In attesa del Sesto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei



Mancano 32 giorni al Sesto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei, il momento più atteso per tutti coloro che seguono l’attività dell’APM perché si tratta di una delle poche occasioni in Italia in cui si pone l’attenzione sulle realtà “minori” e “periferiche” del patrimonio museale nazionale. 
Si parla, però, non di un ambito minoritario, ma del 90% circa dei musei italiani; per questa ragione ci sorprende che di essi si discuta così poco: forse la causa è da individuarsi nel fatto che le politiche culturali sono in genere più orientate verso quelle istituzioni museali che meglio rispondono al bisogno di valorizzazione piuttosto che di tutela, di grandi numeri anziché di conservazione dei patrimoni locali. Allora forse noi siamo in controtendenza ma nonostante questo i nostri convegni attirano ogni anno un gran numero di uditori, fatto che dimostra che in realtà l’interesse intorno ai piccoli musei è molto alto.

Il nostro convegno è un’occasione di reciproco scambio perché non solo si discute di tematiche che riguardano la gestione dei piccoli musei, ma perché si cerca anche di dare voce a chi vi lavora. Conoscere questi che spesso definisco “casi studio” ma che forse sarebbe più corretto indicare come “storie di persone e di comunità”, sempre coinvolgenti e sorprendenti, è essenziale per comprendere la necessità di preservare questi luoghi, importanti non per il numero di visitatori ma soprattutto per la loro missione culturale e sociale.  

Gli esempi sono i più svariati: negli anni passati sono state presentate le esperienze di musei statali, regionali, civici, privati, gestiti da fondazioni e da associazioni; musei dislocati tanto in piccole città quanto in grandi centri. Il concetto di “piccolo museo” può essere applicato in molti casi e proprio su questo tema si sta svolgendo, ormai da due anni, una ricerca interna all’APM che condurrà alla definizione formale di “piccolo museo” e che potrà essere un punto di riferimento per gli studi futuri in questo ambito.

Grazie per i piccoli musei!” ha scritto un ex direttore di un piccolo museo americano, Frederick A. Johnsen, sul sito Museumerica. Si riferiva alla sua visita del Baker Heritage Museum, commentando così il suo entusiasmo: “Il Baker Heritage Museum esemplifica la gioia dei musei, puri e semplici. Le sue esposizioni e i diorami sono la prova che apprendimento e divertimento si possono trovare anche nei piccoli musei delle più piccole comunità. La mia visita mi ha ricordato di non trascurare musei come questo durante i miei viaggi attraverso il Paese”.

E’ lo stesso invito che anche noi dell’APM rivolgiamo a tutti coloro che ci seguono: non trascuriamo questi piccoli luoghi culturali perché molto spesso ci riservano emozioni ed esperienze non inferiori a quelle dei musei più noti e frequentati.

Vi aspettiamo a Massa Marittima, Palazzo dell’Abbondanza, il 2 ottobre dalle ore 15 e il 3 ottobre dalle 9.30.

Il futuro del patrimonio culturale

Che cosa dobbiamo attenderci dalla riforma Franceschini


E’ quanto mai curioso che uno Stato decida di risolvere i problemi degli organi periferici dei propri Ministeri, mi riferisco alle Soprintendenze, non cercando di ridare ad esse nuova linfa - per esempio favorendo nuove assunzioni, razionalizzando le spese, migliorando gli strumenti a disposizione dei funzionari - ma, anzi, impoverendole ancora di più fino a esautorarle del tutto. Sarebbe stato forse più coraggioso decidere di eliminarle d’un sol colpo, ma evidentemente si vuole prima portare all’attenzione dei media quelle che vengono giudicate inefficienze (ma che la maggior parte delle volte sono da attribuire, appunto, alla mancanza di personale e di risorse) in modo da ingrossare le fila di coloro che sono contro le Soprintendenze.
In tal modo la loro eliminazione sarà vista da tutti come il giusto epilogo di una storia fatta di scarsa produttività e pastoie burocratiche. Recentemente Salvatore Settis si è espresso su questo punto affermando, a proposito del Ddl Madia e del recente mega concorso per la direzione dei venti più importanti musei italiani, che “se questa riforma ha al centro i musei – in particolare i venti scelti come più importanti – dall’altro lato impoverisce di personale le soprintendenze territoriali. Quelle di Roma, Firenze e Napoli hanno nove storici dell’arte in tutto: come faranno a tutelare l’immenso patrimonio a loro affidato? Il vero punto per capire se questo governo rispetterà l’articolo 9 della Costituzione è se verranno fatte nelle Soprintendenze territoriali le massicce assunzioni di cui c’è assolutamente bisogno. Di questo si parla troppo poco”.
Anche per Tomaso Montanari il Ddl Madia rappresenta il "più grave attacco al sistema della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale mai perpetrato da un Governo della Repubblica italiana perché un potere tecnico (quello delle soprintendenze, una sorta di magistratura del territorio e del patrimonio) che rispondeva solo alla legge, alla scienza e alla coscienza da oggi confluisce nel potere esecutivo. Se il governo vuol fare un’autostrada in un bosco secolare o in un centro storico, lo chiede a qualcuno che è diretto dai prefetti: cioè sostanzialmente a se stesso”.
A che cosa condurrà questa operazione di smantellamento delle Soprintendenze? C’è la percezione di ciò che ci aspetta in un prossimo futuro, anzi, domani stesso, data la velocità con cui si stanno mettendo in atto questi cambiamenti: già si parla dei Grandi progetti beni culturali approvato dal Consiglio superiore del Mibact. Una parte di questi progetti è indubbiamente buona, ma ciò che lascia perplessi, per esempio, sono i 18,5 milioni di euro per il Colosseo e che riguarderanno un intervento di tutela e valorizzazione volto al ripristino dell'arena al fine di consentirne un uso sostenibile per manifestazioni di altissimo livello culturale. I timori sono più che comprensibili, data l'importanza del monumento, anche se il Ministro Franceschini ha dichiarato che non si pensa “alle partite di calcio proposte dal presidente della Roma o ai concerti rock. Ci saranno solo eventi di altissima qualità”.
E’ evidente, in ogni caso, che stiamo assistendo ad una vera e propria corsa alla “valorizzazione”, alla famosa “messa a reddito” del nostro patrimonio culturale, non vista da tutti con simpatia. Andrea Emiliani, per esempio, grande studioso, a lungo soprintendente di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna, si è espresso piuttosto duramente riguardo gli ultimi avvenimenti. Gli è stato chiesto se avrebbe partecipato al mega concorso voluto da Franceschini ed ha così risposto: “No, perché credo nel vecchio concetto italiano di applicare la competenza al luogo dove l’esperto si è formato. Uno studioso di arte piemontese non può andare in Sicilia. Io, che ho studiato a Bologna, non me la sarei sentita di spostarmi a Roma o a Milano. Sa su cosa si basa tutta la manovra? Sul concetto, falso, idiota, che invero precede Renzi, di “valorizzazione”. Quando se ne parla, si esce dalla storia dell’arte e si entra nello spettacolo. Tutto nasce intorno al 1980 dal liberismo sfrenato di Reagan e della Thatcher. Il mondo si ribalta, e l’Europa va al traino. L’arte-spettacolo ignora la storia; il museo diventa un magazzino, dove si vanno a prendere pezzi per le mostre e li si fa viaggiare, in modo tale da distruggerli nel giro di 50 anni. Mandare Piero della Francesca a Tokyo non esiste! Che senso ha un’esposizione come quella organizzata da Goldin a Vicenza sui notturni da Tutankhamon a van Gogh? Contro l’operazione omologante del ministro si è rivoltato perfino Sgarbi, che è facinoroso ma persona intelligente».

Ascoltare le parole di un uomo di 84 anni che ha lavorato a lungo nelle Soprintendenze non può far male alla politica dei nostri giorni. 

