Segnalo con piacere il nuovo libro dell'amico Riccardo Rosati, "Museologia e Tradizione", edito da Solfanelli. Buona lettura!
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I musei e i non visitatori
Oggi vorrei iniziare a riportare qui, sulle pagine del mio blog, alcuni stralci di un saggio molto importante, una pietra miliare in ambito museologico, intitolato "Si contano i visitatori o sono i visitatori che contano?". L'autrice è Eilean Hooper-Greenhill, docente presso il Department of Museum Studies dell'Università di Leicester. In questa prima parte si parla di come un museo può migliorare il proprio rapporto con il pubblico, iniziando ad analizzare non il pubblico effettivo, ma le ragioni per le quali il "pubblico potenziale" non frequenta il museo. Per capirlo, dice La Hooper-Greenhill, "bisogna uscire dalle quattro mura del museo".
Il saggio è tratto dal volume "L'industria del museo. Nuovi contenuti, gestione, consumo di massa", a cura di Robert Lumley, edito da Costa & Nolan nel 2005 (versione originale edita nel 1988 da Routledge con il titolo "The Museum Time Machine").
"Per molti di coloro che lavorano nei musei, i visitatori sono solo cifre senza volto, piedi da contare mentre oltrepassano la soglia, un male inevitabile dal momento che un museo è, per definizione, un luogo pubblico. E' raro che un museo sappia chi sono i suoi visitatori e perché ci vengono, anche se i direttori sono sempre pronti a snocciolare grandi quantità di "dati sulle presenze". La parola d'ordine sembra essere quantità e non qualità, e nel valutare l'opera svolta da un museo sembra quasi che il peso corporeo delle persone che lo frequentano sia più importante della qualità dell'esperienza che ne ricavano.
Generalmente per visitatori si intendono coloro che vengono a vedere gli oggetti esposti, e solo raramente viene elaborata un'interpretazione più approfondita del concetto di gruppi di utenza. (...)
Difficilmente la politica delle comunicazioni di un museo viene elaborata sulla base di una conoscenza dell'utenza complessiva derivata da apposite ricerche. Il museo molto spesso non ha alcun programma in proposito né provvede a definire obiettivi specifici relativi alle strutture predisposte per i visitatori effettivi, per quelli potenziali e per il pubblico più in generale. (...)
E' ormai evidente che finora i conservatori dei musei hanno agito sulla base della propria visione del mondo, presumendo che i visitatori condividessero i valori, i criteri e gli interessi intellettuali che li avevano guidati nella scelta e nella presentazione del materiale ed anche, cosa ancor più importante, nella selezione e nell'acquisto degli oggetti. (...)
Raramente nel decidere le attività da svolgere si è tenuto conto della necessità, dei desideri o delle opinioni del pubblico. (...)
Le indagini sui visitatori dei musei forniscono informazioni soltanto sulle persone che al museo ci vanno. Un museo in cui si registra un calo nel numero di ingressi e che si precipita a fare un sondaggio in realtà si muove nella direzione sbagliata: un'indagine sui visitatori, per quanto approfondita, non potrà mai rivelare le opinioni di coloro che al museo non ci vanno; fornirà dei dati su chi ci va, e se si confrontano tali dati con gli studi sulla popolazione locale, si chiariranno certe lacune, ma per ottenere un quadro più veritiero del perché gli ingressi stanno calando, o meglio, per sapere cosa pensa del museo la gente, è necessario fare uno studio completo della popolazione e intervistare sia quelli che al museo ci vanno sia quelli che non ci mettono piede, e cioè bisogna uscire dalle quattro mura del museo.
(prima parte)
La nuova pagina Facebook del blog Museums Newspaper
Da oggi Museums Newspaper avrà anche una sua pagina Facebook che avrà lo scopo non solo di rilanciare i post sui social ma anche di ampliare i contenuti con notizie selezionate da tutto il mondo.
Spero che l'iniziativa sia gradita!
