzato nel 2003 in base ad una progettazione realizzata dal museoe dall' Istituto di ricerche economiche e sociali, appare superato ed esclusivamente in italiano: l' autrice auspica che insieme al restauro attualmente in corso, motivo per cui il museo è chiuso, si ponga mano anche alla parte on line del Salinas. Altro fiore all' occhiello dei musei cittadini è Palazzo Abatellis: sito in italiano e inglese, con vari corredi fotografici, ma anche qui è sottolineata la mancanza di contenuti multimediali coinvolgenti per i fruitori. La Cappella Palatina e Palazzo dei Normanni sono accessibili in cinque lingue, schede descrittive, slide show: ma anche qui vengono bacchettati i responsabili del sito per la scarsa capacità comunicativa e l' assenza di collegamenti ai social network. Con survey on-line si intende una modalità di verifica dei dati attraverso la somministrazione di questionari a campione: il web come agorà contemporanea risulta un "luogo" fisicamente non esistente, ma assolutamente attendibile, vera e propria cartina al tornasole di una fruizione vera, concreta, diretta. Se il web ha una vita tutto sommato recente - le prime "prove" tra utenti risalgono ai primi anni Novanta-i tempi più recenti ci dicono dei passaggi che conducono dal Web 1.0 - quello del modello one-to-many - al Web 3.0, ovvero il web semantico, passaggio importante che conduce ad un' organizzazione della conoscenza basata sul riconoscimento dei concetti e non più delle sole parole, fino al web 4.0, grande piattaforma in grado di ospitare spazi virtuali e tridimensionali e multi - users, in cui gli utenti possono agire e interagire.A queste modifiche, si sono più recentemente aggiunte le piattaforme dei social network come Facebook, Twitter, mentre i contenuti vengono segnati con "tags", ovvero "etichettati" secondo una categorizzazione che, vedremo, nel caso della ricerca dei contenuti si rivela strumento importante per il raggiungimento immediato dell' oggetto - soggetto del nostro interesse. Questa breve digressione "tecnica" è necessaria per comprendere le modalità della ricerca applicata ai beni culturali, e dunque alla comprensione del sistema di ricerca applicato dagli utenti che si affacciano alla finestra telematica per sapere quali siano i musei della nostra Isola, dove siano dislocati, quali tesori custodiscano. Non solo: spesso un viaggio o una visita in un determinato luogo sono pianificati dagli utenti - users proprio in relazione ad una pregressa visita virtuale in rete. Nel volume l' autrice analizza la qualità della comunicazione on line del patrimonio culturale siciliano, attraverso un survey condotto su 14 portali (tra quelli a tema turistico, culturale, museale, istituzionale) e con un personale censimento che coinvolge 442 siti di interesse culturale: la scoperta è la carenza di «forme avanzate della gestione imprenditoriale e manageriale del sistema culturale dei musei siciliani». La seconda parte del libro è dedicata a singole schede dedicate ai musei della Sicilia, che insieme al la scheda "cartacea" propone un accesso differente ai contenuti, da leggersi attraverso una guida multimediale accessibile direttamente con il proprio smartphone tramite appositi Qr codes (Quick responses codes, Codice di pronta risposta, formato da un codice a barre racchiuso all' interno di un quadrato nero, ndr); il volume diventa così un medium cartaceo - multimediale, unendo fruizioni differenti dei dati disponibili. Al di là di una evidente difficoltà di pianificazione globale e della messa a sistema del patrimonio museale, oltre che dei singoli musei, il libro rappresenta l' occasione per scoprire le tante realtà museali siciliane, e le improvvise rivalse dei piccoli musei, o di alcuni straordinari musei virtuali, cioè che solamente in rete esistono rivendicando prepotentemente spazio e visibilità. Si scopre così che il museo di Gesso, dedicato alla cultura e musica popolare dei Peloritani, è piccolo ma di grande visibilità, e oltre a custodire una importante collezione di strumenti e oggetti, restituisce in maniera digitale e multimediale le originali caratteristiche del museo fisico. Nella sezione "Video feste", si trova una vera e propria videoteca on line fruibile, in quella cd-events, una rassegna di cd e videocassette acquistabili su ordinazione. Del castello di Sperlinga, nell' Ennese, abbiamo notizie in inglese e francese: un menu ricco di macrosezioni, sito ricco e multimedialmente attivo, ma ancora poco collegato alle reti più ampie. Ancora da scoprire e valorizzare, il Paese Museo Villapriolo e il Treno Museo dell' arte mineraria a Villarosa, in provincia di Enna, con gallerie fotografiche e visite virtuali, ma i cui contatti e visibilità sono ancora da incentivare; il Museo Jalari a Barcellona Pozzo di Gotto, dedicato al contadino analfabeta Filippo Bentivegna, artista outsider, ha un sito che presta grande attenzione all' aspetto didattico, una certa attenzione ai contenuti ma anche qui è sollecitato un più completo contatto coni maggiori portali culturali e turistici. Esiste solo in rete, invece, il Museo Elettrico virtuale "La luce" di Nino Vadalà, elettricista messinese che a questo progetto ha dedicato il tempo della pensione, proponendo immagini, video e raccolte di ogni materiale elettrico, sezioni dedicate alla bibliografia, cataloghi e libri, e ancora interruttori, fusibili, prese, voltometri. Il sito possiede un traslator in nove lingue (compresi giapponese, catalano, cinese) e un servizio di ranking statistics per valutare la visibilità del sito web. La collezione vera, invece, è stata donata da Nino Vadalà ad un luogo concreto. Quale? Il Dipartimento di Ingegneria Elettrica dell' Università di Padova; da ammirare on line, naturalmente.

 Cari amici, in questi anni in cui ho svolto l’incarico di direttore scientifico del Museo Civico “Ferrante Rittatore Vonwiller”, dal 2019 a...