OPPORTUNITA' DI FORMAZIONE

Stage nel Regno Unito: The Open Palace Programme


Dal sito http://www.globalmuseum.org/ dove è possibile reperire le opportunità lavorative nei musei di tutto il mondo, in particolare degli Stati Uniti e del Regno Unito, è estratta la notizia di questo stage presso alcuni importanti luoghi di interesse storico del Regno Unito. Di seguito alcuni dettagli:

Contatti: Marian Coles


Scadenza: 2015/12/31

Indirizzo web: http://openpalace.co/

Dettagli sullo stage

The Open Palace Programme offre la possibilità di:

Osservare da dietro le quinte di alcuni dei palazzi e ville più significativi del Regno Unito, tra cui Hampton Court, Kensington Palace e la Torre di Londra. Imparare dai professionisti che operano nei palazzi come conservare, presentare e interpretare i siti e le collezioni. Prendere parte ad attività accanto agli esperti. Immergersi nella storia. Manipolare manufatti storici e documenti antichi. Acquisire preziose esperienze e nuovi contatti che arricchiranno il proprio curriculum. Soggiornare in alcuni dei luoghi storici più affascinanti dell'Inghilterra come Bath, Brighton, Londra, Stowe, Windsor e Buckingham.

Sono disponibili 4 borse di studio OPP di £ 500 ciascuno.

Possono partecipare candidati da tutto il mondo con buona conoscenza della lingua inglese e che siano:
- studenti universitari neo-laureati o  laureandi su argomenti relativi al patrimonio culturale.
- professionisti emergenti, retribuiti o volontari, già impegnati nel settore dei beni culturali.

Costi:

La tassa d'iscrizione all'intero programma di 21 giorni, da svolgersi la prossima estate 2016 - comprensiva di soggiorno, colazioni, una cena di benvenuto, una cena comune nel Dorset e una cena formale a Stowe, tutti i biglietti d'ingresso, tutti gli input professionale e tutti i viaggi previsti all'interno del programma - è di £ 2450.

Anticipo di £ 500 e saldo di £ 1.950.

Maggiori dettagli sul sito web.

Musei “zombie” in Galles?


Zombie. Così la BBC ha definito i musei locali del Galles che sarebbero entrati in una spirale di grave declino.
Per tentare di risolvere la situazione, lo scorso autunno una commissione di esperti è stata incaricata dal Vice Ministro della Cultura, il laburista Ken Skates, di esaminare la situazione.
Nel loro report è stato evidenziato che i musei locali possono rappresentare una grande risorsa in quanto attirano circa 2 milioni di visitatori l'anno, con un incremento del 24% dal 2004; la metà di questi riceve finanziamenti dagli enti locali; conservano e curano almeno un milione di reperti, sono in grado di stipendiare 1.300 dipendenti e di gestire più di 2.100 volontari.

Nel report, però, si sottolinea anche che molti di questi musei sono mal gestiti mentre pochi sono risultati i “buoni esempi”. Spesso gli standard espositivi sono risultati troppo superficiali e stereotipati, mai rinnovati negli ultimi cinque anni. 

Il vice presidente del National Museum Wales, Haydn E Edwards, che ha presieduto la commissione, ha fatto appello anche ai consigli locali affinché si affrontino le difficoltà finanziarie, si decida il futuro immediato dei musei locali e si lavori per un rinnovo radicale della gestione museale in Galles.  

La commissione ha quindi redatto 10 raccomandazioni che riguardano le seguenti aree:
- elaborazione di nuovi modelli di erogazione dei servizi
- rivedere il ruolo e le responsabilità del governo gallese
- favorire la collaborazione tra le organizzazioni.


C’è anche da dire che i musei sono particolarmente a rischio di tagli finanziari e di chiusura a causa delle attuali circostanze economiche. Si teme addirittura che i finanziamenti per i musei possano essere ridotti allo stesso livello del 1950, quando, però, il numero dei musei gallesi a conduzione comunale era solo un quarto di quello di oggi. 

Kysy museolta: chiedi al museo e otterrai risposta!



Kysy museolta”, “Chiedi al museo” è un’idea messa in pratica in Finlandia cui hanno aderito otto musei disposti a rispondere alle domande dei propri utenti. Tramite un form on-line è possibile soddisfare le proprie curiosità sui contenuti del museo o su qualsiasi altro tema inerente le competenze di ogni singolo museo. Le risposte vengono inviate tramite posta elettronica ma alcune domande, scelte tra le più interessanti, e le relative risposte, sono pubblicate in forma anonima sul sito. 
Un’ottima idea per abbattere quella barriera che solitamente divide chi opera nei musei dal proprio pubblico. 

Nel complesso è molto simile all’iniziativa social #askacurator, ideata da Jim Richardson nel 2010, con la differenza che in questo caso i social network non sono l’ambiente di incontro tra curatori e pubblico e, soprattutto, non si tratta di una iniziativa che si svolge solo in determinati periodi dell’anno, ma di un servizio sempre disponibile.

Varie le domande che pervengono ai curatori. Si chiedono informazioni su oggetti, personaggi storici e molto altro: per esempio c’è chi ha trovato un oggetto antico in soffitta e chiede informazioni al Museo Finlandese dell’Agricoltura su quale fosse il suo utilizzo alcuni decenni fa, oppure viene chiesto al Museo del Teatro chi ha interpretato il ruolo della Bella Addormentata nel 1950 nel Teatro Nazionale Finlandese.


Il servizio è utilizzato con molta frequenza e le risposte sono sempre puntuali e molto esaustive. Anche la pagina web del sito è continuamente aggiornata e questo incoraggia le persone a partecipare attivamente. Mi sembra davvero una bella idea da esportare!

Lavorare nei musei: aggiornamento del 25/08/2015

E' stato effettuato un aggiornamento alla pagina del blog "Lavorare nei musei". Tre nuovi indirizzi aggiunti alla lista.

Foto tratta dal sito: https://www.brooklynmuseum.org/exhibitions/work_of_art_2011





Il Museo del Genocidio Armeno di Yerevan: luogo di incontro tra i popoli

Quando diciamo che i musei possono essere luoghi di incontro e di superamento dei contrasti, delle differenze e delle esclusioni, non siamo utopisti. Lo si comprende quando si leggono notizie come questa, pubblicata sul sito del Museo del Genocidio Armeno riguardo la visita di una delegazione composta da 50 intellettuali turchi, tra docenti e studenti universitari, ai quali il direttore del Museo, Hayk Demoyan, ha illustrato la storia del genocidio armeno. Gli ospiti hanno anche visitato il monumento che ricorda le vittime, dove hanno deposto una corona di fiori.

Foto tratta dal sito: http://online-books.openu.ac.il/english/genocide/images/page%2029_fmt.jpeg

E’ interessante notare che dall'aprile 2015 ad oggi il museo è stato visitato da più di trecento cittadini turchi. Nonostante la posizione rigida del governo turco riguardo l’ammissione dell’avvenuto genocidio che ha provocato accese polemiche proprio pochi mesi fa, il popolo turco evidentemente è cosciente della realtà dei fatti.

Foto tratta dal sito http://heifer12x12.com/2012/09/18/barev-armenia/woman-at-genocide/

Il Museo del genocidio degli Armeni è stato inaugurato nel 1995, in occasione dell’80° anniversario del genocidio del popolo armeno, avvenuto nel 1915. Sorge sull’altura di Tsitsernakaberd, dove è stato collocato un monumento commemorativo alle vittime del genocidio. Conserva una vasta documentazione su questo dramma troppo a lungo ignorato, molte fotografie e documenti che illustrano ogni aspetto della realtà storica dei fatti. Il Museo dispone anche di una biblioteca, di una sala conferenze e di altri ambienti destinati allo studio e alla ricerca.