Spero che l'iniziativa sia gradita!
https://www.facebook.com/museumsnewspaper?fref=nf&pnref=story |
Musei liberi e non politicizzati: la realtà britannica
di Caterina Pisu
Nel 2001, la giornalista e
scrittrice Josie Appleton, scrisse un articolo che potrebbe sembrare disorientante
per i museologi, in maggioranza assertori convinti dell’importanza del ruolo di
mediazione e di inclusione sociale dei musei nell’ambito delle comunità.
In
realtà, un po’ di autocritica non fa mai male e allora mi sembra opportuno
riportare qui il pensiero della Appleton che, a distanza di anni, può risultare
ancora di una certa attualità, sebbene le sue considerazioni facciano specifico
riferimento all’ambito britannico e ad un determinato momento storico.
Il tema che
oggi propongo è il primo di una serie che desidero dedicare al ruolo sociale
dei musei, in vista del Quarto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei, in
programma ad Assisi 11-12 novembre 2013, in cui si affronterà, tra gli
altri, anche questo argomento, in relazione ai cosiddetti “musei di quartiere” (v. qui il programma provvisorio).
Nell’articolo intitolato “Museums for the people”, pubblicato su http://www.spiked-online.com/site/article/10827/,
la Appleton si chiedeva perché l’inclusione sociale fosse diventata una delle
finalità perseguite dai musei, in realtà non per una spinta venuta dall’interno
del settore museale, ma a seguito della politicizzazione dei musei (si fa riferimento, come già accennato, al Regno Unito).
A seguito della pressione del
governo New Labour, infatti, non solo musei e gallerie, ma anche altre
istituzioni pubbliche, come gli ospedali, le università e le scuole, furono
incoraggiati a considerare l’inclusione sociale come una delle proprie funzioni
essenziali. Fu così che i musei cominciarono a riorganizzarsi cercando di
occuparsi il più possibile delle relazioni con la comunità.
Per la Gran Bretagna dei New
Labour la parola “inclusione sociale” sembrava essere di gran moda, ma restava
comunque un concetto oscuro, non pienamente compreso, che nasceva piuttosto da
un’ansia del pericolo di frammentazione sociale e dalla possibilità che
potessero esistere individui isolati, senza un proprio scopo nella vita, e che
quindi dovevano assolutamente essere aiutati. Laddove esistono persone abbandonate a se stesse è più alto, infatti, il livello di criminalità, più
basso il livello culturale e la pratica di attività sportive. In sostanza, si
possono creare situazioni o fasce sociali in cui la qualità di vita è molto
bassa.
Per ovviare a questo
inconveniente, il Dipartimento britannico per la Cultura, i Media e lo Sport
(DCMS), adottò una strategia che vedeva i musei e le gallerie coinvolti in prima
linea nell'impegno sociale, tesi a responsabilizzare le persone nel saper
individuare il loro posto nel mondo e nel riuscire a svolgere un ruolo attivo
nella società.
Il Group for Large Local Authority Museums (GLLAM) sostenne questa strategia, nella convinzione che i progetti
di inclusione sociale generino maggiore autostima, fiducia e creatività,
contribuendo a sviluppare una vita sociale più attiva e soddisfacente.
Ma perché i musei hanno così
prontamente adottato tra le proprie funzioni primarie, l’inclusione sociale?
Forse perché, secondo la Appleton, la professione museale in quel momento,
quando il partito del New Labour saliva al potere, stava vivendo uno stato di
profonda crisi e di confronto aspro con il resto della società.
I musei avevano un grande bisogno
di auto-giustificare la loro esistenza perché per almeno una decina d’anni erano stati messi
sotto processo dalla società per il loro ruolo di “badanti” e per la loro
troppo stretta connessione con lo studio e l’interpretazione di “oggetti”, che
li aveva tenuti isolati dalla concretezza della vita reale.
