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L’evoluzione del ruolo sociale del museo: dai musei di quartiere ai musei socialmente impegnati

Immagine tratta da http://cleveland.wikia.com/wiki/Latino_Heritage_Museum

Questa disamina che illustra alcuni casi esteri e due casi italiani di progetti museali o di tipo museale con finalità sociali, è stata da me presentata al quarto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei ad Assisi, nel 2013. A questo link è possibile scaricare l'articolo in PDF.

All’interno dell’apparato teorico sviluppato dall’APM è considerato essenziale che i musei instaurino un buon rapporto con la cittadinanza. Infatti, se i residenti ignorano la propria cultura o se a una parte di essi è negato il diritto di usufruirne - perché, per esempio, vivono dei disagi profondi, delle situazioni di conflitto, di divisione o di esclusione sociale - il museo, che dovrebbe riflettere l’immagine di quella comunità, ma che vive distante dai suoi problemi, è, nella sostanza, un luogo che non è in grado di incidere profondamente nella vita della società. «Senza valore sociale il museo è nulla» - affermava il museologo americano Stephen Weil, teorico del museo inteso come “impresa sociale”. Per Weil «i musei devono esistere per qualcuno, non per qualcosa»; ovvero, anche quei musei che producono risultati significativi dal punto di vista scientifico, se agiscono soltanto nell’ambito di una ristretta comunità accademica o sempre per le stesse fasce di pubblico, in pratica svolgono un lavoro incompleto, poiché il museo che intende avere un ruolo più democratico nell’ambito della società, «attira una folla eterogenea, ha una programmazione varia e opera su diversi livelli, è socialmente responsabile, coinvolge il pubblico, lo fa partecipare, si basa sul dialogo, non ha paura del dibattito, della polemica, delle opinioni, ma anzi le sollecita. Un museo democratico può lottare per la giustizia e i diritti umani (2)» Non solo, ma è lecito affermare che la “personalità” del museo si manifesta proprio nella sua capacità di rappresentare la comunità cui appartiene. L’applicazione di modelli puramente accademici, infatti, rende i musei tutti uguali e ripetitivi (3), ma un museo che offre alla cittadinanza una ragione di identificazione e di aggregazione sociale, assume una connotazione originale e non riproducibile dagli altri musei, in quanto esso è l’espressione di quella sola e unica comunità.

I musei di quartiere e i musei a forte vocazione sociale


In questa sede, sono stati esaminati sia i “musei di quartiere” puri, cioè quelle istituzioni che nascono con il preciso scopo di mettersi al servizio della collettività (anche come estensione di musei di tipo tradizionale), sia quei musei che hanno scoperto, solo nel corso del tempo, una “vocazione sociale”, includendo nella propria attività, specifici progetti studiati per le fasce sociali a rischio di esclusione. Questi musei stanno diventando sempre più numerosi e, in alcuni casi, per esempio nel Regno Unito, sono stati decisamente incoraggiati dalle istituzioni politiche ad intraprendere attività culturali rivolte ai problemi sociali, sia per gli evidenti benefici prodotti dalla loro azione in seno alla collettività sia per le ricadute positive che la coesione sociale determina anche per il sistema istituzionale e politico locale e nazionale.

Dal punto di vista “geografico”, sono stati presi in considerazione gli Stati Uniti, dove è nato il primo “museo di quartiere”, il Regno Unito, il Paese che più di altri ha messo in atto importanti politiche sociali mediante i musei, il Brasile, dove si è recentemente affermata una nuova visione del museo che si sviluppa “dal basso”, cioè per impulso della stessa popolazione; infine la Francia cui è associato un esempio straordinario che riguarda uno dei più grandi musei del mondo, il Louvre, il cui progetto "Au-delà des murs", rappresenta un’ottima sperimentazione di attività di outreach di una istituzione museale.

Non è stata operata una distinzione tra piccoli e grandi musei ma si è focalizzata l’attenzione unicamente sulla creatività e sull’efficacia dei progetti di inclusione sociale a prescindere, quindi, dalla grandezza o dalla rilevanza dell’istituzione promotrice.   

- I musei di quartiere


Il primo museo di quartiere nasce negli Stati Uniti, negli anni Sessanta, grazie a John Kinard, il quale progettò e diresse, dal 1967 al 1989, l’Anacostia Neighborhood Museum. Questo museo fu allestito in un cinema abbandonato, in un quartiere difficile e pieno di contraddizioni, Anacostia, il ghetto nero situato nella parte sud-occidentale di Washington.

Nella fase di progettazione del futuro museo di quartiere, fu necessario coinvolgere da subito tutti i rappresentanti della comunità: associazioni di vario tipo, da quelle civiche a quelle religiose, comitati di giovani, di inquilini, della polizia, ecc. Per molti mesi si svolsero incontri tra questi e lo staff del museo, fino al giorno dell’inaugurazione, avvenuta nel settembre del 1967. Questa è la data che segna un cambiamento epocale nel modo di concepire un museo: non più soltanto una istituzione finalizzata a migliorare la conoscenza, a promuove la ricerca e a conservare la memoria, ma finalmente anche una organismo necessario per il presente e per il futuro delle comunità. Un “orecchio in ascolto”, così Kinard definì l’Anacostia Neighborhood Museum. Egli era convinto che servissero «musei concepiti per assumersi dei rischi, per creare un ponte tra ricchi e poveri, tra individui istruiti e persone illetterate, tra culture privilegiate e altre svantaggiate, tra grande arte e arte popolare (4)». In questo nuovo modello di museo, ai curatori è chiesto di fungere da mediatori e di interpretare i problemi della società moderna alla luce degli insegnamenti che ci giungono dal passato. Kinard cerca anche di capire le perplessità che possono sorgere nei professionisti museali che, probabilmente, giudicheranno insensato che si chieda loro di occuparsi di problemi che esulano dalle loro responsabilità e dalle loro specifiche competenze (5). La soluzione, allora, è quella di creare un organismo che affianchi il museo e che assuma la funzione di intermediario: il museo di quartiere. Questo è non solo possibile, ma auspicabile, in quanto «dobbiamo aspettarci molto di più dai nostri musei (6)», afferma Kinard. Il primo museo di quartiere nasce, dunque, come estensione della Smithsonian Institution. Quando la Smithsonian decise di fare questo passo, sapeva che si stava per intraprendere un percorso fino ad allora inesplorato e, quindi, con molte incognite. Si trattava di un museo che non si poteva permettere di “appendere quadri ai muri” - secondo Kinard - né di esporre oggetti storici, a meno che sia i primi che i secondi non avessero un legame con la realtà della gente del quartiere, ovvero fossero oggetti con cui le persone potessero identificarsi. Il compito del museo di quartiere dell’Anacostia Museum è stato quello di parlare con la gente, analizzare i problemi insieme a loro, raccogliere dati e, infine, creare una esposizione o un altro tipo di iniziativa che rappresentasse davvero la gente. «Il museo deve essere un’istituzione viva» - continua l’artefice del primo museo di quartiere - «deve offrire alla gente del posto una sede in cui si accenda la voglia di incontrarsi e parlare; deve prestare attenzione ai problemi urgenti; deve incoraggiare le persone a dare il meglio di sé; deve promuovere attività che hanno a che fare  con le arti visive e dello spettacolo; deve sollecitare interessi diversi, che vanno dalla lotta contro l’alcolismo all’archeologia locale, dall’ornitologia alla pianificazione urbana (7)».