Una piccola nota personale: ho conosciuto la storia del genocidio degli Armeni fin piccola per una circostanza particolare, in quanto sono stata cresimata da un vescovo cattolico armeno, Mons. Cirillo Giovanni Zohrabian, ora Servo di Dio in attesa di beatificazione. Mons. Zohrabian si salvò dallo sterminio solo perché, durante la Prima Guerra mondiale, essendo già frate cappuccino, ricevette l’ordine dei suoi superiori di lasciare l’Armenia per trasferirsi a Costantinopoli. Si legge nel sito dei Frati Cappuccini che “dal 1916 al 1920 aiutò in tutti i modi i greci del Ponto e dell'Anatolia, perseguitati e angariati: quattro anni di missione nel silenzio dei campi di concentramento turchi, dove c'erano anche molti prigionieri italiani. Il 7 marzo 1923, fu catturato dalla polizia turca, dopo una messa clandestina in una baracca. Qui termina la sua opera in favore dei fratelli perseguitati e incomincia la sua propria testimonianza. Il tribunale di Trebisonda lo condannò a morte per impiccagione. Fu condotto nelle carceri di Costantinopoli sotto scorta armata dove l'11 e il 12 marzo 1923 soffrí la terribile tortura turca del "palahán": cinque volte sessanta colpi di verga sulle piante dei piedi. Poi la sentenza di morte fu commutata in quella di esilio perpetuo”.

25 Magnificent Museums You Have To Visit In Your Lifetime


I temi di Expo al Polo Museale dell'Atac tra il 19 e il 27 settembre

Ricevo e pubblico questa iniziativa che si svolgerà a settembre presso il Polo Museale dell'Atac, a Roma: 

SETTIMANA DELLA MOBILITA’ AL POLO MUSEALE EVENTO
TAG.GHIAMOCI - OFFICINA CREATIVA



Nell’ambito delle attività in calendario durante la “Settimana Europea della Mobilità”, all’interno dell’area Polo Museale di Atac, è in programma il progetto TAG.GHIAMOCI - Officina Creativa.

Tale progetto, destinato soprattutto ai giovani ed alle scuole, propone prioritariamente di affrontare le tematiche di EXPO2015 “Nutrire il pianeta, Energia per la Vita” attraverso azioni di divulgazione, informazione ed educazione alimentare sulle eccellenze dei prodotti agricoli e agroalimentari italiani.

Con questa iniziativa si intende informare soprattutto i giovani sui contenuti tecnici e socio- culturali con riferimento a tre macro tematiche individuate dal documento “Il Lazio e Roma verso EXPO 2015”:

− Crescere meglio (le produzioni di eccellenza laziali e la loro sostenibilità);

− L’origine e la qualità (coltivazioni biologiche e prodotti tipici, origine ed eco- sostenibilità! delle produzioni, ecc.);

− Mangiare sostenibile (consumo di prodotti alimentari a basso impatto ambientale e gestione! responsabile degli sprechi alimentari). Il!percorso verrà articolato all'interno e all'esterno dei vagoni storici presenti nel Polo Museale ATAC con possibilità di degustazioni alla luce delle conoscenze acquisite durante la visita. Inoltre, l’area museale sarà allestita con orti provvisori, piante, erbe aromatiche e fiori che consentiranno un percorso didattico sulle conoscenze ortofrutticole e floreali. L'evento proposto avrà corso nel periodo dal 19 al 27 settembre 2015 a Roma presso il Polo museale ATAC di Piramide (adiacente alla stazione Ostiense).

Apertura straordinaria la mattina su prenotazione per le scuole. 

L’azione di informazione avverrà attraverso tre principali strumenti:

 - Distribuzione di materiali informativi;
Presenza di personale qualificato (agronomi) affiancato da uno staff appositamente formato;
- Realizzazione di un’App con “realtà aumentata” fruibile con il semplice utilizzo di fotocamere (smart-phone; tablet) per poter acquisire informazioni sulle  eccellenze presenti nell’esposizione

Durante le visite guidate gli allievi, se in possesso di smart-phone, verranno invitati a scaricare l’App in modo da poter meglio seguire il docente durante le diverse spiegazioni. In un apposito spazio saranno disponibili sessioni formative sui contenuti del programma indicato.

Indirizzo evento: 

Polo Museale di Atac,Via Bartolomeo Bossi, 7

Presso Stazione Piramide Metro B-Roma Lido

in alternativa ingresso da Metro B Piramide - Stazione Roma Lido (solo per le scuole)

Per informazioni rivolgersi a:

Atac Polo Museale  tel. 06-46958212-8207, email: caterina.isabella@atac.roma.it

Associazione culturale Double, tel. 339 215 3546, email: infodouble@gmail.com; dupla106@gmail.com

Salvatore Settis commenta la scelta dei nuovi direttori dei venti più importanti musei nazionali italiani

L'articolo è tratto da La Repubblica, 19 agosto 2015


UNA CURA DA ELEFANTE


di SALVATORE SETTIS

PER la prima volta nella storia, in un Paese che per il patrimonio culturale non è tra gli ultimi, i direttori dei 20 più importanti musei nazionali vengono nominati in un sol colpo. Come se Le Monde scrivesse che un solo decreto ha nominato i direttori del Louvre e della Gare d'Orsay.
E anche del Centre Pompidou, del Museo di Cluny, dei musei di Lione, Marsiglia, Bordeaux, e così via. Ma notizie come questa non si leggeranno mai sulla stampa francese, o inglese, o tedesca. Perché, allora, questa cura da cavallo (o da elefante) sul corpaccione malato dei Beni culturali? E a quali malanni vuol rimediare questa terapia d'urto? Cinque sono le piaghe più spesso citate: l'accusa di "burocratizzazione", l'autoreferenzialità del sistema, la difficoltà di "valorizzare", la mancanza di fondi e la carenza di personale. Per carità di patria lasciamo perdere la burocrazia delle Soprintendenze, cara alle invettive lanciate da tanti sindaci (tra cui l'attuale presidente del Consiglio): la legge Madia vi "rimedia" ponendo i Soprintendenti agli ordini dei prefetti, e dunque ci rivela che gli storici dell'arte sono burocrati e i prefetti no. Ma gli altri problemi sono patate bollenti sul tavolo dei neonominati, e vale la pena chiedersi se la procedura d'eccezione seguita per le nomine è davvero la medicina adatta. Chi sostiene che un bando pubblico internazionale per la direzione di un museo sia una buona idea ha mille ragioni; ma di qui a fare venti procedure tutte insieme ce ne corre. Nessun dubbio che la commissione fosse di alto livello, dal presidente Paolo Baratta a Luca Giuliani (archeologo e rettore del Wissenschaftskolleg di Berlino) e Nicholas Penny (direttore uscente della National Gallery di Londra), a Claudia Ferrazzi (già vice- amministratore del Louvre) a Lorenzo Casini (giurista e consigliere del ministro). Ma è proprio sicuro che ogni candidato meritasse solo 15 minuti di colloquio?
Nonostante la retorica della "valorizzazione", quasi tutti i neodirettori non sono manager della cultura, ma storici dell'arte o archeologi (fa eccezione Mauro Felicori, assegnato a Caserta), con esperienze museografiche. Sette sono stranieri, ma neppure uno viene dalla direzione di un grande museo. C'è chi ha diretto musei piccoli o medi come quelli di Montargis (Sylvain Bellenger, che dirigerà Capodimonte), di Braunschweig (Cecilie Hollberg, ora alle Gallerie dell'Accademia di Firenze), di Linz (Peter Assmann, che passa al Ducale di Mantova), c'è chi ha lavorato nei musei, ma come curatore (come il neodirettore degli Uffizi Eike Schmidt, o Peter Aufreiter che dirigerà la galleria di Urbino), c'è chi non ha mai lavorato in un museo, come il più giovane di tutti, Gabriel Zuchtriegel (34 anni), a cui è stata assegnata Paestum; c'è, infine, chi viene dalla gestione di una fondazione privata in Italia (Palazzo Strozzi), come James Bradburne.
Anche fra gli italiani in rientro dall'estero nessuno ha diretto un museo, ma quasi tutti hanno esperienze curatoriali: così Martina Bagnoli, curatore a Baltimora e ora direttore dell'Estense a Modena; Flaminia Gennari, che da Miami passa alle Gallerie nazionali d'arte antica di Roma; Paola D'Agostino, che dalle collezioni universitarie di Yale passa al Bargello; mentre Eva degl'Innocenti, che lavora per una rete museale in Bretagna, dirigerà il Museo Nazionale di Taranto. La speranza che si candidassero direttori di musei di prima grandezza è andata delusa: non ha fatto domanda Gabriele Finaldi, appena approdato alla direzione della National Gallery di Londra, né Davide Gasparotto, che ha lasciato da pochi mesi la direzione della Galleria Estense per diventare Senior curator of paintings al Getty. Quanto agli italiani, delude non poco che, dei molti funzionari del MiBact che avevano fatto domanda, solo una (Anna Coliva, Galleria Borghese) sia stata "promossa": brutto segno per l'Amministrazione, bocciata quasi in blocco dalla commissione, anche quando, come agli Uffizi, erano in corso importanti progetti. Degli altri, molti vengono dalla direzione di musei regionali o comunali: così Cristiana Collu (già al Mart di Rovereto, ora alla Gam di Roma), Enrica Pagella (dai musei civici di Torino al Polo reale della stessa città), Paola Marini (dai civici musei di Verona all'Accademia di Venezia), Marco Pierini (da Pienza alla galleria di Perugia), Paolo Giulierini (che dal minuscolo museo di Cortona passa a dirigere il più grande museo archeologico del mondo, quello di Napoli), Serena Bertolucci, da Villa Carlotta al Palazzo Reale di Genova; mentre il neodirettore del Museo Nazionale di Reggio Calabria, Carmelo Malacrino, è ricercatore universitario nella stessa Reggio.
Ai neodirettori (età media 50 anni) bisogna per principio far credito. Certo, però, un grande museo non è la stessa cosa di uno piccolo, né chi è stato curatore sarà necessariamente un buon direttore. E sarebbe pia illusione credere che queste nomine aprano davvero una nuova stagione. I neodirettori hanno davanti una mission impossible: rinnovare un sistema sclerotizzato non dalla burocrazia, ma dalla carenza di personale (per il pluridecennale blocco delle assunzioni) e dall'insufficienza dei fondi (ai terribili tagli del 2008, allora deplorati dalla sinistra, nessuno ha mai posto rimedio).
È in questa lunga paralisi (più simile allo sterminio che all'eutanasia) che i musei italiani rischiano di esternalizzare il loro core business, la conoscenza e la ricerca: senza la quale non c'è tutela, ma non c'è nemmeno la decantata "valorizzazione". Perché valorizzare quel che non si conosce non si può: e una vera conoscenza/ tutela/valorizzazione non si fa solo nei musei, ma sul territorio, mentre oggi le Soprintendenze territoriali sono depauperate di risorse e di personale. I neodirettori sono, è vero, nuova linfa immessa nell'esangue ministero: ma senza massicce nuove assunzioni, nuovi fondi e un rinnovato legame con il territorio non resterà a loro (e al ministro) se non intonare le parole della Regina di Cuori ad Alice: «Ora, vedi, devi correre avanti più che puoi, per restare nello stesso posto».
______________________________________________

