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Il futuro del patrimonio culturale

Che cosa dobbiamo attenderci dalla riforma Franceschini


E’ quanto mai curioso che uno Stato decida di risolvere i problemi degli organi periferici dei propri Ministeri, mi riferisco alle Soprintendenze, non cercando di ridare ad esse nuova linfa - per esempio favorendo nuove assunzioni, razionalizzando le spese, migliorando gli strumenti a disposizione dei funzionari - ma, anzi, impoverendole ancora di più fino a esautorarle del tutto. Sarebbe stato forse più coraggioso decidere di eliminarle d’un sol colpo, ma evidentemente si vuole prima portare all’attenzione dei media quelle che vengono giudicate inefficienze (ma che la maggior parte delle volte sono da attribuire, appunto, alla mancanza di personale e di risorse) in modo da ingrossare le fila di coloro che sono contro le Soprintendenze.
In tal modo la loro eliminazione sarà vista da tutti come il giusto epilogo di una storia fatta di scarsa produttività e pastoie burocratiche. Recentemente Salvatore Settis si è espresso su questo punto affermando, a proposito del Ddl Madia e del recente mega concorso per la direzione dei venti più importanti musei italiani, che “se questa riforma ha al centro i musei – in particolare i venti scelti come più importanti – dall’altro lato impoverisce di personale le soprintendenze territoriali. Quelle di Roma, Firenze e Napoli hanno nove storici dell’arte in tutto: come faranno a tutelare l’immenso patrimonio a loro affidato? Il vero punto per capire se questo governo rispetterà l’articolo 9 della Costituzione è se verranno fatte nelle Soprintendenze territoriali le massicce assunzioni di cui c’è assolutamente bisogno. Di questo si parla troppo poco”.
Anche per Tomaso Montanari il Ddl Madia rappresenta il "più grave attacco al sistema della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale mai perpetrato da un Governo della Repubblica italiana perché un potere tecnico (quello delle soprintendenze, una sorta di magistratura del territorio e del patrimonio) che rispondeva solo alla legge, alla scienza e alla coscienza da oggi confluisce nel potere esecutivo. Se il governo vuol fare un’autostrada in un bosco secolare o in un centro storico, lo chiede a qualcuno che è diretto dai prefetti: cioè sostanzialmente a se stesso”.
A che cosa condurrà questa operazione di smantellamento delle Soprintendenze? C’è la percezione di ciò che ci aspetta in un prossimo futuro, anzi, domani stesso, data la velocità con cui si stanno mettendo in atto questi cambiamenti: già si parla dei Grandi progetti beni culturali approvato dal Consiglio superiore del Mibact. Una parte di questi progetti è indubbiamente buona, ma ciò che lascia perplessi, per esempio, sono i 18,5 milioni di euro per il Colosseo e che riguarderanno un intervento di tutela e valorizzazione volto al ripristino dell'arena al fine di consentirne un uso sostenibile per manifestazioni di altissimo livello culturale. I timori sono più che comprensibili, data l'importanza del monumento, anche se il Ministro Franceschini ha dichiarato che non si pensa “alle partite di calcio proposte dal presidente della Roma o ai concerti rock. Ci saranno solo eventi di altissima qualità”.
E’ evidente, in ogni caso, che stiamo assistendo ad una vera e propria corsa alla “valorizzazione”, alla famosa “messa a reddito” del nostro patrimonio culturale, non vista da tutti con simpatia. Andrea Emiliani, per esempio, grande studioso, a lungo soprintendente di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna, si è espresso piuttosto duramente riguardo gli ultimi avvenimenti. Gli è stato chiesto se avrebbe partecipato al mega concorso voluto da Franceschini ed ha così risposto: “No, perché credo nel vecchio concetto italiano di applicare la competenza al luogo dove l’esperto si è formato. Uno studioso di arte piemontese non può andare in Sicilia. Io, che ho studiato a Bologna, non me la sarei sentita di spostarmi a Roma o a Milano. Sa su cosa si basa tutta la manovra? Sul concetto, falso, idiota, che invero precede Renzi, di “valorizzazione”. Quando se ne parla, si esce dalla storia dell’arte e si entra nello spettacolo. Tutto nasce intorno al 1980 dal liberismo sfrenato di Reagan e della Thatcher. Il mondo si ribalta, e l’Europa va al traino. L’arte-spettacolo ignora la storia; il museo diventa un magazzino, dove si vanno a prendere pezzi per le mostre e li si fa viaggiare, in modo tale da distruggerli nel giro di 50 anni. Mandare Piero della Francesca a Tokyo non esiste! Che senso ha un’esposizione come quella organizzata da Goldin a Vicenza sui notturni da Tutankhamon a van Gogh? Contro l’operazione omologante del ministro si è rivoltato perfino Sgarbi, che è facinoroso ma persona intelligente».