L’Anacostia Museum è sopravvissuto nel tempo e ha creato, dal 1967 ad oggi, una quantità incredibile di mostre, conferenze, attività didattiche, iniziative varie, crescendo e trasformandosi insieme al quartiere che, nel frattempo, ha cercato di migliorare la sua condizione iniziale e ora vede il moltiplicarsi di gallerie, sale da concerti e luoghi di aggregazione. Attualmente il Museo conta su uno staff di 19 professionisti, 25 volontari e 5 stagisti. Tra i suoi obiettivi, vi è anche quello di condividere la propria esperienza museologica, attraverso consulenze, presentazioni e pubblicazioni.

Un esempio più recente di museo che nasce in funzione e con l’apporto diretto della propria comunità, è il Museu de Favela (MUF), fondato, nel 2008, dagli abitanti delle favelas di Peacock, Pavãozinho e Cantagalo, a Rio de Janeiro. Sono solo alcune delle 700 favelas della città brasiliana, le quali non sono identificabili solo con fenomeni di criminalità e narcotraffico ma rappresentano anche un terreno culturale molto fertile. Negli ultimi anni si stanno attuando le cosiddette politiche di “pacificazione”, non sempre, però, così positive per i residenti, soprattutto per la speculazione edilizia che sta accompagnando la preparazione dei prossimi grandi eventi sportivi, Mondiali di calcio e Olimpiadi, che in alcuni casi conducono all’espropriazione di intere zone per la costruzione di impianti sportivi, e al conseguente allontanamento dei favelados. Il Museu de Favela, dunque, rappresenta una grande opportunità di riscatto e di visibilità per gli abitanti di queste periferie. Esso è diventato anche un mezzo di sviluppo economico locale per i residenti, grazie agli introiti derivanti dalle visite e dalla vendita di prodotti dell’artigianato locale. Il patrimonio culturale di questo museo sono, in pratica, i circa ventimila abitanti di queste zone marginali della città. L’antropologo brasiliano Mario Chagas ritiene che «il più grande patrimonio del museo sia il suo pubblico», ma in questo caso, pubblico e curatori formano un’unica entità sociale, formata da artisti, musicisti, artigiani, fotografi, giornalisti, professionisti, semplici residenti senza specifiche specializzazioni, ciascuno portatore di nuove risorse per la sopravvivenza del museo. L’impegno assunto dai fondatori è lavorare per il miglioramento della memoria culturale collettiva, il rafforzamento del carattere della comunità, la creazione di una visione comune del futuro che conduca ad una trasformazione delle condizioni di vita dei quartieri poveri.

- I musei a vocazione sociale

Se i musei sono, per loro natura, istituzioni socialmente responsabili, in quanto custodiscono il patrimonio comune e lo rendono leggibile, è solo in tempi recenti che si è rafforzata la convinzione che la responsabilità sociale del museo debba superare i confini convenzionali e trovare nuove forme di applicazione. Tale aspirazione è il frutto di una sempre più intensa ricerca sul pubblico. Per svolgere al meglio il proprio lavoro, i curatori hanno avuto bisogno di studiare ciò che interessa e che più motiva i visitatori ad affezionarsi a un museo. Tali indagini hanno anche tentato di identificare i potenziali visitatori, cioè coloro che non penserebbero mai, per vari motivi, di entrare in un museo, studiando le strategie più adeguate per attrarli, sulla base del principio che ogni individuo deve beneficiare dei musei, non solo alcuni privilegiati. Così facendo, i musei hanno imparato ad essere più democratici, meno elitari, più aperti (8). Da istituzioni concentrate quasi esclusivamente sulla cura delle collezioni, quali erano, si sono trasformati in istituzioni per le quali non solo il pubblico inteso in senso tradizionale, ma tutta la collettività - visitatori e non visitatori - assume un’importanza centrale. Questo passaggio produce un modello di museo inteso come “impresa sociale”, ovvero - per usare ancora le parole di Stephen Weil - un museo che trae «la sua   legittimità da quello che fa, piuttosto che da quello che è». In qualche modo l’originario ruolo sociale del museo, cioè quello di custodire la storia e di rendere consapevole la società del suo passato, non è mutato, ma ha assunto un carattere più funzionale. Si possono citare vari esempi di musei “a vocazione sociale”. Tre di questi sono esemplificativi delle varie forme in cui tale ruolo può essere svolto: si tratta di due musei inglesi, il Museum of London e l’Holbourne Museum di Bath, e del più importante museo di Francia, il Louvre.

- Museum of London, Holbourn Museum, Louvre


Se negli Stati Uniti il primo museo di quartiere nasce, come appena descritto, per rispondere ad una precisa esigenza di integrazione dei neri americani, vittime di una forte discriminazione (insieme ai nativi americani e ai latino-americani) che li escludeva dalla vita sociale e culturale del Paese e che li sottorappresentava, di conseguenza, anche nei musei, nel Regno Unito, invece, la “vocazione sociale” dei musei si afferma a seguito della forte crisi che ne colpisce l’identità nel corso degli anni Settanta, al punto che Margaret Thatcher li definì “istituzioni inutili” (9) ed evidentemente costose per la società. Era necessario, dunque, trovare una giustificazione alla propria esistenza: non più solo contenitori di oggetti da conservare, studiare ed esporre, ma realtà più vicine alla gente e in grado di interpretarne i bisogni e le aspirazioni. Per questa ragione i musei britannici - che stavano vivendo il loro momento più buio, in un periodo storico caratterizzato da grandi contestazioni e dalla messa in discussione di molte certezze - si sono trovati nella condizione migliore per accogliere di buon grado l’invito del governo ad estendere il proprio campo d’interesse alle problematiche sociali. Tali pratiche sono proseguite nel tempo e tutt’ora i musei del Regno Unito sono all’avanguardia sia nella messa in pratica di progetti di inclusione sociale sia nello teorizzazione di nuovi modelli di gestione museale, più aperti alla partecipazione della comunità.

- Museum of London - lavorare con i giovani


Il Museum of London è da anni impegnato in progetti di inclusione sociale rivolti ai giovani, agli adulti, soprattutto ai disoccupati di lunga durata, e ad altre categorie sociali deboli. In questi progetti, i soggetti coinvolti non svolgono attività didattiche o ricreative ma collaborano fattivamente al miglioramento dei servizi offerti dal museo, per esempio producendo podcasts audio e video, di ausilio ai visitatori del museo nella comprensione dei percorsi espositivi inerenti le fasi più antiche della storia di Londra.