Le critiche erano state talmente dure che, a destra, l’ex Primo Ministro Margaret Thatcher aveva definito
i musei “inutili”, e pertanto aveva cercato di “modernizzarli” e di renderli
più “efficienti”, introducendo le logiche del marketing per la loro gestione e
per la valutazione dell’efficacia del lavoro svolto. A sinistra, invece, si
continuava ad attaccare i musei, considerandoli istituzioni tenute in vita da
élite ideologiche che tendevano ad escludere le masse.
A questo punto, il Dipartimento per
la Cultura, i Media e lo Sport dovette affrontare con decisione la crisi di
identità dei musei. L’ordine del giorno fu, oltre che rendere esplicita la
volontà di politicizzare i musei, il suggerimento di individuare, ogni anno, un
tema sociale da mettere in luce e approfondire attraverso mostre o altri eventi
di questo tipo.
Durante gli attacchi rivolti alla
categoria, molti professionisti museali erano rimasti in silenzio. Forse erano
talmente demoralizzati che i progetti di inclusione sociale a quel punto
sembravano necessari non solo al pubblico ma soprattutto a se stessi. Grazie a
questi progetti, infatti, il personale dei musei cominciò a sentirsi più utile e
necessario, e a ritrovare nuove energie. Qualcuno affermò di sentirsi “più
connesso”, “più integrato” nell'ambito della comunità, forse più vicino alla
realtà di quanto non fosse prima, quando si occupava solo delle collezioni
espositive.
Ma questa nuova funzione del
museo era realmente un bisogno dei professionisti museali e della società o era
stata imposta dall'esterno, dopo la demolizione del vecchio modello di museo, e
poi attivamente promossa dalle nuove élite museali?
Nel Regno Unito le nuove
generazioni di dirigenti museali avevano ricevuto la loro formazione soprattutto
nei master della Leicester University; alcuni di essi provenivano dagli studi
storici sociali che avevano una chiara impronta di sinistra e avevano iniziato
le loro esperienze professionali presso i musei di enti locali. Essi
propendevano, dunque, alla partecipazione attiva della gente comune nelle
attività promosse dai musei.
Consentire ai visitatori di
diventare una parte importante del lavoro di un museo o di una mostra, venne
visto come una necessaria e radicale trasformazione dei musei in direzione dei
bisogni della società.
Peter Jenkinson sembrava quasi
citare “Stato e rivoluzione” di Lenin
quando descriveva le “fasi della caduta del potere” dei professionisti museali conclusasi
con la soluzione finale più radicale, forse utopica, della creazione di un
museo veramente autonomo e popolare, non
più in mano ai professionisti museali.
E’ curioso – afferma la Appleton
- che i musei specialistici potessero ipotizzare addirittura l’eliminazione dei
professionisti museali a favore di una gestione collettiva dei musei!
In realtà, lungi dal determinare
trasformazioni sociali così radicali, questi progetti hanno avuto il merito soprattutto
di far sentire meglio le persone con se stesse. Nel contesto storico del
declino industriale, la storia sociale dei musei aveva contribuito a rinnovare l’orgoglio
della gente attraverso la riscoperta e il racconto delle loro storie, proprio
nel momento in cui sembrava che l’orgoglio non esistesse più.
E’ significativo che nel 1983, nonostante
fosse stato perso un referendum promosso per tentare di tenere aperto un museo
a cielo aperto in un villaggio minerario del Galles, l’anno seguente fu
ugualmente istituito un museo del villaggio che evidentemente era considerato
irrinunciabile per i curatori e gli amministratori della cittadina. Il curatore Gaynor Kavanaugh affermò
che “essere senza storia è come essere
ignorato e dimenticato. Un posto riconosciuto nella storia significa ritrovare
la propria autostima e i propri valori”.
Bill Silvester, che aveva
istituito the Abbeydale Industrial Hamlet a Sheffield nel 1970, disse a sua volta che “l'idea era di dare un museo ai lavoratori e
ai loro figli, con lo scopo di ripristinare l'orgoglio, troppo spesso negato o
rubato da altri, e di lasciarlo in eredità”.
I progetti di inclusione sociale hanno
sempre cercato, dunque, di trasmettere la percezione che la collezione del
museo appartenga ai membri della comunità, i quali hanno contribuito a
raccontare la propria storia e quella del proprio territorio.