Sullo stesso argomento: 
http://museumsnewspaper.blogspot.it/2015/08/i-nuovi-direttori-dei-venti-grandi.html

Il nuovo Museu do Amanhã di Rio de Janiero, un ponte verso il futuro

La costruzione del grandioso edificio, progettato dall'architetto spagnolo Santiago Calatrava è ormai terminata e il museo sarà aperto a settembre


Fonte dell'immagine: https://www.youtube.com/watch?v=43XyEXzvYuI


Sta per essere aperto, a Rio de Janeiro, il Museu do Amanhã, il "Museo del Domani", opera dell'architetto spagnolo Santiago Calatrava, nell'ambito di un progetto di riqualificazione della zona portuale di Rio de Janeiro, promossa dal Comune.
Occuperà circa 15.000 metri quadri suddivisi in due piani e sarà dotato di un'area esterna di ben 30.000 metri quadri in cui troveranno posto uno specchio d'acqua, una pista ciclabile e varie aree ricreative.

Il Museu do Amanhã è un museo della scienza dove i visitatori saranno invitati a osservare il passato, a conoscere le trasformazioni in atto e a immaginare i possibili scenari che ci attendono nei prossimi 50 anni.
L'esposizione è caratterizzata da ambienti immersivi, installazioni audiovisive e interattive, giochi. 






Il museo renderà disponibili al pubblico tutta una serie di attività educative che spazieranno dagli esperimenti di laboratorio in materia di innovazione a un osservatorio che monitora i segni vitali del pianeta.
Sono stati progettati anche servizi per il pubblico come il bar, il ristorante e il museum shop.


Esposizione e contenuti


La parte principale del progetto, al secondo piano del museo, si basa su una proposta curatoriale del fisico e cosmologo Luiz Alberto Oliveira. Il pubblico sarà guidato attraverso una narrazione strutturata in cinque aree principali: Cosmo, Terra, Antropocene, Domani e Ora per un totale di 27 esperimenti e 35 sub-esperienze disponibili in portoghese, spagnolo e inglese.

Il Museu do Amanhã parte dal presupposto che nei prossimi cinque anni si dovrebbero condensare più cambiamenti che negli ultimi diecimila anni. Per questo motivo, i visitatori sono invitati a riflettere sull'impatto delle loro scelte di oggi che daranno forma ai diversi scenari possibili del domani. Dobbiamo pensare al futuro sulla base di sei principali tendenze che ci porteranno al domani: il cambiamento climatico; la crescita della popolazione e la longevità; la maggiore integrazione e la diversificazione; lo sviluppo della tecnologia; i cambiamenti della biodiversità e la diffusione della conoscenza.

L'Observatório do Amanhã funzionerà come un radar che intercetterà e trasmetterà le informazioni dei centri di produzione della conoscenza scientifica, culturale e tecnologica. Esso avrà anche la funzione di dare valore ai contenuti del museo, mantenendoli costantemente aggiornati grazie alle fonti affidabili delle informazioni. La domanda incessante che si porrà l'Osservatorio sarà: "quali sono le maggiori opportunità e quali le minacce per la nostra società nei prossimi 50 anni?"



Per definizione, gli osservatori rilevano segnali e fenomeni, naturali e sociali, ampliando le potenzialità visive dell'osservatore nel tempo e nello spazio. A queste funzioni si aggiungerà l'obiettivo, altrettanto importante, di avvicinare i vari gruppi sociali al dibattito su tali rilevanti questioni, in particolare sul tema della sostenibilità e della convivenza.


Fonte dell'immagine: http://ad009cdnb.archdaily.net/wp-content/uploads/2010/06/1277406492-100615--museodeamanha-fija-00-5.jpg

Museo Nacional del Prado - Vídeo institucional


Il Museo del Prado è uno dei musei più importanti del mondo. Vi sono esposte opere dei maggiori artisti, fra cui Goya, El Greco, Diego Velàsquez, Ribera, Murillo, Rembrandt, Rubens, Botticelli, Caravaggio e molti altri.
Il Museo fu fatto costruire da Carlo III ed è opera dell'architetto Juan de Villanueva. Divenne sede di collezioni d'arte a partire dal 1816, prendendo a modello il Louvre. 

L’evoluzione del ruolo sociale del museo: dai musei di quartiere ai musei socialmente impegnati

Immagine tratta da http://cleveland.wikia.com/wiki/Latino_Heritage_Museum

Questa disamina che illustra alcuni casi esteri e due casi italiani di progetti museali o di tipo museale con finalità sociali, è stata da me presentata al quarto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei ad Assisi, nel 2013. A questo link è possibile scaricare l'articolo in PDF.