Nel caso dei giovani, è stato creato un team di ragazzi londinesi, tra i 16 e i 21 anni, che hanno svolto la funzione di “consulenti” del museo per la creazione di progetti, mostre ed eventi per i loro coetanei (10). Il progetto, denominato “Junction”, è iniziato nel 2010 e i ragazzi hanno preso parte a tutte le fasi della sua creazione, compresa la cura delle esposizioni e l’organizzazione degli eventi pubblici: una partecipazione, dunque, a 360°. In questo modo i giovani hanno vissuto l’opportunità unica di impegnarsi per il funzionamento del museo e soprattutto di esprimere la loro opinione e la loro personale visione di giovani londinesi, influendo sulle decisioni dei curatori e dei responsabili del Museo.
Le attività con i giovani, invitati dal Museum of London come volontari, sono costantemente riproposte e la partecipazione è aperta a chiunque ne faccia richiesta.

- Holbourn Museum - restituire un posto nella società ai senzatetto


L’Holbourn Museum è un museo d’arte situato a Bath, nel sud dell’Inghilterra, rinomata cittadina turistica per la quale i senzatetto erano un vero problema sociale. Ora, invece, il museo svolge da sei anni un programma di attività con i senzatetto, nell’ambito del progetto “Homeless artists” che prevede un incontro settimanale con persone che vivono un disagio sociale, alle quali, con la guida di artisti professionisti, è data la possibilità di esprimere la propria vena artistica e di conoscere in modo più approfondito l’arte pittorica e le sue tecniche. In tal modo essi non sono più “persone invisibili” ma riescono a mostrare al resto della comunità che esistono, mettendo in luce i problemi di cui sono vittime. I lavori artistici vengono esposti nel museo e in varie altre manifestazioni organizzate nella città di Bath. Ma non solo, grazie all’idea di un ex studente della locale università, Luke Tregidgo, i senzatetto, adeguatamente formati, sono impiegati come guide turistiche. Si è così cercato di risolvere un grave problema sociale, sfruttando da una parte il valore dell’arte e l’efficacia dell’espressione artistica individuale, dall’altra la maggiore risorsa della cittadina, il turismo.

- Il Louvre fuori dal Louvre


L’ultimo esempio è quello del Louvre. Anche questo museo, che potrebbe vivere solo del suo imponente patrimonio storico e artistico, ha cercato l’impegno sociale e lo ha concretizzato attraverso il coinvolgimento dei detenuti del carcere parigino di Poissy (11). In questo caso, l’attenzione si è concentrata non sulle fasce sociali più deboli della comunità di riferimento, ma su una realtà che solitamente è percepita come separata da essa, senza alcun tipo di legame con il resto della cittadinanza se non quello mediato dai contatti con le associazioni filantropiche della città. Il rapporto del Louvre con le carceri risale già al 2007: fino ad oggi sono state organizzate più di 120 attività cui hanno preso parte professionisti del settore culturale e gruppi di detenuti. Nel 2011 è stato realizzato il progetto "Au-delà des murs", che ha rafforzato l'impegno del Louvre per le attività sociali e culturali nelle carceri. L’iniziativa è consistita nella riproduzione di ventisei opere del museo parigino da parte di un gruppo di detenuti, scelti non per le loro capacità artistiche ma per la forte motivazione interiore che hanno dimostrato. Ogni detenuto che ha preso parte al progetto ha scelto autonomamente il proprio modo di contribuire alla realizzazione della mostra, dedicandosi alla pittura, alla progettazione grafica o ai testi. La mostra ha avuto la supervisione dello scrittore Luc Lang, membro della Maison des écrivains et de la littérature, e dell'architetto-scenografo Philippe Maffre (che aveva già collaborato con il Louvre e che in questa occasione ha realizzato lo storyboard della mostra), i quali hanno lavorato al progetto a stretto contatto con il gruppo di detenuti, con il personale del carcere e con quello del Louvre. Per circa sei mesi il cortile dell'istituto penitenziario ha ospitato l'esposizione delle riproduzioni realizzate dai detenuti mentre il Louvre esponeva, nello stesso tempo, una "mostra-specchio" con le copie delle stesse opere. Il cortile è stato scelto come spazio espositivo non perché non si disponesse di altre soluzioni, ma perché, in questo modo, tutti i detenuti, ogni giorno, avrebbero potuto osservare quelle opere. L'iniziativa ha suscitato grande emozione non solo nell'ambito della comunità carceraria e dello staff di curatori e collaboratori del Louvre, ma anche dell'intera cittadinanza parigina. Per ora il Louvre resta l'unico museo ad aver trasformato i detenuti non solo in artisti ma anche in curatori.

I musei di quartiere in Italia: due casi studio 


Le esperienze europee ed extra-europee finora descritte dimostrano che la sostenibilità, intesa in senso sociale, cioè la creazione di relazioni con le proprie comunità, è una pratica che richiede tempo per svilupparsi e la fiducia non può essere acquisita nello spazio di poche ore. E’ molto facile che i risultati raggiunti svaniscano se i progetti non fanno parte dell’impostazione mentale di un'organizzazione museale e, quindi, se non trovano terreno fertile, dedizione costante e impegno da parte dei responsabili dei musei.

In Italia, in generale, l’attenzione per il sociale si sviluppa soprattutto nell’ambito dell’arte contemporanea, finora il settore più avanzato nella ricerca di proposte innovative che utilizzano l’arte per la riqualificazione degli spazi urbani (12). Si tratta, però, in molti casi, non di istituzioni culturali radicate nel territorio che svolgono politiche culturali inclusive in modo continuativo, ovvero come prassi ordinaria integrata nella programmazione culturale regolare, ma, più spesso, di un fatto occasionale, di un “evento”, come viene rilevato anche nel Rapporto di ricerca della Fondazione Cariplo del 2009, Periferie, cultura e inclusione sociale (13), oppure di operazioni di ordine forse più “estetico” che effettivamente funzionali alla soluzione dei problemi sociali.

Gli esempi italiani qui esaminati riguardano due casi studio di grande interesse, entrambi unici per le modalità di svolgimento e per gli obiettivi che si sono posti. Il primo riguarda la sperimentazione di un “museo di quartiere temporaneo”, avvenuta a San Giuliano Milanese, in provincia di Milano; il secondo si riferisce alle iniziative dell’associazione culturale 100% Periferia, con sede a Roma ma operante anche in altre città, sia in Italia che all’estero, tese alla riqualificazione degli spazi urbani periferici attraverso l’arte contemporanea ed altre forme di espressione artistica, e alla creazione di progetti partecipativi che intrecciano il linguaggio degli artisti con quello degli abitanti dei quartieri.

1) Museo temporaneo di quartiere di San Giuliano Milanese


La sperimentazione fu effettuata tra l’aprile e il luglio del 2009, nell’ambito del progetto “Foresta nascosta”, ideato dall’architetto Matteo Balduzzi, dal sociologo e sinologo Daniele Cologna e dal ricercatore esperto di welfare Stefano Laffi, promosso dalla Provincia di Milano e dal Comune di San Giuliano Milanese (14).