Il punto è che cosa succede
quando i progetti di inclusione sociale diventano parte di un programma di
governo. A questo punto non è più il direttore di un museo che autonomamente
decide di aumentare l’autostima degli individui della comunità in cui opera, ma le
nuove élite museali promuovono questi progetti per veicolare le politiche
governative in ambienti per lo più a rischio.
E la Appleton a questo proposito
cita, come esempio, il progetto tessile per le donne asiatiche del Birmingham
Museum and Art Gallery che, con il pretesto di coinvolgere le donne nella
creazione di tessuti ispirati alle collezioni del museo, ha operato un’indagine
tra esse incoraggiandole a parlare della loro salute mentale. Sarebbe stato
difficile, infatti, che queste donne si rivolgessero spontaneamente a degli
assistenti sociali, ma un’attività culturale
ha facilitato questo lavoro di utilità sociale.
E si possono citare anche altri
casi di progetti simili rivolti a varie categorie sociali “a rischio”. Questa
trasformazione del ruolo del museo all'interno della società trasforma
inevitabilmente anche i contenuti del museo: i progetti di integrazione sociale,
in pratica, potrebbero anche ignorare le attività su cui è stato "costruito" il
museo stesso. Il rischio, allora, è quello di creare una distorsione dei
principi fondamentali sui cui poggia l'istituzione museale. Il ruolo tradizionale
del museo, di raccolta, studio ed esposizione dei manufatti, ha sempre avuto una
solida base nella società; i collezionisti e l’establishment accademico sono
stati coinvolti in questa attività e hanno sviluppato gli standard e le
modalità di valutazione del lavoro dei professionisti museali. Ciò ha dato al
museo una struttura ben definita, una sua ragion d'essere, e in tutto questo l’esposizione
degli oggetti era la base sostanziale attraverso la quale il museo si metteva
in relazione con il suo pubblico.
Oggi, la funzione di inclusione sociale,
essendo stata presa in consegna dalla politica - afferma la Appleton, può apparire poco ben definita,
priva di un senso di direzione chiaro, non fondata su pratiche sperimentate e
consolidate. Ciò determina spazi di interpretazione troppo ampi e talora
ambigui.
Il Rapporto del Group for Large
Local Authority Museums sull'inclusione
sociale, che fa riferimento all'ambito dei musei locali che sono in prima linea
in iniziative di questo tipo, riferisce che “la definizione di inclusione sociale è problematica; è 'difficile da
vedere e difficile da cogliere nel suo insieme; è un concetto che può essere definito
e utilizzato variamente dal governo e dai diversi enti locali”.
Quando un concetto è “sfumato” o “sfocato”,
la tentazione è quella di usare il righello per definirlo meglio. Il Group for
Large Local Authority Museums ritenne che fosse necessario dare impulso a studi
trasversali per precisare innanzitutto lo spettro d’azione più coerente in cui
poteva essere attuata una politica di inclusione sociale, cercando poi di
puntualizzare le metodologie e gli standard di lavoro da utilizzare in questo
ambito. E’ vero, però, che anche il sistema più elaborato e preciso che sia
in grado di misurare l’impatto sulla società dei progetti di inclusione
sociale, non risolverà il nodo fondamentale che è quello delle motivazioni.
Le comunità, infatti, sono formate da persone che
decidono spontaneamente se condividere alcuni aspetti della loro vita, non
dietro una sollecitazione “ben orchestrata” e, soprattutto, con finalità
politiche.
La conclusione della Appleton è
dunque che sia i politici che i musei sarebbero fortemente aiutati in questo
discernimento se la politica cominciasse
ad apprezzare i musei innanzitutto perché essi esistono e sono una realtà concreta,
inserita nelle nostre società, cui non è necessario imporre dall'alto la direzione
da seguire.