Ascoltare le parole di un uomo di 84 anni che ha lavorato a lungo nelle Soprintendenze non può far male alla politica dei nostri giorni. 

Salvatore Settis commenta la scelta dei nuovi direttori dei venti più importanti musei nazionali italiani

L'articolo è tratto da La Repubblica, 19 agosto 2015


UNA CURA DA ELEFANTE


di SALVATORE SETTIS

PER la prima volta nella storia, in un Paese che per il patrimonio culturale non è tra gli ultimi, i direttori dei 20 più importanti musei nazionali vengono nominati in un sol colpo. Come se Le Monde scrivesse che un solo decreto ha nominato i direttori del Louvre e della Gare d'Orsay.
E anche del Centre Pompidou, del Museo di Cluny, dei musei di Lione, Marsiglia, Bordeaux, e così via. Ma notizie come questa non si leggeranno mai sulla stampa francese, o inglese, o tedesca. Perché, allora, questa cura da cavallo (o da elefante) sul corpaccione malato dei Beni culturali? E a quali malanni vuol rimediare questa terapia d'urto? Cinque sono le piaghe più spesso citate: l'accusa di "burocratizzazione", l'autoreferenzialità del sistema, la difficoltà di "valorizzare", la mancanza di fondi e la carenza di personale. Per carità di patria lasciamo perdere la burocrazia delle Soprintendenze, cara alle invettive lanciate da tanti sindaci (tra cui l'attuale presidente del Consiglio): la legge Madia vi "rimedia" ponendo i Soprintendenti agli ordini dei prefetti, e dunque ci rivela che gli storici dell'arte sono burocrati e i prefetti no. Ma gli altri problemi sono patate bollenti sul tavolo dei neonominati, e vale la pena chiedersi se la procedura d'eccezione seguita per le nomine è davvero la medicina adatta. Chi sostiene che un bando pubblico internazionale per la direzione di un museo sia una buona idea ha mille ragioni; ma di qui a fare venti procedure tutte insieme ce ne corre. Nessun dubbio che la commissione fosse di alto livello, dal presidente Paolo Baratta a Luca Giuliani (archeologo e rettore del Wissenschaftskolleg di Berlino) e Nicholas Penny (direttore uscente della National Gallery di Londra), a Claudia Ferrazzi (già vice- amministratore del Louvre) a Lorenzo Casini (giurista e consigliere del ministro). Ma è proprio sicuro che ogni candidato meritasse solo 15 minuti di colloquio?
Nonostante la retorica della "valorizzazione", quasi tutti i neodirettori non sono manager della cultura, ma storici dell'arte o archeologi (fa eccezione Mauro Felicori, assegnato a Caserta), con esperienze museografiche. Sette sono stranieri, ma neppure uno viene dalla direzione di un grande museo. C'è chi ha diretto musei piccoli o medi come quelli di Montargis (Sylvain Bellenger, che dirigerà Capodimonte), di Braunschweig (Cecilie Hollberg, ora alle Gallerie dell'Accademia di Firenze), di Linz (Peter Assmann, che passa al Ducale di Mantova), c'è chi ha lavorato nei musei, ma come curatore (come il neodirettore degli Uffizi Eike Schmidt, o Peter Aufreiter che dirigerà la galleria di Urbino), c'è chi non ha mai lavorato in un museo, come il più giovane di tutti, Gabriel Zuchtriegel (34 anni), a cui è stata assegnata Paestum; c'è, infine, chi viene dalla gestione di una fondazione privata in Italia (Palazzo Strozzi), come James Bradburne.