All’interno dell’apparato teorico sviluppato dall’APM è considerato essenziale che i musei instaurino un buon rapporto con la cittadinanza. Infatti, se i residenti ignorano la propria cultura o se a una parte di essi è negato il diritto di usufruirne - perché, per esempio, vivono dei disagi profondi, delle situazioni di conflitto, di divisione o di esclusione sociale - il museo, che dovrebbe riflettere l’immagine di quella comunità, ma che vive distante dai suoi problemi, è, nella sostanza, un luogo che non è in grado di incidere profondamente nella vita della società. «Senza valore sociale il museo è nulla» - affermava il museologo americano Stephen Weil, teorico del museo inteso come “impresa sociale”. Per Weil «i musei devono esistere per qualcuno, non per qualcosa»; ovvero, anche quei musei che producono risultati significativi dal punto di vista scientifico, se agiscono soltanto nell’ambito di una ristretta comunità accademica o sempre per le stesse fasce di pubblico, in pratica svolgono un lavoro incompleto, poiché il museo che intende avere un ruolo più democratico nell’ambito della società, «attira una folla eterogenea, ha una programmazione varia e opera su diversi livelli, è socialmente responsabile, coinvolge il pubblico, lo fa partecipare, si basa sul dialogo, non ha paura del dibattito, della polemica, delle opinioni, ma anzi le sollecita. Un museo democratico può lottare per la giustizia e i diritti umani (2)» Non solo, ma è lecito affermare che la “personalità” del museo si manifesta proprio nella sua capacità di rappresentare la comunità cui appartiene. L’applicazione di modelli puramente accademici, infatti, rende i musei tutti uguali e ripetitivi (3), ma un museo che offre alla cittadinanza una ragione di identificazione e di aggregazione sociale, assume una connotazione originale e non riproducibile dagli altri musei, in quanto esso è l’espressione di quella sola e unica comunità.

I musei di quartiere e i musei a forte vocazione sociale


In questa sede, sono stati esaminati sia i “musei di quartiere” puri, cioè quelle istituzioni che nascono con il preciso scopo di mettersi al servizio della collettività (anche come estensione di musei di tipo tradizionale), sia quei musei che hanno scoperto, solo nel corso del tempo, una “vocazione sociale”, includendo nella propria attività, specifici progetti studiati per le fasce sociali a rischio di esclusione. Questi musei stanno diventando sempre più numerosi e, in alcuni casi, per esempio nel Regno Unito, sono stati decisamente incoraggiati dalle istituzioni politiche ad intraprendere attività culturali rivolte ai problemi sociali, sia per gli evidenti benefici prodotti dalla loro azione in seno alla collettività sia per le ricadute positive che la coesione sociale determina anche per il sistema istituzionale e politico locale e nazionale.

Dal punto di vista “geografico”, sono stati presi in considerazione gli Stati Uniti, dove è nato il primo “museo di quartiere”, il Regno Unito, il Paese che più di altri ha messo in atto importanti politiche sociali mediante i musei, il Brasile, dove si è recentemente affermata una nuova visione del museo che si sviluppa “dal basso”, cioè per impulso della stessa popolazione; infine la Francia cui è associato un esempio straordinario che riguarda uno dei più grandi musei del mondo, il Louvre, il cui progetto "Au-delà des murs", rappresenta un’ottima sperimentazione di attività di outreach di una istituzione museale.

Non è stata operata una distinzione tra piccoli e grandi musei ma si è focalizzata l’attenzione unicamente sulla creatività e sull’efficacia dei progetti di inclusione sociale a prescindere, quindi, dalla grandezza o dalla rilevanza dell’istituzione promotrice.   

- I musei di quartiere


Il primo museo di quartiere nasce negli Stati Uniti, negli anni Sessanta, grazie a John Kinard, il quale progettò e diresse, dal 1967 al 1989, l’Anacostia Neighborhood Museum. Questo museo fu allestito in un cinema abbandonato, in un quartiere difficile e pieno di contraddizioni, Anacostia, il ghetto nero situato nella parte sud-occidentale di Washington.

Nella fase di progettazione del futuro museo di quartiere, fu necessario coinvolgere da subito tutti i rappresentanti della comunità: associazioni di vario tipo, da quelle civiche a quelle religiose, comitati di giovani, di inquilini, della polizia, ecc. Per molti mesi si svolsero incontri tra questi e lo staff del museo, fino al giorno dell’inaugurazione, avvenuta nel settembre del 1967. Questa è la data che segna un cambiamento epocale nel modo di concepire un museo: non più soltanto una istituzione finalizzata a migliorare la conoscenza, a promuove la ricerca e a conservare la memoria, ma finalmente anche una organismo necessario per il presente e per il futuro delle comunità. Un “orecchio in ascolto”, così Kinard definì l’Anacostia Neighborhood Museum. Egli era convinto che servissero «musei concepiti per assumersi dei rischi, per creare un ponte tra ricchi e poveri, tra individui istruiti e persone illetterate, tra culture privilegiate e altre svantaggiate, tra grande arte e arte popolare (4)». In questo nuovo modello di museo, ai curatori è chiesto di fungere da mediatori e di interpretare i problemi della società moderna alla luce degli insegnamenti che ci giungono dal passato. Kinard cerca anche di capire le perplessità che possono sorgere nei professionisti museali che, probabilmente, giudicheranno insensato che si chieda loro di occuparsi di problemi che esulano dalle loro responsabilità e dalle loro specifiche competenze (5). La soluzione, allora, è quella di creare un organismo che affianchi il museo e che assuma la funzione di intermediario: il museo di quartiere. Questo è non solo possibile, ma auspicabile, in quanto «dobbiamo aspettarci molto di più dai nostri musei (6)», afferma Kinard. Il primo museo di quartiere nasce, dunque, come estensione della Smithsonian Institution. Quando la Smithsonian decise di fare questo passo, sapeva che si stava per intraprendere un percorso fino ad allora inesplorato e, quindi, con molte incognite. Si trattava di un museo che non si poteva permettere di “appendere quadri ai muri” - secondo Kinard - né di esporre oggetti storici, a meno che sia i primi che i secondi non avessero un legame con la realtà della gente del quartiere, ovvero fossero oggetti con cui le persone potessero identificarsi. Il compito del museo di quartiere dell’Anacostia Museum è stato quello di parlare con la gente, analizzare i problemi insieme a loro, raccogliere dati e, infine, creare una esposizione o un altro tipo di iniziativa che rappresentasse davvero la gente. «Il museo deve essere un’istituzione viva» - continua l’artefice del primo museo di quartiere - «deve offrire alla gente del posto una sede in cui si accenda la voglia di incontrarsi e parlare; deve prestare attenzione ai problemi urgenti; deve incoraggiare le persone a dare il meglio di sé; deve promuovere attività che hanno a che fare  con le arti visive e dello spettacolo; deve sollecitare interessi diversi, che vanno dalla lotta contro l’alcolismo all’archeologia locale, dall’ornitologia alla pianificazione urbana (7)».

L’Anacostia Museum è sopravvissuto nel tempo e ha creato, dal 1967 ad oggi, una quantità incredibile di mostre, conferenze, attività didattiche, iniziative varie, crescendo e trasformandosi insieme al quartiere che, nel frattempo, ha cercato di migliorare la sua condizione iniziale e ora vede il moltiplicarsi di gallerie, sale da concerti e luoghi di aggregazione. Attualmente il Museo conta su uno staff di 19 professionisti, 25 volontari e 5 stagisti. Tra i suoi obiettivi, vi è anche quello di condividere la propria esperienza museologica, attraverso consulenze, presentazioni e pubblicazioni.

Un esempio più recente di museo che nasce in funzione e con l’apporto diretto della propria comunità, è il Museu de Favela (MUF), fondato, nel 2008, dagli abitanti delle favelas di Peacock, Pavãozinho e Cantagalo, a Rio de Janeiro. Sono solo alcune delle 700 favelas della città brasiliana, le quali non sono identificabili solo con fenomeni di criminalità e narcotraffico ma rappresentano anche un terreno culturale molto fertile. Negli ultimi anni si stanno attuando le cosiddette politiche di “pacificazione”, non sempre, però, così positive per i residenti, soprattutto per la speculazione edilizia che sta accompagnando la preparazione dei prossimi grandi eventi sportivi, Mondiali di calcio e Olimpiadi, che in alcuni casi conducono all’espropriazione di intere zone per la costruzione di impianti sportivi, e al conseguente allontanamento dei favelados. Il Museu de Favela, dunque, rappresenta una grande opportunità di riscatto e di visibilità per gli abitanti di queste periferie. Esso è diventato anche un mezzo di sviluppo economico locale per i residenti, grazie agli introiti derivanti dalle visite e dalla vendita di prodotti dell’artigianato locale. Il patrimonio culturale di questo museo sono, in pratica, i circa ventimila abitanti di queste zone marginali della città. L’antropologo brasiliano Mario Chagas ritiene che «il più grande patrimonio del museo sia il suo pubblico», ma in questo caso, pubblico e curatori formano un’unica entità sociale, formata da artisti, musicisti, artigiani, fotografi, giornalisti, professionisti, semplici residenti senza specifiche specializzazioni, ciascuno portatore di nuove risorse per la sopravvivenza del museo. L’impegno assunto dai fondatori è lavorare per il miglioramento della memoria culturale collettiva, il rafforzamento del carattere della comunità, la creazione di una visione comune del futuro che conduca ad una trasformazione delle condizioni di vita dei quartieri poveri.