Specialmente in quest’ultimo punto mi trovo molto d’accordo con Josie
Appleton. I cambiamenti culturali non si possono imporre con un decreto
governativo, ma i musei, se sono percepiti come espressione e memoria della
collettività, potranno trovare in se stessi le motivazioni per una
trasformazione più o meno radicale, alla ricerca di modelli più adeguati ai
tempi ed anche alle nuove esigenze sociali, senza rinunciare alle proprie
peculiarità.
I governi si dovranno preoccupare soprattutto di sostenerli con risorse adeguate e di favorire l'apporto di sempre nuove energie professionali, ben qualificate.
Il museo di Istanbul com'era
Apre il Museo dell'Innocenza del premio Nobel Orhan Pamuk
di Marta Ottaviani
Cari Lettori eccoci qui
La notizia è che Istanbul da sabato ha un nuovo museo in più e per giunta unico
al mondo nel suo genere. Si tratta del “Museo dell’Innocenza”, pensato e voluto
fortemente dal premio Nobel per la Letteratura, Orhan Pamuk, che lo ha
presentato personalmente alla stampa.
Il museo è
ispirato all’omonimo romanzo del Nobel, pubblicato in Italia nel 2008, anzi, in
un certo senso è proprio la sua incarnazione. Il libro parla della storia
d’amore infelice fra Kemal e Fusun, sulla sfondo di una Turchia fra gli anni 50
e 90. Una storia fatta di dolore, gioia e forte erotismo. Nel romanzo, lo
scrittore descrive con attenzione gli oggetti che fanno parte della vita
quotidiana dei due protagonisti. La sede espositiva li racchiude tutti, inclusi
I 4123 mozziconi di sigaretta che Fusun si fuma durante il racconto, dalle
scarpe gialle della fanciulla, allo spazzolino da denti di Kemal. Il tutto
ovviamente accompagnato da foto d’epoca di Istanbul e da contributi audiovideo.
Il Museo si trova nel quartiere di Cukurcuma, nella parte europea, non lontano
dal Bosforo e che da anni è meta di una traformazione continua, che l’ha fatto
passare da luogo popolare a zona glamour, abitata da stranieri e nella quale
sono sorte anche alcune gallerie d’arte. “Quando ho comprato il palazzo dove
sorge il Museo – ha spiegato Pamuk alla stampa – era il 1998 e il quartiere era
molto diverso da oggi. Era un posto più popolare e somigliava molto alla
Istanbul degli anni ‘60”.
La sede espositiva, che è stata ristrutturata e adattata seguendo le indicazioni
fornite dallo stesso scrittore, è formata da
tre piani, in cui sono contenuti 83 box e vetrine, tanti quanti I capitoli del
libro. All’ultimo piano è riprodotta la stanza del protagonista maschile, Kemal
e alcune pagine dal manoscritto originale del libro, iniziato da Pamuk a
New-York nel marzo 2002.
“Ho scelto personalmente tutti gli oggetti – spiega ancora Pamuk -. Ci sono
voluti anni per collezionarli e in alcuni casi mi ha aiutato anche la
popolazione del quartiere, che ha accolto molto bene l’arrivo del museo e hanno
seguito tutte le sue fasi con grande curiosità”. Gli oggetti sono stati poi
ordinati nelle vetrine con l’aiuto di amici, architetti e artisti e per lo
scrittore è stata la parte più dura ma anche bella del lavoro.
Dagli anni ’90, ossia dall’acquisto dell’immobile, l’autore è riuscito a lavorarci solo a fasi alterne, per poi concentrarvisi dopo il 2008, dopo l’uscita del romanzo omonino. “Mi sarebbe piaciuto aprire il Museo all’uscita del romanzo, ma quello era veramente troppo ambizioso” continua lo scrittore, che ha anche chiarito la fine della collaborazione con il Comune di Istanbul, che avrebbe voluto l’apertura del Museo per il 2010, anno in cui la megapoli sul Bosforo è stata Capitale Europea della Cultura. “Non volevo che l’apertura del Museo venisse politicizzata, abbiamo restituito tutti I fondi fino all’ultimo”.