Anche fra gli italiani in rientro dall'estero nessuno ha diretto un museo, ma quasi tutti hanno esperienze curatoriali: così Martina Bagnoli, curatore a Baltimora e ora direttore dell'Estense a Modena; Flaminia Gennari, che da Miami passa alle Gallerie nazionali d'arte antica di Roma; Paola D'Agostino, che dalle collezioni universitarie di Yale passa al Bargello; mentre Eva degl'Innocenti, che lavora per una rete museale in Bretagna, dirigerà il Museo Nazionale di Taranto. La speranza che si candidassero direttori di musei di prima grandezza è andata delusa: non ha fatto domanda Gabriele Finaldi, appena approdato alla direzione della National Gallery di Londra, né Davide Gasparotto, che ha lasciato da pochi mesi la direzione della Galleria Estense per diventare Senior curator of paintings al Getty. Quanto agli italiani, delude non poco che, dei molti funzionari del MiBact che avevano fatto domanda, solo una (Anna Coliva, Galleria Borghese) sia stata "promossa": brutto segno per l'Amministrazione, bocciata quasi in blocco dalla commissione, anche quando, come agli Uffizi, erano in corso importanti progetti. Degli altri, molti vengono dalla direzione di musei regionali o comunali: così Cristiana Collu (già al Mart di Rovereto, ora alla Gam di Roma), Enrica Pagella (dai musei civici di Torino al Polo reale della stessa città), Paola Marini (dai civici musei di Verona all'Accademia di Venezia), Marco Pierini (da Pienza alla galleria di Perugia), Paolo Giulierini (che dal minuscolo museo di Cortona passa a dirigere il più grande museo archeologico del mondo, quello di Napoli), Serena Bertolucci, da Villa Carlotta al Palazzo Reale di Genova; mentre il neodirettore del Museo Nazionale di Reggio Calabria, Carmelo Malacrino, è ricercatore universitario nella stessa Reggio.
Ai neodirettori (età media 50 anni) bisogna per principio far credito. Certo, però, un grande museo non è la stessa cosa di uno piccolo, né chi è stato curatore sarà necessariamente un buon direttore. E sarebbe pia illusione credere che queste nomine aprano davvero una nuova stagione. I neodirettori hanno davanti una mission impossible: rinnovare un sistema sclerotizzato non dalla burocrazia, ma dalla carenza di personale (per il pluridecennale blocco delle assunzioni) e dall'insufficienza dei fondi (ai terribili tagli del 2008, allora deplorati dalla sinistra, nessuno ha mai posto rimedio).
È in questa lunga paralisi (più simile allo sterminio che all'eutanasia) che i musei italiani rischiano di esternalizzare il loro core business, la conoscenza e la ricerca: senza la quale non c'è tutela, ma non c'è nemmeno la decantata "valorizzazione". Perché valorizzare quel che non si conosce non si può: e una vera conoscenza/ tutela/valorizzazione non si fa solo nei musei, ma sul territorio, mentre oggi le Soprintendenze territoriali sono depauperate di risorse e di personale. I neodirettori sono, è vero, nuova linfa immessa nell'esangue ministero: ma senza massicce nuove assunzioni, nuovi fondi e un rinnovato legame con il territorio non resterà a loro (e al ministro) se non intonare le parole della Regina di Cuori ad Alice: «Ora, vedi, devi correre avanti più che puoi, per restare nello stesso posto».
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Sullo stesso argomento: 
http://museumsnewspaper.blogspot.it/2015/08/i-nuovi-direttori-dei-venti-grandi.html