In quella occasione, all’interno di due container fu allestita un’esposizione di “storie” e di fotografie fornite dagli stessi abitanti dei quartieri di San Giuliano Milanese, città caratterizzata da varie ondate di immigrazione che hanno interessato la zona nel corso degli anni. Ciascuno dei cinque quartieri della città, coinvolti nel progetto, ha rappresentato, attraverso i racconti dei suoi residenti, un cinquantennio di sviluppo della città: dall’inurbamento dei contadini e dalla prima immigrazione dal sud negli anni ’50, passando per la più massiccia immigrazione dal sud degli inizi degli anni ’60, in coincidenza con il boom urbanistico, fino alla creazione delle zone residenziali negli anni ’70 e degli agglomerati di edilizia popolare
negli anni ’80. Infine, l’ultima fase, quella dei nuovi immigrati stranieri e dei grandi complessi residenziali a schiera degli anni Novanta e Duemila, destinati alle classi sociali medio-alte.

La gestione del progetto fu affidata ai ragazzi di San Giuliano, di età compresa fra i 16 e i 24 anni, i quali svolsero la funzione di “raccoglitori” delle storie degli abitanti dei vari quartieri. I giovani ricevettero, per l’occasione, una specifica formazione ed anche un piccolo rimborso economico. I compiti svolti consistettero nell’apertura dei container espositivi, nell’incontro con gli abitanti e quindi nella raccolta di interviste e fotografie, nella trascrizione e nell’archiviazione del materiale ottenuto.

Anche i container ebbero, ciascuno, una loro specifica funzione: il container rosa, denominato Bar delle storie, fu il luogo d’incontro e di discussione degli abitanti con i ragazzi, cioè il luogo in cui le storie furono raccontate e registrate. Nel retro venne predisposto un piccolo ufficio attrezzato di apparecchiature per la registrazione, l’archiviazione e la trascrizione dei materiali, e infine per la digitalizzazione delle fotografie.
Il secondo container, invece, costituì lo spazio espositivo vero e proprio, il cui colore venne modificato a seconda del quartiere in cui fu posizionato. Vi furono esposte, a rotazione, le storie degli abitanti e le loro fotografie di famiglia, “una sorta di installazione collettiva in progress”.
Il progetto è descritto nel sito ufficiale http://www.forestanascosta.net/. All’esposizione seguì anche la pubblicazione di un catalogo, un “inserto speciale” dal titolo “Foresta nascosta”, venduto in edicola con i due giornali partner del progetto, Il cittadino e La Gazzetta del Sud Milano, stampato in oltre 20.000 copie.

2) 100% Periferia


L’organizzazione 100% Periferia nasce con l’intento di portare l’arte in spazi atipici, al di fuori delle consuete superfici museali, grazie ad una rete di collaborazioni tra artisti, associazioni, scuole, biblioteche, musei ed altre istituzioni. Le proposte culturali sono fondate principalmente sulla condivisione e, dove possibile, sulla partecipazione attiva delle persone del luogo, in particolar modo dei ragazzi, al processo organizzativo e creativo. Il “nomadismo culturale” o l’”Arte in movimento” che caratterizzano l’azione di 100% Periferia si esprime, per esempio, nella costituzione di gallerie mobili.
Tra le varie iniziative promosse in questi anni dall’associazione, tutte di grande interesse, è stata scelta, come caso studio, la manifestazione denominata “Cielo condiviso”, realizzata quest’anno, dal 20 al 25 ottobre, in collaborazione con il MAAM, Museo dell'Altro e dell'Altrove di Metropoliz_città meticcia (Roma, via Prenestina), La Bottega dei Mondi Impossibili, Cooperativa Ermes, e con il patrocinio di Roma Capitale.

Cielo condiviso” è una rassegna d’arte partecipata allestita nel campo Rom di Via Salone, a Roma. Un gruppo di artisti di ogni genere e di studiosi (poeti, musicisti, fotografi, teatranti, curatori d’arte e astronomi) hanno coinvolto i residenti del campo per vivere attività comuni progettate intorno all’idea-guida del cielo e della sua orizzontalità, espressione di relazioni più eque tra le persone, in cui non contano più i ruoli individuali.
Un collegamento creativo con le stelle ha permesso al cielo di avvicinarsi al campo, posandosi su uno schermo bianco di proiezione, in un incontro condiviso.
La partecipazione dei Rom è avvenuta per esempio attraverso il racconto di alcune donne anziane, le quali hanno collaborato anche alla creazione di una particolare mappa celeste realizzata con le stoffe donate dalle stesse donne Rom e con le fotografie del cielo realizzate dagli abitanti del campo. Altri laboratori sono stati apprestati per i bambini Rom, dedicati, per esempio, allo studio dei fenomeni celesti o alla realizzazione di oggetti narranti. Un astrofisico e un astronomo hanno invitato i partecipanti a conoscere il cielo, attivando workshop volti a far interagire le persone con le stelle e a conoscere i principi dell’astronomia spiegati in modo semplice e immediato, aiutando ad intraprendere in modo autonomo l’osservazione del cielo. Il progetto di 100% Periferia è di grande interesse soprattutto per la “minoranza” che è stata coinvolta, quella dei Rom (15), i cui rapporti con il resto della cittadinanza sono spesso conflittuali e impediscono la reciproca conoscenza delle rispettive culture e tradizioni, e l’incontro su valori comuni. “Cielo condiviso” è il terzo evento artistico-relazionale organizzato dall’associazione romana presso il campo Rom di via di Salone. Precedentemente era stato realizzato il progetto “Quadrato nomade”, con l’artista Lisa Wade, presentato tra la fine di febbraio ed i primi di marzo 2012 al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Al secondo progetto artistico, realizzato nell’aprile del 2013, avevano collaborato Paolo W. Tamburella in collaborazione con l’artigiano Rom Svenko Husovic.

Appendice: linee guida per la creazione di un museo di quartiere


Dai casi studio appena esaminati, si evidenzia che i musei di quartiere sono una delle migliori soluzioni per rivitalizzare culturalmente le zone periferiche urbane. In generale, si tende a preservare - a volte ottimamente, altre volte non nel migliore dei modi - i centri storici, i piccoli borghi e i loro territori, ma non si riserva altrettanta attenzione ai quartieri delle città, che pure hanno una loro storia e una personalità distinta che merita di essere preservata. E in effetti gli esempi appena illustrati sono tra i pochi realizzati nel nostro Paese. Perché, invece, non considerare i quartieri urbani come una parte importante della nostra cultura, anziché coglierne soltanto gli aspetti negativi, spesso legati al degrado e alla criminalità? Ecco, dunque, alcuni suggerimenti per realizzare un museo di quartiere (16):

- creare un gruppo di lavoro formato da alcuni abitanti del quartiere che svolgeranno il ruolo di curatori del museo;

- individuare un locale o un edificio inutilizzato che ospiterà il museo di quartiere;

- progettare una mostra permanente incentrata sulla storia del quartiere, creata attraverso le narrazioni degli abitanti, le fotografie, gli oggetti. In questa fase è importante pubblicizzare molto l’iniziativa, per esempio distribuendo dei volantini con le indicazioni per contribuire con le proprie storie o con la documentazione che gli abitanti desiderano donare al museo;

- progettare mostre temporanee a rotazione che raccontino l’attualità del quartiere;

- dare vita ad un “muro dei sogni”, cioè uno spazio, continuamente aggiornato, in cui ogni abitante del quartiere possa esprimere un sogno, una speranza;

- realizzare uno spazio riservato ai talenti degli abitanti del quartiere: abilità manuali o intellettuali, letterarie, artigianali, musicali, artistiche, ecc.;

- creare un punto vendita di “souvenir” del museo, oggetti creati artigianalmente dai residenti del quartiere.