Dagli anni ’90, ossia dall’acquisto dell’immobile, l’autore è riuscito a lavorarci solo a fasi alterne, per poi concentrarvisi dopo il 2008, dopo l’uscita del romanzo omonino. “Mi sarebbe piaciuto aprire il Museo all’uscita del romanzo, ma quello era veramente troppo ambizioso” continua lo scrittore, che ha anche chiarito la fine della collaborazione con il Comune di Istanbul, che avrebbe voluto l’apertura del Museo per il 2010, anno in cui la megapoli sul Bosforo è stata Capitale Europea della Cultura. “Non volevo che l’apertura del Museo venisse politicizzata, abbiamo restituito tutti I fondi fino all’ultimo”.
E finalmente eccolo qui, il Museo dell’Innocenza, che parla di una storia
d’amore infelice e della vita quotidiana di una famiglia turca altoborghese. Ma
anche di una città, Istanbul, cambiata vorticosamente nel corso degli anni.
Manca solo una cosa, nell’esposizione: la foto dei protagonisti.
“Non le ho messe volutamente – conclude il Nobel – nemmeno sulla copertina del libro. Penso sia giusto lasciare I loro volti all’immaginazione dei lettori”.
Vi devo dire: il museo è delizioso, merita una visita soprattutto per chi vuole cercare di immaginarsi o ritrovare la vita quotidiana a Istanbul qualche decennio fa, prima che la città cominciasse a cambiare. Pamuk mi è apparso sereno e rilassato. Aveva veramente solo voglia di parlare del suo museo e della sua Istanbul. Tuttavia a una domanda sul giornalista, ha dato anche una sua valutazione sulla situazione turca attuale. La parte positiva è che i militari non sono più al potere e che siano stati avviati procedimenti giudiziari che possano finalmente avviare il Paese a chiudere questa pagina dolorosa. Però nello stesso tempo Pamuk ha auspicato che l'attuale governo non mostri atteggiamenti autoritari, non nascondendo la sua preoccupazione per come sta venendo gestita la questione curda e i giornalisti in carcere. Ma questa è stata solo una breve parentesi. Lo stesso scrittore ha detto di non voler vedere politicizzata l'apertura del museo.
Ps. Per chi non ha letto il libro, una buona notizia: Pamuk in persona ha infatti detto che chi lo visitava senza avere letto il testo prima arrivava alla fine del percorso espositivo con maggiore curiosità.
“Non le ho messe volutamente – conclude il Nobel – nemmeno sulla copertina del libro. Penso sia giusto lasciare I loro volti all’immaginazione dei lettori”.
Vi devo dire: il museo è delizioso, merita una visita soprattutto per chi vuole cercare di immaginarsi o ritrovare la vita quotidiana a Istanbul qualche decennio fa, prima che la città cominciasse a cambiare. Pamuk mi è apparso sereno e rilassato. Aveva veramente solo voglia di parlare del suo museo e della sua Istanbul. Tuttavia a una domanda sul giornalista, ha dato anche una sua valutazione sulla situazione turca attuale. La parte positiva è che i militari non sono più al potere e che siano stati avviati procedimenti giudiziari che possano finalmente avviare il Paese a chiudere questa pagina dolorosa. Però nello stesso tempo Pamuk ha auspicato che l'attuale governo non mostri atteggiamenti autoritari, non nascondendo la sua preoccupazione per come sta venendo gestita la questione curda e i giornalisti in carcere. Ma questa è stata solo una breve parentesi. Lo stesso scrittore ha detto di non voler vedere politicizzata l'apertura del museo.
Ps. Per chi non ha letto il libro, una buona notizia: Pamuk in persona ha infatti detto che chi lo visitava senza avere letto il testo prima arrivava alla fine del percorso espositivo con maggiore curiosità.