I nuovi direttori dei venti grandi musei italiani: dubbi e perplessità.

Un concorso è il modo più appropriato per scegliere i direttori dei grandi musei?

Il Ministro Dario Franceschini
Foto tratta da http://www.quicosenza.it/news/calabria/48385-musei-ecco-i-20-nomi-dei-nuovi-direttori-carmelo-malacrino-a-reggio-calabria

In Italia la procedura del concorso per l’accesso ai pubblici incarichi è talmente radicata che si potrebbe dire che siamo una repubblica fondata sui concorsi. Questi metodi di selezione, così cari a un sistema altamente burocratizzato, dovrebbero consentire la selezione dei candidati migliori in base al possesso di requisiti predefiniti, al superamento di varie prove e al giudizio finale di una commissione. Intorno ai concorsi, però, si scatenano spesso un’infinità di polemiche: sono sempre affidabili? Sono facilmente manovrabili?
Resta il fatto che, nonostante tutto, continua ad essere una procedura largamente diffusa e non si può sempre mettere in dubbio la sua efficacia come strumento di selezione.
In queste ore si è dato grande rilievo all’esito del concorso per la selezione dei direttori di venti grandi musei italiani. Il Ministro Dario Franceschini ha presentato la procedura come una “innovazione”, uno “svecchiamento” del precedente sistema. In realtà non è chiaro per quale motivo il fatto di aver scelto i direttori tramite un concorso pubblico e internazionale possa rivoluzionare i sistemi di gestione dei nostri musei. Inserire il “nuovo”, cioè i direttori di fresca nomina, in un sistema “vecchio”, a mio parere non sembra essere un’idea eccellente. Si può costruire una casa iniziando dal tetto? Impossibile. Eppure questo, in pratica, è ciò che si sta facendo.  
Ma ci sono altre ragioni per le quali ritengo che un concorso non sia il mezzo più adatto per l’affidamento della direzione di un grande museo. Questi musei fanno parte del patrimonio culturale della nazione e per tale ragione la loro gestione deve far capo a figure istituzionali alle quali dovrebbe spettare anche la responsabilità diretta della scelta dei direttori. 

E’ quanto avviene, per esempio, nei più grandi musei d’Europa: il direttore del British Museum, sovvenzionato dal Dipartimento della Cultura britannico, è gestito da un consiglio di amministrazione formato da 25 membri. In base al British Museum Act del 1963 i 25 fiduciari che gestiscono il museo sono nominati: uno da Sua Maestà, ben quindici dal Primo Ministro, quattro dal Segretario di Stato e cinque dagli Amministratori del British Museum. Il Consiglio è responsabile della gestione generale del museo e della nomina diretta del direttore con l’approvazione del Primo Ministro.
Analogamente al British Museum, anche il direttore del Louvre viene scelto dal Consiglio dei Ministri e così pure il direttore del Prado.

Sono d’accordo con Vittorio Sgarbi, pertanto, che ha dichiarato che “nomine di questo tipo e di questa importanza, un ministro dei Beni culturali le fa in prima persona, assumendosene la responsabilità”.  Inoltre - mi permetto di aggiungere - uno studioso di chiara fama non ha bisogno di superare un esame. Il suo prestigio è tale che nessuno può metterlo in discussione. Per questo ritengo che un concorso, in questo caso, sia inappropriato: non stiamo parlando di un impiego qualunque ma di un incarico di alta responsabilità che può essere affidato solo a professionisti la cui carriera sia di per sé garanzia di seria affidabilità.

Non è il curriculum dei direttori, quindi, che deve essere esaminato, dato che su quello non ci dovrebbero essere dubbi, ma il loro operato, quello sì, deve essere sottoposto periodicamente al vaglio di una commissione che analizzi accuratamente i risultati ottenuti, le difficoltà riscontrate e le cause che le hanno determinate. Se un professionista, per quanto valente studioso, non è riuscito a ottenere dei risultati concreti nell'arco di due o tre anni, sembra inutile continuare ad erogargli uno stipendio. Se, invece, si appurerà che le cause dell'insuccesso sono imputabili al sistema in cui è costretto ad operare, si cercherà di apportare le necessarie innovazioni e riorganizzazioni. Nel caso del recente concorso, invece, tutto ruota intorno ai curricula dei prescelti e nulla è stato ancora detto a proposito dei metodi di valutazione del loro futuro operato, anche se il Ministro Franceschini lo scorso anno aveva dichiarato di voler introdurre nuovi e più rigidi criteri di valutazione dell'operato dei musei che tengano conto non solo del numero dei visitatori (finalmente!) ma anche del lavoro e della ricerca svolti. 

Intanto, come accade in ogni concorso, fioccano le polemiche non solo sul reale prestigio internazionale dei nuovi incaricati ma, in alcuni casi, perfino sul possesso di adeguate competenze. Si è fatto notare che al Museo Archeologico Nazionale di Taranto è stata nominata una medievista, mentre a Reggio Calabria anziché un archeologo sarebbe stato scelto un architetto. Ci sono dubbi anche sull’esclusione di figure autorevoli: nel caso del Parco archeologico di Paestum sarebbe stata esclusa una delle candidate più qualificate, Maria Paola Guidobaldi, con al suo attivo una lunga esperienza negli scavi di Ercolano; ad essa è stato preferito il tedesco Gabriel Zuchtriegel, 34 anni, che a detta di alcuni non avrebbe ancora maturato, invece, un’adeguata esperienza.