Un museo di questo tipo - che può anche essere definito “collettivo” - rappresenta una risorsa importante per il quartiere che lo ha concepito, in quanto, oltre a rimuovere quei sentimenti di insofferenza e di frustrazione che spesso accompagnano la vita degli abitanti delle periferie più “difficili”, possono creare anche sviluppo, solidarietà sociale ed una nuova qualità della vita.


NOTE

1 Relazione presentata in occasione del Quarto Convegno Nazionale dell’Associazione Nazionale Piccoli Musei (APM), Assisi, Palazzo dei Priori, Sala della Conciliazione, 11-12 novembre 2013, organizzato dall’APM in collaborazione con il Centro Internazionale di Studi sul Turismo (CST) di Assisi.

2 D. Fleming, The democratic museum, Liverpool MA Conference, 6 October 2008

3 G. Pinna, Fondamenti teorici per un museo di storia naturale, Milano 1997, p.11

4 J. Kinard, Intermediari tra il museo e la comunità, in Il nuovo museo, a cura di C. Ribaldi, Milano 2005, p. 66

5 Ivi, p. 67

6 Ivi, p. 66

7 Ivi, p. 72

8 David Fleming, Museums and social responsibility, Icom News n°1, 2011, p. 9

9 Nell’articolo intitolato “Museums for the people”, pubblicato su http://www.spiked-online.com/site/article/10827/, la Appleton si chiedeva perché l’inclusione sociale fosse diventata una delle finalità perseguite dai musei britannici, in realtà non per una spinta venuta dall’interno del settore museale, ma a seguito di una indicazione del governo. Il motivo era il tentativo di far apparire i musei non più come “istituzioni inutili”, tenute in vita da élite ideologiche, tendenti ad escludere le masse (secondo i pensatori di sinistra), ma come organizzazioni molto più vicine alla realtà e attente ai bisogni della società. V. C. Pisu, Musei liberi e non politicizzati: la realtà britannica, in Museums Newspaper, http://museumsnewspaper.blogspot.it/2013/05/musei-liberi-e-non-politicizzati-la.html

10 Il progetto, denominato “Junction” ha avuto il suo momento culminante nella mostra “Londinium”, in occasione dei Giochi olimpici del 2012. V. C. Pisu, Il museo sta con i giovani, ArcheNews, Anno VIII, N° C, Agenzia Magna Graecia, p. 3

11 Iniziative simili, rivolte alle realtà delle carceri, sono state realizzate anche nel nostro Paese. Un caso studio è citato nel Rapporto di ricerca della Fondazione Cariplo del 2009, Periferie, cultura e inclusione sociale, a cura di Simona Bodo, Cristina Da Milano, Silvia Mascheroni, p. 55 e sgg.: si tratta di una collaborazione tra la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo e la Casa Circondariale di Bergamo per la realizzazione dei progetti “Zona Franca 11– Arte d’evasione” (2006-2007) e “Zona Franca – Gate” (2007-2008). In un altro caso, la collaborazione si è svolta tra il Museo Nazionale del Cinema, il CGM - Centro per la Giustizia Minorile del Piemonte e della Valle d’Aosta e la Città di Torino, ed ha portato alla creazione del progetto “Mediante” (2006-2007).

12 Le Stazioni dell’Arte di Napoli, per esempio, sono state realizzate lungo il percorso delle Linee 1 e 6 della Metropolitana. Il progetto, promosso dall’amministrazione comunale con il coordinamento artistico di Achille Bonito Oliva, comprende circa duecento opere scelte tra cento prestigiosi autori contemporanei, e costituisce, pertanto, uno degli esempi più importanti di museo decentrato e distribuito sull’intera area urbana. V. il sito ufficiale della Metropolitana di Napoli:

13 Periferie, cultura e inclusione sociale, n.1, 2009, cit., p. 7

14 Ringrazio, per le utili informazioni fornitemi, il Dott. Valerio Esposti, attualmente Portavoce dell’Amministrazione Comunale di San Giuliano Milanese, che all’epoca del progetto “Foresta nascosta” faceva parte dell’Ufficio Cultura dello stesso Comune.

15 Il nome Rom è stato assunto in occasione del 1° Congresso Mondiale dei Rom, nel 1971, a Orpington - Chelsfield, nei pressi di Londra. Il significato di questo nome è “uomo” o “popolo degli uomini”, e include tutti i gruppi etnici presenti nel mondo (Sinti, Manouches, Kalderash, Lovara, Romanìchéls, Vlax, Domari, Nawar, ecc.). Il giorno in cui si è svolto il congresso, l'8 aprile, è divenuto la giornata internazionale dei Rom. V. http://idearom.jimdo.com/cultura/, sito dell’associazione Idea Rom Onlus di Torino, formata da donne Rom.

16 I suggerimenti sono stati tratti e rielaborati da “The Neighborhood Museum Collective”, (http://www.openideo.com/open/vibrant-cities/concepting/the-neighborhood-museum-collective).

Il museo democratico

Lo storico britannico David Fleming, direttore dei Musei Nazionali di Liverpool, ne ha parlato in occasione di un convegno svoltosi pochi giorni fa in Argentina. 




Nei giorni scorsi mi è capitato di leggere il resoconto della conferenza di David Fleming nell’ambito del convegno "Las ideas detrás de los museos", svoltasi a Rosario, in Argentina, presso la Fundación Litoral, lo scorso 21 agosto. Ho deciso, quindi, di approfondire il suo pensiero per capire come è nato il concetto di “museo democratico”.
David Fleming è uno degli studiosi più dinamici ed efficienti del mondo museale britannico e internazionale. Talmente bravo che, da quando ha assunto l’incarico di direttore dei Musei Nazionali di Liverpool nel 2001, il numero dei visitatori si è quadruplicato, passando da circa 700.000 all'anno a più di 3,2 milioni. I Musei Nazionali di Liverpool sono uno straordinario complesso di gallerie e di musei molto innovativi, ben nove, tra i quali, l’ultimo in ordine di apertura (2007) è l’International Slavery Museum, situato presso l’Albert Dock insieme al Tate Liverpool, al Beatles Story Museum e al Maritime Museum.