- I musei a vocazione sociale

Se i musei sono, per loro natura, istituzioni socialmente responsabili, in quanto custodiscono il patrimonio comune e lo rendono leggibile, è solo in tempi recenti che si è rafforzata la convinzione che la responsabilità sociale del museo debba superare i confini convenzionali e trovare nuove forme di applicazione. Tale aspirazione è il frutto di una sempre più intensa ricerca sul pubblico. Per svolgere al meglio il proprio lavoro, i curatori hanno avuto bisogno di studiare ciò che interessa e che più motiva i visitatori ad affezionarsi a un museo. Tali indagini hanno anche tentato di identificare i potenziali visitatori, cioè coloro che non penserebbero mai, per vari motivi, di entrare in un museo, studiando le strategie più adeguate per attrarli, sulla base del principio che ogni individuo deve beneficiare dei musei, non solo alcuni privilegiati. Così facendo, i musei hanno imparato ad essere più democratici, meno elitari, più aperti (8). Da istituzioni concentrate quasi esclusivamente sulla cura delle collezioni, quali erano, si sono trasformati in istituzioni per le quali non solo il pubblico inteso in senso tradizionale, ma tutta la collettività - visitatori e non visitatori - assume un’importanza centrale. Questo passaggio produce un modello di museo inteso come “impresa sociale”, ovvero - per usare ancora le parole di Stephen Weil - un museo che trae «la sua   legittimità da quello che fa, piuttosto che da quello che è». In qualche modo l’originario ruolo sociale del museo, cioè quello di custodire la storia e di rendere consapevole la società del suo passato, non è mutato, ma ha assunto un carattere più funzionale. Si possono citare vari esempi di musei “a vocazione sociale”. Tre di questi sono esemplificativi delle varie forme in cui tale ruolo può essere svolto: si tratta di due musei inglesi, il Museum of London e l’Holbourne Museum di Bath, e del più importante museo di Francia, il Louvre.

- Museum of London, Holbourn Museum, Louvre


Se negli Stati Uniti il primo museo di quartiere nasce, come appena descritto, per rispondere ad una precisa esigenza di integrazione dei neri americani, vittime di una forte discriminazione (insieme ai nativi americani e ai latino-americani) che li escludeva dalla vita sociale e culturale del Paese e che li sottorappresentava, di conseguenza, anche nei musei, nel Regno Unito, invece, la “vocazione sociale” dei musei si afferma a seguito della forte crisi che ne colpisce l’identità nel corso degli anni Settanta, al punto che Margaret Thatcher li definì “istituzioni inutili” (9) ed evidentemente costose per la società. Era necessario, dunque, trovare una giustificazione alla propria esistenza: non più solo contenitori di oggetti da conservare, studiare ed esporre, ma realtà più vicine alla gente e in grado di interpretarne i bisogni e le aspirazioni. Per questa ragione i musei britannici - che stavano vivendo il loro momento più buio, in un periodo storico caratterizzato da grandi contestazioni e dalla messa in discussione di molte certezze - si sono trovati nella condizione migliore per accogliere di buon grado l’invito del governo ad estendere il proprio campo d’interesse alle problematiche sociali. Tali pratiche sono proseguite nel tempo e tutt’ora i musei del Regno Unito sono all’avanguardia sia nella messa in pratica di progetti di inclusione sociale sia nello teorizzazione di nuovi modelli di gestione museale, più aperti alla partecipazione della comunità.

- Museum of London - lavorare con i giovani


Il Museum of London è da anni impegnato in progetti di inclusione sociale rivolti ai giovani, agli adulti, soprattutto ai disoccupati di lunga durata, e ad altre categorie sociali deboli. In questi progetti, i soggetti coinvolti non svolgono attività didattiche o ricreative ma collaborano fattivamente al miglioramento dei servizi offerti dal museo, per esempio producendo podcasts audio e video, di ausilio ai visitatori del museo nella comprensione dei percorsi espositivi inerenti le fasi più antiche della storia di Londra.

Nel caso dei giovani, è stato creato un team di ragazzi londinesi, tra i 16 e i 21 anni, che hanno svolto la funzione di “consulenti” del museo per la creazione di progetti, mostre ed eventi per i loro coetanei (10). Il progetto, denominato “Junction”, è iniziato nel 2010 e i ragazzi hanno preso parte a tutte le fasi della sua creazione, compresa la cura delle esposizioni e l’organizzazione degli eventi pubblici: una partecipazione, dunque, a 360°. In questo modo i giovani hanno vissuto l’opportunità unica di impegnarsi per il funzionamento del museo e soprattutto di esprimere la loro opinione e la loro personale visione di giovani londinesi, influendo sulle decisioni dei curatori e dei responsabili del Museo.
Le attività con i giovani, invitati dal Museum of London come volontari, sono costantemente riproposte e la partecipazione è aperta a chiunque ne faccia richiesta.

- Holbourn Museum - restituire un posto nella società ai senzatetto


L’Holbourn Museum è un museo d’arte situato a Bath, nel sud dell’Inghilterra, rinomata cittadina turistica per la quale i senzatetto erano un vero problema sociale. Ora, invece, il museo svolge da sei anni un programma di attività con i senzatetto, nell’ambito del progetto “Homeless artists” che prevede un incontro settimanale con persone che vivono un disagio sociale, alle quali, con la guida di artisti professionisti, è data la possibilità di esprimere la propria vena artistica e di conoscere in modo più approfondito l’arte pittorica e le sue tecniche. In tal modo essi non sono più “persone invisibili” ma riescono a mostrare al resto della comunità che esistono, mettendo in luce i problemi di cui sono vittime. I lavori artistici vengono esposti nel museo e in varie altre manifestazioni organizzate nella città di Bath. Ma non solo, grazie all’idea di un ex studente della locale università, Luke Tregidgo, i senzatetto, adeguatamente formati, sono impiegati come guide turistiche. Si è così cercato di risolvere un grave problema sociale, sfruttando da una parte il valore dell’arte e l’efficacia dell’espressione artistica individuale, dall’altra la maggiore risorsa della cittadina, il turismo.

- Il Louvre fuori dal Louvre


L’ultimo esempio è quello del Louvre. Anche questo museo, che potrebbe vivere solo del suo imponente patrimonio storico e artistico, ha cercato l’impegno sociale e lo ha concretizzato attraverso il coinvolgimento dei detenuti del carcere parigino di Poissy (11). In questo caso, l’attenzione si è concentrata non sulle fasce sociali più deboli della comunità di riferimento, ma su una realtà che solitamente è percepita come separata da essa, senza alcun tipo di legame con il resto della cittadinanza se non quello mediato dai contatti con le associazioni filantropiche della città. Il rapporto del Louvre con le carceri risale già al 2007: fino ad oggi sono state organizzate più di 120 attività cui hanno preso parte professionisti del settore culturale e gruppi di detenuti. Nel 2011 è stato realizzato il progetto "Au-delà des murs", che ha rafforzato l'impegno del Louvre per le attività sociali e culturali nelle carceri. L’iniziativa è consistita nella riproduzione di ventisei opere del museo parigino da parte di un gruppo di detenuti, scelti non per le loro capacità artistiche ma per la forte motivazione interiore che hanno dimostrato. Ogni detenuto che ha preso parte al progetto ha scelto autonomamente il proprio modo di contribuire alla realizzazione della mostra, dedicandosi alla pittura, alla progettazione grafica o ai testi. La mostra ha avuto la supervisione dello scrittore Luc Lang, membro della Maison des écrivains et de la littérature, e dell'architetto-scenografo Philippe Maffre (che aveva già collaborato con il Louvre e che in questa occasione ha realizzato lo storyboard della mostra), i quali hanno lavorato al progetto a stretto contatto con il gruppo di detenuti, con il personale del carcere e con quello del Louvre. Per circa sei mesi il cortile dell'istituto penitenziario ha ospitato l'esposizione delle riproduzioni realizzate dai detenuti mentre il Louvre esponeva, nello stesso tempo, una "mostra-specchio" con le copie delle stesse opere. Il cortile è stato scelto come spazio espositivo non perché non si disponesse di altre soluzioni, ma perché, in questo modo, tutti i detenuti, ogni giorno, avrebbero potuto osservare quelle opere. L'iniziativa ha suscitato grande emozione non solo nell'ambito della comunità carceraria e dello staff di curatori e collaboratori del Louvre, ma anche dell'intera cittadinanza parigina. Per ora il Louvre resta l'unico museo ad aver trasformato i detenuti non solo in artisti ma anche in curatori.