Personalmente non posso giudicare le competenze e il prestigio professionale di questi studiosi, ma non resta che attenderli al banco di prova. Come ha affermato Philippe Daverio, “La complessità del sistema italiano richiede esperienza. E il successo di molti musei si basa sulla capacità di attrarre denaro. Un direttore non ha la facoltà di cambiare le leggi e, parlando dei dipendenti, deve riuscire a dialogare con il sindacato. Prendiamo Eike Schmidt, scelto per le Gallerie degli Uffizi: proprio in quella istituzione l'80% del lavoro di un direttore è di tipo amministrativo-burocratico e soltanto il 20% è creatività. Il ministero si rende conto di questo elemento?” Un bravo direttore può fare molto per rendere un museo più efficiente e più attrattivo nei confronti del pubblico, ma non può farlo da solo; c’è bisogno del supporto delle Istituzioni. Se il vecchio sistema continuerà ad esistere, difficilmente il cambiamento potrà realmente avvenire, ma non voglio essere pessimista fin dal principio. Vedremo ciò che avverrà già dai prossimi mesi. 


Concludo con l’amaro commento dell’ex direttore degli Uffizi di Firenze, Antonio Natali, ottimo professionista e valente studioso stimato a livello internazionale. E’ risultato tra i dieci ammessi agli orali (sì, esattamente come uno studente di primo pelo) ma è stato scelto, come già accennato, il tedesco Eike Schmidt, proveniente, negli ultimi anni, dal Dipartimento di sculture e arti decorative del J. Paul Getty Museum di Los Angeles e dal Sotheby’s di Londra dove ha svolto il ruolo di direttore e capo del dipartimento scultura e arti applicate europee.  
Ha dichiarato Natali: «Un Paese che dice di voler cambiare non poteva permettersi di dire che restava il vecchio direttore. L’amarezza l’ho avuta quando ho capito quale era il copione».