Che cosa c’è dietro gli straordinari risultati di Fleming? Sicuramente un modo diverso di concepire il museo. Secondo lo storico britannico, anche Disneyland ha successo perché il suo progetto è incentrato sulle strategie più accattivanti per intrattenere il pubblico, ma non possiamo dire che abbia finalità educative. I musei hanno un ruolo differente perché possono dare alla gente qualcosa di più sostanziale del puro divertimento. Ma attenzione: questo non significa essere noiosi, altrimenti si fallirà. Bisogna pensare continuamente al modo per attrarre un’ampia fascia di pubblico, dai 3 ai 93 anni. Una grande sfida che contiene anche un alto rischio di commettere errori.

Quando qualcuno paragona l’Albert Dock di Liverpool al Guggheneim di Bilbao, facendo riferimento a quello che viene definito l’”effetto Bilbao”, lo studioso non è completamente d’accordo, principalmente perché il Guggheneim di Bilbao, a suo parere, in fondo è una meravigliosa opera di architettura con opere che provengono da New York, ma non rappresenta proprio il concetto di museo della città. L’Albert Dock, invece, è qualcosa di diverso: nel suo insieme il complesso è un museo della città, con la città, per la città. Nello stesso tempo, però, raccomanda Fleming, bisogna anche guardare oltre i confini della città, perché ogni cittadino britannico che paga le tasse sta finanziando i musei di Liverpool, perciò – afferma – «prendiamo questa responsabilità seriamente».

«Il principale errore che i musei possono commettere è non avere passione», ha detto lo storico britannico David Fleming nell’ambito della conferenza argentina. In quella circostanza lo studioso ha analizzato il concetto di museo democratico, un’idea che Fleming ha sviluppato sin dalle sue prime esperienze nel mondo museale, a partire dal 1981.  Prima di affrontare l’argomento, però, è necessario fare un passo indietro, ripercorrendo anche quella che è stata la formazione di Fleming.


Il museo impresa sociale

Uno dei maestri di Fleming è stato l’americano Stephen Weil, scomparso nel 2005, uno tra i museologi più importanti sullo scenario internazionale, vice direttore dell’Hirshhorn Museum dello Smithsonian and Sculpture Garden dal 1974 al 1995 e uno degli ispiratori e dei promotori della creazione dell’International Committee on Management di Icom. La principale teoria sui musei di Weil era che non c’è un solo museo uguale ad un altro (in qualche occasione anche dalle pagine di questo blog abbiamo parlato di “personalità” dei musei), eppure tutti i tipi di musei, o quasi tutti i tipi, dovrebbero conformarsi ad un unico modello di comportamento. Questo modello, descritto da Weil come “nuovo e potenzialmente dominante”, è il cosiddetto modello di “impresa sociale”.

Il museo inteso come impresa sociale potrebbe dunque «trarre la sua legittimità da quello che fa, piuttosto che quello che è» - afferma Stephen Weil. Ma quando egli evidenzia che questo museo dovrebbe, soprattutto, «considerare le sue collezioni e le altre risorse come mezzi in vista della realizzazione dei suoi obiettivi imprenditoriali, e non come fini a se stessi», non propone che il fine dei musei sia la produttività finanziaria, e infatti aggiunge che: «senza valore sociale, il museo è nulla. È inutile e non merita l’interesse di alcuno e tanto meno il supporto».

Weil voleva che i musei esistessero per qualcuno, non per qualcosa. In un suo saggio – ricorda Fleming – scrisse almeno sette frasi in cui ricorreva la parola “sociale”: voleva "attivismo sociale", "miglioramento sociale", "promozione sociale", "servizio sociale", "sviluppo sociale”, " cambiamento sociale ". Voleva un "risultato sociale".

Fleming ha cercato di sviluppare ulteriormente il modello di museo proposto da Weil. «Io sono uno storico» - afferma - «ma ho sempre desiderato prendere i libri di storia e farli essere parte della vita delle persone, per riportare la storia stessa alla vita».


I quattro sotto-modelli museali di David Fleming:


Partendo dal modello di “museo impresa sociale” di Weil, Fleming ha elaborato dei “sotto-modelli” attraverso i quali ha cercato non di proporre non uno schema rigido ma alcune prassi attraverso le quali i musei possono realizzare importanti cambiamenti sociali o raggiungere dei risultati in ambito sociale. I sotto-modelli sono stati contrassegnati ciascuno con un nome che ne evidenzia le caratteristiche. Essi sono: il museo "defibrillatore", il museo "psicologo collettivo", il museo "portatore di libertà" e il museo "scala per il paradiso".


Il museo “defibrillatore”

Rientrano in questa categoria i musei che sono stati creati per rivitalizzare una zona dal punto di vista economico. I benefici sociali, in questo caso, possono essere secondari e accidentali, ma anche molto concreti. Di solito sono musei di nuova progettazione; sono il prodotto di un'epoca in cui la rigenerazione economica è un potente strumento dello stato o del governo della regione o della città. Tra questi possiamo citare come esempio il Guggenheim di Bilbao, un museo d’arte ospitato nello spettacolare edificio di Frank Gehry, fatto sorgere dal nulla in una città industriale decaduta al fine di migliorare la sua immagine e la sua attrattiva turistica. Musei defibrillatori come il Guggenheim ce ne sono tanti e sparsi in varie parti del mondo. Fleming cita, nel suo Paese, l'Imperial War Museum North, che ha contribuito a rigenerare la zona portuale di Trafford, e il Merseyside Maritime Museum, che ha dato il via alla rigenerazione del centro storico di Liverpool e del decaduto complesso dell’Albert Dock, nel 1980.


Il museo “psicologo collettivo”

Il secondo sotto-modello è il museo inteso come “psicologo collettivo”. Questo è un museo che ha un rapporto speciale con la popolazione locale. Per alcuni questo è un cliché poco realistico, ma di sicuro il museo può svolgere un compito prezioso nell’aiutare la gente a riavere fiducia in se stessa, promuovendo il coinvolgimento e l'attività della comunità, la costruzione di nuove competenze o il superamento dell'isolamento sociale. Questo museo promuove l'identità locale e di solito si tratta di un museo storico o etno-antropologico.

La storia ha un’importanza maggiore di quello che si può credere: una società consapevole del suo passato non può non avere fiducia nel suo futuro. La storia educa e ci influenza, e le generazioni future ci giudicheranno proprio per come avremo esercitato il compito di custodi del nostro passato.