I musei di quartiere in Italia: due casi studio 


Le esperienze europee ed extra-europee finora descritte dimostrano che la sostenibilità, intesa in senso sociale, cioè la creazione di relazioni con le proprie comunità, è una pratica che richiede tempo per svilupparsi e la fiducia non può essere acquisita nello spazio di poche ore. E’ molto facile che i risultati raggiunti svaniscano se i progetti non fanno parte dell’impostazione mentale di un'organizzazione museale e, quindi, se non trovano terreno fertile, dedizione costante e impegno da parte dei responsabili dei musei.

In Italia, in generale, l’attenzione per il sociale si sviluppa soprattutto nell’ambito dell’arte contemporanea, finora il settore più avanzato nella ricerca di proposte innovative che utilizzano l’arte per la riqualificazione degli spazi urbani (12). Si tratta, però, in molti casi, non di istituzioni culturali radicate nel territorio che svolgono politiche culturali inclusive in modo continuativo, ovvero come prassi ordinaria integrata nella programmazione culturale regolare, ma, più spesso, di un fatto occasionale, di un “evento”, come viene rilevato anche nel Rapporto di ricerca della Fondazione Cariplo del 2009, Periferie, cultura e inclusione sociale (13), oppure di operazioni di ordine forse più “estetico” che effettivamente funzionali alla soluzione dei problemi sociali.

Gli esempi italiani qui esaminati riguardano due casi studio di grande interesse, entrambi unici per le modalità di svolgimento e per gli obiettivi che si sono posti. Il primo riguarda la sperimentazione di un “museo di quartiere temporaneo”, avvenuta a San Giuliano Milanese, in provincia di Milano; il secondo si riferisce alle iniziative dell’associazione culturale 100% Periferia, con sede a Roma ma operante anche in altre città, sia in Italia che all’estero, tese alla riqualificazione degli spazi urbani periferici attraverso l’arte contemporanea ed altre forme di espressione artistica, e alla creazione di progetti partecipativi che intrecciano il linguaggio degli artisti con quello degli abitanti dei quartieri.

1) Museo temporaneo di quartiere di San Giuliano Milanese


La sperimentazione fu effettuata tra l’aprile e il luglio del 2009, nell’ambito del progetto “Foresta nascosta”, ideato dall’architetto Matteo Balduzzi, dal sociologo e sinologo Daniele Cologna e dal ricercatore esperto di welfare Stefano Laffi, promosso dalla Provincia di Milano e dal Comune di San Giuliano Milanese (14).

In quella occasione, all’interno di due container fu allestita un’esposizione di “storie” e di fotografie fornite dagli stessi abitanti dei quartieri di San Giuliano Milanese, città caratterizzata da varie ondate di immigrazione che hanno interessato la zona nel corso degli anni. Ciascuno dei cinque quartieri della città, coinvolti nel progetto, ha rappresentato, attraverso i racconti dei suoi residenti, un cinquantennio di sviluppo della città: dall’inurbamento dei contadini e dalla prima immigrazione dal sud negli anni ’50, passando per la più massiccia immigrazione dal sud degli inizi degli anni ’60, in coincidenza con il boom urbanistico, fino alla creazione delle zone residenziali negli anni ’70 e degli agglomerati di edilizia popolare
negli anni ’80. Infine, l’ultima fase, quella dei nuovi immigrati stranieri e dei grandi complessi residenziali a schiera degli anni Novanta e Duemila, destinati alle classi sociali medio-alte.

La gestione del progetto fu affidata ai ragazzi di San Giuliano, di età compresa fra i 16 e i 24 anni, i quali svolsero la funzione di “raccoglitori” delle storie degli abitanti dei vari quartieri. I giovani ricevettero, per l’occasione, una specifica formazione ed anche un piccolo rimborso economico. I compiti svolti consistettero nell’apertura dei container espositivi, nell’incontro con gli abitanti e quindi nella raccolta di interviste e fotografie, nella trascrizione e nell’archiviazione del materiale ottenuto.

Anche i container ebbero, ciascuno, una loro specifica funzione: il container rosa, denominato Bar delle storie, fu il luogo d’incontro e di discussione degli abitanti con i ragazzi, cioè il luogo in cui le storie furono raccontate e registrate. Nel retro venne predisposto un piccolo ufficio attrezzato di apparecchiature per la registrazione, l’archiviazione e la trascrizione dei materiali, e infine per la digitalizzazione delle fotografie.
Il secondo container, invece, costituì lo spazio espositivo vero e proprio, il cui colore venne modificato a seconda del quartiere in cui fu posizionato. Vi furono esposte, a rotazione, le storie degli abitanti e le loro fotografie di famiglia, “una sorta di installazione collettiva in progress”.
Il progetto è descritto nel sito ufficiale http://www.forestanascosta.net/. All’esposizione seguì anche la pubblicazione di un catalogo, un “inserto speciale” dal titolo “Foresta nascosta”, venduto in edicola con i due giornali partner del progetto, Il cittadino e La Gazzetta del Sud Milano, stampato in oltre 20.000 copie.

2) 100% Periferia


L’organizzazione 100% Periferia nasce con l’intento di portare l’arte in spazi atipici, al di fuori delle consuete superfici museali, grazie ad una rete di collaborazioni tra artisti, associazioni, scuole, biblioteche, musei ed altre istituzioni. Le proposte culturali sono fondate principalmente sulla condivisione e, dove possibile, sulla partecipazione attiva delle persone del luogo, in particolar modo dei ragazzi, al processo organizzativo e creativo. Il “nomadismo culturale” o l’”Arte in movimento” che caratterizzano l’azione di 100% Periferia si esprime, per esempio, nella costituzione di gallerie mobili.
Tra le varie iniziative promosse in questi anni dall’associazione, tutte di grande interesse, è stata scelta, come caso studio, la manifestazione denominata “Cielo condiviso”, realizzata quest’anno, dal 20 al 25 ottobre, in collaborazione con il MAAM, Museo dell'Altro e dell'Altrove di Metropoliz_città meticcia (Roma, via Prenestina), La Bottega dei Mondi Impossibili, Cooperativa Ermes, e con il patrocinio di Roma Capitale.