BRIXIA. Roma e le genti del Po

Un incontro di culture. III-I sec. a.C.
9 maggio 2015 - 17 gennaio 2016
Brescia, Santa Giulia, Museo della Città
Dal 9 maggio 2015 al 17 gennaio 2016 al Museo di Santa Giulia di Brescia, promossa dal Ministero per i Beni e le Attività culturali e il Turismo, Regione Lombardia, Comune di Brescia e Fondazione Brescia Musei, che attraverso 500 eccezionali reperti esposti, racconta della grande vicenda che ha portato, tra il III e il I secolo a.C., all'unione tra la Roma repubblicana e le genti del Po. Con l'obiettivo di illustrare questo processo di unione, in un racconto per immagini della straordinaria trasformazione storica e culturale che fu qui attuata tra fasi di conflitto e integrazione, la  mostra Roma e le genti del Po
Un incontro di culture III-I sec. a.C. ricostruisce, sullo sfondo della pianura del Po, area estesa tra gli Appennini e le Alpi e favorita in antico da una posizione privilegiata e dalla presenza di un grande fiume, la fisionomia sorprendente di un luogo d’Italia, che divenne vero laboratorio di integrazione tra etnie e culture diverse e cassa di risonanza del confronto fra cultura romana ed ellenismo. La mostra sarà anche un viaggio emotivo, con installazioni interattive e multimediali, adatte al pubblico adulto e giovane, che faranno rivivere situazioni e atmosfere di quei tempi lontani.  
Insieme verrà inaugurato Brixia. Parco archeologico di Brescia romana, il più esteso parco archeologico a nord di Roma: su un'area di circa 4.200 mq, esso comprende gli edifici più antichi e significativi della città: il Santuario di età repubblicana (I sec. a.C.) - che dal 9 maggio sarà aperto per la prima volta al pubblico -, il Capitolium (73 d.C.), il teatro (I-II sec. d.C.), il tratto di lastricato del decumano massimo, la vista su piazza del Foro, che conserva vestigia della piazza di età romana (I sec. d.C.). Nel parco archeologico il visitatore avrà modo di fare un incredibile viaggio nel tempo, dall’età preromana al rinascimento, partendo dai livelli più antichi al di sotto del Capitolium, sino ai palazzi nobili che, reimpiegando i resti degli antichi edifici, cingono ancora oggi la zona.  
Il Parco archeologico da maggio sarà completato da tutti i servizi necessari, come una nuova area di accoglienza dedicata, con biglietteria, bookshop, guardaroba. Oltre ai consueti servizi didattici forniti dal Museo, l’area - già dotata di una suggestiva istallazione interattiva realizzata, all’interno del Capitolium, da Studio Azzurro - metterà a disposizione dell'utente un innovativo sistema di video e ricostruzioni immersive che grazie al 3D e alle più avanzate wearable technology propone un'esperienza unica. Novità unica nel panorama delle aree archeologiche italiane, è infatti la possibilità di vivere un’esperienza di visita in realtà aumentata grazie a dispositivi indossabili Epson messi a punto dalla società Art Glass, che permetteranno di rivedere, dopo 2000 anni, gli edifici e la città come si presentavano dal III secolo a. C. al I secolo d. C. Il visitatore, muovendosi liberamente nell’area, avrà la possibilità di vedere ricostruiti i suoi monumenti più antichi e le trasformazioni avvenute dopo il suo abbandono.
LA MOSTRA
Nel 295 a.C. a Sentino, in una vallata nel cuore delle Marche, l’esercito di Roma e dei suoi alleati sconfiggeva in una battaglia incerta fino all’ultimo la coalizione di popoli italici guidata da Sanniti e Galli Senoni. Con quella vittoria Roma non solo affermava il suo dominio incontrastato sulla penisola, ma si apriva la via per la valle Padana. E’ di pochi anni dopo la sottomissione del territorio senone e la fondazione della colonia latina di Rimini. Nei due secoli successivi si avrà prima la definitiva conquista militare, nei primi decenni del II secolo, poi il graduale inserimento dell’Italia settentrionale nel sistema politico romano, concluso nel 49 a.C. con la concessione della cittadinanza.
La mostra di Brescia vuole narrare questa vicenda uscendo dallo schema tradizionale dello scontro tra Roma e popolazioni locali considerate semibarbare e da integrare nella civiltà classica per mostrare invece la realtà di un confronto che aveva molteplici sfaccettature. Le popolazioni che abitavano la valle Padana avevano alle spalle storie molto diverse.
Le tribù celtiche (Insubri, Cenomani, Boi.) avevano ereditato le civiltà dei popoli che abitavano i territori sui quali dominavano: Etruschi, Umbri, Liguri, Celti di ceppo ancora più antico; ne avevano assimilato i costumi e costituivano un’élite politico-militare organizzata. I Veneti erano di provenienza assai antica, con una cultura urbana elaborata e comuni origini con i Latini; al contrario i Liguri, che si consideravano a ragione una stirpe autoctona, erano ancora organizzati sul modello tribale. Ciascuna di queste popolazioni ebbe una propria politica nei confronti di Roma: alcuni furono alleati stabili (Veneti, Cenomani) altri ostili (Boi, Insubri) o divisi al proprio interno (Liguri). Ma neppure la strategia della Repubblica nei loro confronti fu mai univoca: a seconda che prevalessero le ragioni del partito “popolare” o di quello “senatorio” fu attuata una politica aggressiva per guadagnare nuove terre da assegnare a coloni italici disposti a trasferirsi o di collaborazione “amichevole” con i ceti dirigenti e aristocratici locali. Sono i reperti archeologici presenti nei musei dell’Italia del nord, rinvenuti negli scavi anche recentissimi che ci consentono di ricostruire un quadro così complesso e vivace, di cui le fonti antiche ci illustrano soltanto gli elementi essenziali.