Un esempio di museo di questo tipo è il South Shields Museum & Art Gallery, nel nord-est dell’Inghilterra. Fleming lo ha diretto negli anni Novanta, quando South Shileds registrava il più alto tasso di disoccupazione della Gran Bretagna occidentale, aveva problemi sociali di vario tipo e una giunta comunale rissosa. Eppure il museo era un fenomeno nazionale che riusciva ad attrarre più visitatori dei più importanti e ricchi musei del nord-est e anche di altre zone. Come mai? Eppure era un museo senza grandi pretese, con collezioni di importanza puramente locale, aree di visualizzazione limitate, uno staff ridotto al minimo e bilanci trascurabili. L’unico pregio era, forse, che possedeva il miglior sito che si possa immaginare, proprio sulla via principale che attraversa il centro della città. Quello, però, che lo distingueva dagli altri musei era il suo alto senso dell’accoglienza: il museo era un luogo-rifugio dove trovare un po’ di comfort e divertimento o dove acquistare qualche souvenir poco costoso; un posto dove lasciar correre i bambini o semplicemente dove cercare di rifugiarsi dalla pioggia. La mostra più popolare era stata “Muffin il mulo”! «Ma la mia fortuna» - racconta lo studioso britannico - «è che c'era un potente, naturale senso di proprietà collettiva che circondava il luogo. Può essere esagerato dire che il museo era il luogo più importante della città, ma, di certo era il museo più attivo della Gran Bretagna, fatto ancora più sorprendente se si pensa che era ubicato in quella che molti osservatori sociali avrebbero definito una città senza speranza. Credo che il museo abbia dato e dia ancora, spero, alla gente locale, attraverso la sua sfacciata e accessibile rappresentazione della vita ordinaria, qualcosa che può essere soddisfatto, forse anche qualcosa di cui essere orgogliosi».

Bisogna puntualizzare che quando si parla di “coinvolgimento” o di “partecipazione” della comunità alla vita del museo, non si intende, per Fleming, che si debba consegnare la totale responsabilità dei contenuti del museo alla nostra comunità locale, nel tentativo di fare in modo che il museo abbia maggiore rilevanza e valore. «Credo che questa tendenza sia troppo estrema» - afferma lo storico. É necessario, invece, che il museo sia in grado di fornire un apporto importante in termini di interpretazione della storia sociale. Si tratta, dopo tutto, di un ruolo per il quale noi curatori siamo stati formati, mentre è improbabile che tutti i membri della comunità possano avere lo stesso grado di competenza nella storia locale.

Ciò nonostante, è imperativo che si trovi il giusto equilibrio per garantire da un lato il compito di interpretazione svolto dai professionisti del museo, dall’altro la partecipazione del pubblico. Il modo migliore è trovare dei meccanismi che utilizzino elementi che si riferiscono alla storia locale o che abbiano un forte sapore locale, in modo che l'esperienza personale si intrecci con i contenuti proposti dal museo. Come si può garantire un dialogo costante e sempre vivo? Attraverso i mezzi di cui dispone il museo: per esempio l’allestimento di mostre continue su argomenti sempre nuovi e differenti. E’ quello che si propone di mettere in atto Fleming nel nuovo Museo di Liverpool: è importante essere in grado di coprire una vasta gamma di argomenti nel corso di un anno, relativi sopratutto alla storia recente o alla società contemporanea. Questo si intende quando si parla del museo come “psicologo collettivo”, vicino ai problemi delle comunità e dei singoli individui.


Il museo “portatore di libertà”

Il terzo sotto-modello è quello che Fleming definisce il museo “portatore di libertà”. E’ un museo che si occupa di diritti umani, quindi strettamente collegato al secondo sotto-modello, ma che, a differenza di questo, avrà spesso risonanza e importanza internazionale.

E’ un museo arrabbiato, perché la lotta contro l’ingiustizia permea il suo essere. Parla di comprensione, di tolleranza, di rispetto e di riconciliazione, ma si propone anche di reclutare, trasformare e rimodellare la consapevolezza del visitatore sui principi di equità e di democraticità. Un esempio è l’International Slavery Museum di Liverpool che si prefigge di esplorare la storia e l'eredità derivata dal commercio transatlantico di schiavi, fonte della ricchezza della Liverpool del passato.

Anche se questa è una grande storia internazionale che Fleming si augura che possa avere ampia risonanza, il museo non tralascia di affrontare anche le questioni locali, in particolare il razzismo dei nostri giorni, che caratterizza la città. Questo è un fatto curioso dato che Liverpool è stata una città multirazziale già 250 anni fa, quando le altre città britanniche erano, invece, del tutto monoculturali. Ciò nonostante, la comunità nera di Liverpool, attualmente si sente alienata, sottovalutata e assediata. Il Museo di Liverpool, allora, cerca di mettere in discussione il razzismo e l'intolleranza, e lo fa cercando di dare una nuova, potente voce alla comunità nera di Liverpool. La speranza è quella di ottenere esiti sociali significativi, sfidando l'ignoranza e l'incomprensione, e invitando la comunità locale a riflettere sulla propria identità e sulla propria storia, e, non da ultimo, cercando di dimostrare, per esempio, che senza la schiavitù transatlantica e la trasmutazione della musica africana in America, non ci sarebbero stati i Beatles, i quattro ragazzi di Liverpool che hanno cambiato la cultura popolare occidentale. Un argomento che dovrebbe convincere anche i levercensi più ostinati!


Il museo “scala per il paradiso”.

Il quarto e ultimo sotto-modello proposto da Fleming è il museo inteso come “scala per il paradiso” (Stairway to Heaven). Per lo studioso questo è il più prezioso ed emozionante di tutti. In realtà, può essere qualsiasi tipo di museo, può interessare ogni disciplina, ogni ambiente, ogni epoca. Avrà un forte richiamo soprattutto per i bambini, anche i più piccoli, ma potrà funzionare e comunicare a molti livelli.

Questi livelli sono i gradini di una scala che portano i visitatori da dove sono a qualche altra parte. Il museo, quindi, è in grado di creare una trasformazione, un cambiamento nel visitatore, e questo può accadere a chiunque, per quanto possa essere colto e competente, anche se la trasformazione più magica resta quella che si può attuare in un bambino.

L’esperienza di un giovane visitatore è più legata al divertimento che all’apprendimento formale, ma bisognerebbe fare in modo che la trasformazione operata dal museo prosegua, poi, negli anni, così che, strato su strato, o gradino su gradino, si possano acquisire tante esperienze culturali e formative più complesse, non solo attraverso il museo ma, si spera, anche in tante altre occasioni che formeranno, appunto, i gradini della scala.

E’ un museo, questo, che punta molto sul fattore educativo e sulla capacità di far vivere delle esperienze costruttive per la vita dei suoi visitatori. Ma un museo, come si è detto, può esercitare la sua azione attraverso una varietà di strumenti, non solo attraverso l’esposizione delle sue collezioni. Fleming ha sperimentato anche un tipo di progetto educativo «a distanza», per raggiungere quelle categorie di pubblico che più difficilmente entreranno in un museo. Tra queste, per esempio, le famiglie a basso reddito, le comunità delle minoranze nere o di immigrati, i disabili, gli adulti poco scolarizzati, con difficoltà di apprendimento o con vari altri problemi, e gli anziani. Tutti sono stati coinvolti in attività di vario tipo, perché la bellezza di un museo è proprio la sua flessibilità e il fatto che possa adattarsi a tutti. Vi è un’infinità di modi per accogliere le persone e per essere loro utili, «nessuno deve pensare che lì non ci sia niente per lui» - afferma Fleming.