Cielo condiviso” è una rassegna d’arte partecipata allestita nel campo Rom di Via Salone, a Roma. Un gruppo di artisti di ogni genere e di studiosi (poeti, musicisti, fotografi, teatranti, curatori d’arte e astronomi) hanno coinvolto i residenti del campo per vivere attività comuni progettate intorno all’idea-guida del cielo e della sua orizzontalità, espressione di relazioni più eque tra le persone, in cui non contano più i ruoli individuali.
Un collegamento creativo con le stelle ha permesso al cielo di avvicinarsi al campo, posandosi su uno schermo bianco di proiezione, in un incontro condiviso.
La partecipazione dei Rom è avvenuta per esempio attraverso il racconto di alcune donne anziane, le quali hanno collaborato anche alla creazione di una particolare mappa celeste realizzata con le stoffe donate dalle stesse donne Rom e con le fotografie del cielo realizzate dagli abitanti del campo. Altri laboratori sono stati apprestati per i bambini Rom, dedicati, per esempio, allo studio dei fenomeni celesti o alla realizzazione di oggetti narranti. Un astrofisico e un astronomo hanno invitato i partecipanti a conoscere il cielo, attivando workshop volti a far interagire le persone con le stelle e a conoscere i principi dell’astronomia spiegati in modo semplice e immediato, aiutando ad intraprendere in modo autonomo l’osservazione del cielo. Il progetto di 100% Periferia è di grande interesse soprattutto per la “minoranza” che è stata coinvolta, quella dei Rom (15), i cui rapporti con il resto della cittadinanza sono spesso conflittuali e impediscono la reciproca conoscenza delle rispettive culture e tradizioni, e l’incontro su valori comuni. “Cielo condiviso” è il terzo evento artistico-relazionale organizzato dall’associazione romana presso il campo Rom di via di Salone. Precedentemente era stato realizzato il progetto “Quadrato nomade”, con l’artista Lisa Wade, presentato tra la fine di febbraio ed i primi di marzo 2012 al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Al secondo progetto artistico, realizzato nell’aprile del 2013, avevano collaborato Paolo W. Tamburella in collaborazione con l’artigiano Rom Svenko Husovic.

Appendice: linee guida per la creazione di un museo di quartiere


Dai casi studio appena esaminati, si evidenzia che i musei di quartiere sono una delle migliori soluzioni per rivitalizzare culturalmente le zone periferiche urbane. In generale, si tende a preservare - a volte ottimamente, altre volte non nel migliore dei modi - i centri storici, i piccoli borghi e i loro territori, ma non si riserva altrettanta attenzione ai quartieri delle città, che pure hanno una loro storia e una personalità distinta che merita di essere preservata. E in effetti gli esempi appena illustrati sono tra i pochi realizzati nel nostro Paese. Perché, invece, non considerare i quartieri urbani come una parte importante della nostra cultura, anziché coglierne soltanto gli aspetti negativi, spesso legati al degrado e alla criminalità? Ecco, dunque, alcuni suggerimenti per realizzare un museo di quartiere (16):

- creare un gruppo di lavoro formato da alcuni abitanti del quartiere che svolgeranno il ruolo di curatori del museo;

- individuare un locale o un edificio inutilizzato che ospiterà il museo di quartiere;

- progettare una mostra permanente incentrata sulla storia del quartiere, creata attraverso le narrazioni degli abitanti, le fotografie, gli oggetti. In questa fase è importante pubblicizzare molto l’iniziativa, per esempio distribuendo dei volantini con le indicazioni per contribuire con le proprie storie o con la documentazione che gli abitanti desiderano donare al museo;

- progettare mostre temporanee a rotazione che raccontino l’attualità del quartiere;

- dare vita ad un “muro dei sogni”, cioè uno spazio, continuamente aggiornato, in cui ogni abitante del quartiere possa esprimere un sogno, una speranza;

- realizzare uno spazio riservato ai talenti degli abitanti del quartiere: abilità manuali o intellettuali, letterarie, artigianali, musicali, artistiche, ecc.;

- creare un punto vendita di “souvenir” del museo, oggetti creati artigianalmente dai residenti del quartiere.

Un museo di questo tipo - che può anche essere definito “collettivo” - rappresenta una risorsa importante per il quartiere che lo ha concepito, in quanto, oltre a rimuovere quei sentimenti di insofferenza e di frustrazione che spesso accompagnano la vita degli abitanti delle periferie più “difficili”, possono creare anche sviluppo, solidarietà sociale ed una nuova qualità della vita.


NOTE

1 Relazione presentata in occasione del Quarto Convegno Nazionale dell’Associazione Nazionale Piccoli Musei (APM), Assisi, Palazzo dei Priori, Sala della Conciliazione, 11-12 novembre 2013, organizzato dall’APM in collaborazione con il Centro Internazionale di Studi sul Turismo (CST) di Assisi.

2 D. Fleming, The democratic museum, Liverpool MA Conference, 6 October 2008

3 G. Pinna, Fondamenti teorici per un museo di storia naturale, Milano 1997, p.11

4 J. Kinard, Intermediari tra il museo e la comunità, in Il nuovo museo, a cura di C. Ribaldi, Milano 2005, p. 66

5 Ivi, p. 67

6 Ivi, p. 66

7 Ivi, p. 72

8 David Fleming, Museums and social responsibility, Icom News n°1, 2011, p. 9

9 Nell’articolo intitolato “Museums for the people”, pubblicato su http://www.spiked-online.com/site/article/10827/, la Appleton si chiedeva perché l’inclusione sociale fosse diventata una delle finalità perseguite dai musei britannici, in realtà non per una spinta venuta dall’interno del settore museale, ma a seguito di una indicazione del governo. Il motivo era il tentativo di far apparire i musei non più come “istituzioni inutili”, tenute in vita da élite ideologiche, tendenti ad escludere le masse (secondo i pensatori di sinistra), ma come organizzazioni molto più vicine alla realtà e attente ai bisogni della società. V. C. Pisu, Musei liberi e non politicizzati: la realtà britannica, in Museums Newspaper, http://museumsnewspaper.blogspot.it/2013/05/musei-liberi-e-non-politicizzati-la.html

10 Il progetto, denominato “Junction” ha avuto il suo momento culminante nella mostra “Londinium”, in occasione dei Giochi olimpici del 2012. V. C. Pisu, Il museo sta con i giovani, ArcheNews, Anno VIII, N° C, Agenzia Magna Graecia, p. 3

11 Iniziative simili, rivolte alle realtà delle carceri, sono state realizzate anche nel nostro Paese. Un caso studio è citato nel Rapporto di ricerca della Fondazione Cariplo del 2009, Periferie, cultura e inclusione sociale, a cura di Simona Bodo, Cristina Da Milano, Silvia Mascheroni, p. 55 e sgg.: si tratta di una collaborazione tra la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo e la Casa Circondariale di Bergamo per la realizzazione dei progetti “Zona Franca 11– Arte d’evasione” (2006-2007) e “Zona Franca – Gate” (2007-2008). In un altro caso, la collaborazione si è svolta tra il Museo Nazionale del Cinema, il CGM - Centro per la Giustizia Minorile del Piemonte e della Valle d’Aosta e la Città di Torino, ed ha portato alla creazione del progetto “Mediante” (2006-2007).

12 Le Stazioni dell’Arte di Napoli, per esempio, sono state realizzate lungo il percorso delle Linee 1 e 6 della Metropolitana. Il progetto, promosso dall’amministrazione comunale con il coordinamento artistico di Achille Bonito Oliva, comprende circa duecento opere scelte tra cento prestigiosi autori contemporanei, e costituisce, pertanto, uno degli esempi più importanti di museo decentrato e distribuito sull’intera area urbana. V. il sito ufficiale della Metropolitana di Napoli:

13 Periferie, cultura e inclusione sociale, n.1, 2009, cit., p. 7

14 Ringrazio, per le utili informazioni fornitemi, il Dott. Valerio Esposti, attualmente Portavoce dell’Amministrazione Comunale di San Giuliano Milanese, che all’epoca del progetto “Foresta nascosta” faceva parte dell’Ufficio Cultura dello stesso Comune.

15 Il nome Rom è stato assunto in occasione del 1° Congresso Mondiale dei Rom, nel 1971, a Orpington - Chelsfield, nei pressi di Londra. Il significato di questo nome è “uomo” o “popolo degli uomini”, e include tutti i gruppi etnici presenti nel mondo (Sinti, Manouches, Kalderash, Lovara, Romanìchéls, Vlax, Domari, Nawar, ecc.). Il giorno in cui si è svolto il congresso, l'8 aprile, è divenuto la giornata internazionale dei Rom. V. http://idearom.jimdo.com/cultura/, sito dell’associazione Idea Rom Onlus di Torino, formata da donne Rom.

16 I suggerimenti sono stati tratti e rielaborati da “The Neighborhood Museum Collective”, (http://www.openideo.com/open/vibrant-cities/concepting/the-neighborhood-museum-collective).

 Cari amici, in questi anni in cui ho svolto l’incarico di direttore scientifico del Museo Civico “Ferrante Rittatore Vonwiller”, dal 2019 a...