Il filo dell’esposizione segue il racconto secondo una sequenza cronologica e rispettando la logica del confronto. Vengono presentate le diverse popolazioni padane nel IV e III secolo a.C.: i reperti significativi e simbolici dei corredi funerari e anche ciò che esce dagli scavi delle loro città. Ne esce l’immagine di civiltà complesse, con capi che esaltano ora il loro livello culturale ora il ruolo guerriero e un’organizzazione politica avanzata, con l’uso della scrittura e l’introduzione della moneta. A fronte sono esposti i reperti contemporanei della colonia di Rimini e di centri come Ravenna sotto il controllo diretto di Roma. Seguono gli anni delle guerre. L’imponente frontone di Talamone celebra la disfatta dell’ultima offensiva celtica nel 225 avvenuta sul promontorio toscano; la risposta di Roma porta alla prima conquista della val Padana e alla vittoria di Casteggio. Infine Annibale passa le Alpi e attraversa la pianura nell’incendio dell’insurrezione di Boi e Insubri, che appoggiando la sua impresa mettevano in gioco la loro indipendenza. Di quegli anni sono esposte le armi degli eserciti contrapposti recuperate nei corredi funerari e rappresentate nei monumenti e nei reperti votivi, ma anche l’esito della penetrazione culturale e politica di Roma, con l’impianto di santuari di tipo italico già alla fine del III secolo, i cui reperti si confrontano con quelli dei contemporanei luoghi di culto locali.
Con il II secolo le principali colonie latine e romane così come le città alleate presentano da Rimini a Bologna o Piacenza, così come a Aquileia, Padova, Brescia o Milano, caratteristiche comuni. Si illustrano le mura, le porte urbiche, le strade, gli edifici civili, come il foro, le basiliche o, nel caso di Bologna, uno dei più antichi teatri stabili. I grandi templi come il Capitolium, i santuari urbani e del territorio sono testimoniati da resti architettonici fittili figurati di tipo italico ed ellenistico e da statue di culto, per lo più acroliti in marmo. Vengono introdotti nuovi culti, italici e orientali, che spesso riflettono gli orientamenti delle diverse personalità politiche romane, ma vengono anche confermati e assimilati i culti locali, come ben dimostra il caso emblematico di Brescia. La ricchezza crescente della Cisalpina in età repubblicana è verificabile non solo negli edifici pubblici e religiosi, ma anche nel livello delle case private. In mostra sono esposte soprattutto le pavimentazioni, che evolvono da modesti laterizi e semplici battuti in cementizio a pavimenti decorati con motivi geometrici e a mosaico, ma non mancano decorazioni parietali e reperti di lusso rinvenuti negli scavi a seguito di episodi di abbandono o di tesaurizzazione. Le planimetrie mostrano nel I secolo l’adesione delle classi dirigenti al modello della casa ad atrio.
Tutto riflette l’aumento progressivo di ricchezza dell’Italia settentrionale, dovuto certamente allo sfruttamento agricolo del territorio, ben organizzato grazie al controllo delle acque e alla distribuzione funzionale delle terre (la centuriazione), ma, come dimostrano i resti archeologici, dalla nascita di manifatture locali (vasellame bronzeo, tessuti, laterizi, ceramiche, carpenteria) e dallo sfruttamento di risorse naturali, come le riserve aurifere della Bessa. Il confronto tra le popolazioni locali e i coloni è affidato in questa fase soprattutto alle sepolture; per la prima volta vengono esposti insieme reperti (corredi ma anche stele funerarie) dello stesso periodo attribuibili a romani (in Emilia Romagna e Aquileia) a Veneti, Cenomani, Insubri, Liguri. E’ così possibile confrontare l’apparato funerario di un notabile romano sepolto presso Piacenza con il letto funerario in osso di fattura centro-italica e tradizione ellenistica, con la sepoltura del capo cenomane di Zevio con resti del carro e vasellame bronzeo della medesima provenienza. Così dall’intesa tra le classi dirigenti e da un confronto virtuoso tra le diverse aree culturali nasceva la provincia della Gallia Cisalpina, centro propulsore delle conquiste di Cesare e futuro baluardo della civiltà classica contro le invasioni germaniche (testo a cura di Luigi Malnati).
V. anche

Giornata Internazionale dei diritti delle persone con disabilità 2014




Mercoledì 3 dicembre 2014 ricorre la "Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità" come stabilito dal "Programma di azione mondiale per le persone disabili" adottato nel 1982 dall'Assemblea generale dell'ONU.
Seguendo l'invito del MIBACT, e condividendo la verità che l'accesso alla cultura è un diritto fondamentale sancito dalla Convenzione dell'ONU sui diritti delle persone con disabilità (art. 30), l'Associazione Nazionale Piccoli Musei aderisce alla Giornata e invita i piccoli musei a promuovere iniziative speciali per le persone con disabilità.

Il caso dell’Art Institute of Chicago: fuori tutti i volontari bianchi dal museo

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