Tratto da: La Stampa.it
Le nuove aspettative dei piccoli musei
L’Associazione Nazionale Piccoli Musei (APM)
ha in preparazione, il 5-6 novembre 2012, ad Amalfi (SA), il Terzo Convegno Nazionale dei Piccoli Musei,
un incontro tra professionisti del settore museale, amministratori locali e studiosi,
che ha come oggetto l’individuazione di modelli di gestione e la formulazione
di una “filosofia” specifica, più conforme alla natura e alle esigenze dei
piccoli musei locali, dei loro pubblici e delle loro comunità di appartenenza.
Nata in tempi recenti, l’APM, che ha già organizzato altri due convegni negli
anni scorsi (a Villanova di Castenaso, in provincia di Bologna, nel 2010, e a
Battaglia Terme, in provincia di Padova, nel 2011), si prefigge, nel concreto,
di valorizzare le specificità dei piccoli musei incoraggiando un forte legame
con i territori e, soprattutto, una particolare cura nel rendere la visita ai
musei un momento di conoscenza ma anche di ristoro e di incontro con le
tradizioni, la storia e la creatività locale. Rispetto ai grandi musei,
infatti, i piccoli musei locali hanno la grande opportunità di poter dedicare
tempo e attenzione ad ogni singolo visitatore, rendendo la visita un’esperienza
unica. Tutto ciò deve realizzarsi, naturalmente, nell’ambito di un servizio
altamente professionale, svolto da personale specializzato, come caldamente
raccomandato dall’APM. Confrontando un piccolo con un grande museo, pertanto,
non è la qualità del progetto museale o dei servizi offerti che cambia ma le
modalità con cui ciò viene attuato. Giancarlo
Dall’Ara, fondatore e presidente dell’APM, docente di marketing del turismo
presso il Centro Italiano di Studi Superiori sul Turismo e sulla Promozione
Turistica (CST) di Assisi, definisce questa nuova prassi, la “filosofia dell’accoglienza”. E’
necessario che i piccoli musei non abbiano più i grandi musei come modelli di
riferimento e si liberino, pertanto, di ogni complesso di inferiorità,
coinvolgendo le amministrazioni che hanno il potere decisionale affinché si
comprenda che i musei rappresentano una leva importante anche nel meccanismo di
riqualificazione economica dei territori. Secondo Dall’Ara, «i piccoli musei non sono e non vanno visti
come una versione ridotta dei grandi e, anzi, proprio l’idea che i “piccoli”
siano dei “grandi incompiuti” è il peccato originale che ha impedito a molti di
loro di riuscire ad avere un legame più forte con il territorio di
appartenenza, di sviluppare un maggior numero di visitatori e, in ultima
analisi, di poter svolgere il proprio ruolo». Nel quadro di rinnovamento
della visione di sé che i piccoli musei dovranno acquisire, la comunità di appartenenza avrà un ruolo
fondamentale e dovrà essere l’oggetto primario degli interessi e delle funzioni
del museo. L’organizzazione dei servizi, pertanto, dovrà riservare alla
comunità una porta di accesso privilegiata (G. Dall'Ara), diversa da quella principale,
doverosamente gratuita per i residenti, e dovrà curare attività specifiche
espressamente dedicate ai locali, che siano ispirate dalla cultura e dalle
tradizioni del luogo, rappresentando, nel contempo, le aspirazioni future della
collettività.
Il prossimo 3° Convegno Nazionale sarà l’occasione
per approfondire questi temi e per illustrare casi studio o esperienze locali
particolarmente significative. Il programma prevede tre sessioni:
1. Piccoli Musei e Turismo;
2. Esperienze e buone prassi gestionali e di
didattica museale;
3. I Musei fuori dai Musei. Esperienze di Rete tra
Piccoli Musei e fonti di finanziamento.
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Cari amici, in questi anni in cui ho svolto l’incarico di direttore scientifico del Museo Civico “Ferrante Rittatore Vonwiller”, dal 2019 a...
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From: http://chasingaphrodite.com/2012/02/08/robert-e-hecht-jr-leading-antiquities-dealer-over-five-decades-dead-at-92/ Robert ...
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Attualmente non esiste in Italia un documento che ripartisca tutti i tipi di musei, anche se una classificazione può essere desunta da un...