Il museo democratico

Tornando al concetto di museo democratico, è necessario considerare che la democrazia non è affatto un valore definitivamente acquisito nel mondo occidentale capitalistico. Secondo alcuni, la nostra è ormai una società senza classi, ma evidentemente, afferma Fleming, questa è l’opinione di chi non vive nelle case popolari di Liverpool o di Manchester, di Leeds, Newcastle o Londra, i cui residenti potrebbero non sottoscrivere con fiducia questa ottimistica visione.

E’ vero che dal 1960 le differenze tra le classi sociali sono diventate meno nitide, ma in fondo, ama dire ironicamente Fleming, «gli inglesi non sono molto democratici» e così «la fragilità della democrazia britannica ha finito per investire anche il settore museale».

«Quando, nel 1981, ho iniziato la mia carriera» - ricorda - «ho sviluppato l’idea di museo democratico a sostegno delle trasformazioni che stavano emancipando la classe operaia. Ero molto ingenuo. Mi sono subito reso conto che stavo delirando perché i musei, in realtà erano nati e si erano evoluti come luoghi per le persone colte, alle quali non interessava l’educazione delle altre persone».

I musei britannici, in effetti, sono stati fondati nel XIX secolo per celebrare le conquiste della classe industriale. Sono nati, quindi, in una società dominata da una élite colta, e la maggior parte della popolazione non ha avuto alcun coinvolgimento nel loro processo di formazione. La maggior parte di questi musei era gestita come un circolo privato, non a vantaggio della popolazione in generale.

La classe operaia ha visto un cambiamento in meglio durante i sei governi del Partito laburista, tra il 1918 e il 1974, anche grazie alla crescita dell'influenza del movimento sindacale. Ma quando, successivamente, il governo di Margaret Thatcher ha accentuato i divari sociali e ha determinato l’annullamento dei sindacati, la situazione è nuovamente peggiorata. In quella circostanza i musei non sono stati in grado di svolgere la loro azione sociale perché non hanno colto i disagi e le nuove necessità delle classi lavoratrici che, gradualmente, perdevano i loro diritti. I musei hanno tradito, in tal modo, i principi su cui si fonda il museo democratico.

Attualmente, sempre in riferimento allo scenario britannico, la disoccupazione si è ridotta nuovamente negli anni '90 e nei primi anni del 21° secolo. La situazione sociale e politica è in evoluzione ma è sempre più difficile parlare delle classi lavoratrici e dei loro problemi, anche se usiamo abitualmente il termine “cultura popolare” che a tutti gli effetti ha soppiantato il termine “cultura della classe operaia”, mentre in pratica significa la stessa cosa.

Il cambiamento, secondo Fleming, deve allora venire dalla creazione di un nuovo modello di museo popolare che riesca ad attrarre un pubblico che sia il più vasto possibile. Ma questa trasformazione non può essere attuata se la gestione dei musei è ancora affidata ad «una élite che non accetta che il mondo abbia gusti diversi e che esige solo un silenzio reverenziale dinanzi alla cultura».

Chi dirige un museo, invece, dovrebbe chiedersi innanzitutto che cosa contiene e in che modo una istituzione culturale come il museo possa diffondere tali contenuti tra la gente. 
Un museo democratico «attira una folla eterogenea, ha una programmazione varia e opera su diversi livelli, è socialmente responsabile, coinvolge il pubblico, lo fa partecipare, si basa sul dialogo, non ha paura del dibattito, della polemica, delle opinioni, ma anzi le sollecita. Un museo democratico può lottare per la giustizia e i diritti umani».

Fleming puntualizza che un museo democratico, tuttavia, «non è contro gli accademici e gli intellettuali: anzi, esso esige che gli accademici e gli intellettuali abbiamo buone collezioni e possano svolgere  ricerche eccellenti» perché questo va a vantaggio di tutti. Come esempio lo storico inglese cita il Museo delle mine antiuomo di Pnhom Pehm, in Cambogia, «un luogo che educa sulla storia e sulle conseguenze della guerra in quel paese, come potrebbe fare qualsiasi altra istituzione del suo genere, ma che dà anche un alloggio ai bambini che sono stati vittime di conflitti e assiste coloro che hanno subito amputazioni (durante la guerra civile che ha insanguinato il regime dei Khmer rossi). Questo museo non è solo uno spazio espositivo ma è anche un luogo di guarigione per i corpi, i cuori e le menti».

Fleming è convinto che i musei possono influenzare la vita delle persone, ma, proprio perché sono investiti di questo importante compito, «se falliscono, tradiscono la società». 

E’ un concetto, questo, che dovrebbero tenere a mente alcuni decisori delle amministrazioni locali italiane che in questi ultimi mesi sembrano voler vedere nei musei soltanto un patrimonio immobiliare da sfruttare o da “mettere a reddito”, per usare un’espressione diventata di moda in ambito culturale, dimenticandosi che i musei sono molto di più e che sono un valore soprattutto in misura di ciò che riescono a fare per la società.

«La magia di un museo» - afferma Fleming - «è saper attrarre adulti e bambini con gli stessi strumenti, il che non significa riempire i musei di computer o coprirne le pareti con testi che nessuno leggerà». E’ anche importante essere realistici e capire che la gente riceve tante sollecitazioni, da altre istituzioni, dai media, dalle proprie esperienze o dalle altre persone. Perciò non bisogna neppure caricare il museo di un eccesso di aspettative. La cosa più importante è che il museo sia intelligentemente integrato nel suo ambiente sociale, in modo che sia in grado di svolgere il proprio ruolo pienamente. Il termine “collaborazione” forse ultimamente troppo abusato, comincia ad avere un significato se è collocato in questo campo d'azione.

Un museo socialmente sostenibile – secondo la teoria proposta dallo storico britannico - dovrà lanciare un messaggio inequivocabile e chiaro che faccia capire che il pubblico è al primo posto in ogni sua azione e che non si giustificherà alcuna esclusione. Questo si ottiene con la passione, l'impegno e il coraggio (forse anche con l’ostinazione e l’intransigenza), e si può raggiungere con la messa a punto di sistemi, strutture, standard, e con un’adeguata gestione del rischio. Non può prescindere, inoltre, dal lavoro di squadra e da un approccio multidisciplinare. 


In definitiva, il museo democratico deve essere condotto da iconoclasti che cercheranno di rovesciare lo status quo, superando il conservatorismo e le vecchie mentalità. La direzione di un museo socialmente responsabile formerà uno staff adeguato che, con i propri atteggiamenti e comportamenti, mostri un genuino rispetto per il pubblico e per tutte le sue diversificazioni. Si cercherà di comprenderne gli interessi, le aspirazioni e i gusti per orientare su queste le proprie offerte culturali. La missione del museo dovrà essere orientata verso l'esterno, a «guardare le stelle, invece di guardarsi l'ombelico!» - sintetizza efficacemente Fleming, che aggiunge: «non servono grandi budget per attirare il pubblico, ma occorre soprattutto essere sensibili e creativi. La passione non costa niente».

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