ILLUSTRAZIONE DELLE LINEE PROGRAMMATICHE DELL’AZIONE DEL MINISTRO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI

Riporto, di seguito, il testo delle linee programmatiche dell'azione del Ministro per i beni e le attività culturali. Si fa riferimento ai musei al punto 4 e 16.


Commissioni congiunte VII^ Camera e 7^ Senato della Repubblica 
23 maggio 2013 

Premessa. La cultura come bene comune e come diritto. Il contesto europeo e lo  scenario mondiale. 

La tutela, lo sviluppo e la diffusione dei beni, delle attività, dei valori della cultura si collocano necessariamente al centro degli obiettivi di crescita civile, sociale ed economica del nostro Paese. Del resto, è ormai acquisita la convinzione secondo cui la cultura costituisce un bene comune di straordinaria ricchezza e complessità, che, in tutte le sue diverse manifestazioni, deve essere protetto e potenziato. Ma la cultura non è soltanto uno degli interessi pubblici essenziali, tutelato dalla Costituzione e dai Trattati internazionali. Rappresenta anche l’oggetto di un insieme di diritti fondamentali del cittadino, della persona, delle formazioni sociali: il diritto di accesso al sistema della produzione culturale; il diritto alla più ampia fruizione di tutti i beni culturali, dei prodotti delle attività culturali. 
Le linee programmatiche del Ministero sono definite partendo da queste premesse di fondo, tenendo conto del lavoro già compiuto nel corso degli ultimi anni. Occorre, però, compiere passi ulteriori, aumentando gli sforzi per affrontare con coraggio e convinzione le difficili sfide che il Ministero ora ha di fronte. Le nuove politiche per la cultura italiana dovranno muoversi nel contesto europeo in modo convinto, sottolineando con fermezza alcuni punti essenziali, incentrati sulla peculiarità dei “valori culturali”. Questi impongono di assegnare all’Italia il ruolo di capofila nella espressione di posizioni coerenti con questa impostazione in seno alle istituzioni dell’Unione europea.
Una prima importantissima manifestazione di questa precisa linea di azione è costituita dalla sottoscrizione di un documento, predisposto insieme al Ministro della cultura francese, incentrato sulla chiara enunciazione del principio della “eccezione culturale”, applicabile anche al livello delle scelte politiche dell’Unione europea. Nella elaborazione delle regole di libero scambio tra Europa e Paesi Terzi, quali gli Stati Uniti, i prodotti della cultura non possono essere disciplinati come “merci” comuni, ma vanno considerati nella loro esatta natura di espressioni di “valori”. 
Il ruolo attivo e dinamico della cultura italiana deve essere chiaramente riproposto nel contesto mondiale. Le trasformazioni dello scenario globale avvenute a cavallo del secondo e del terzo millennio non possono che accrescere la necessità di potenziare gli scambi culturali e di promuovere la conoscenza dell’immagine italiana nelle diverse aree geografiche. 
La cooperazione dell’Italia con altri Paesi, anche in realtà complesse, rappresenta un fattore importantissimo per agevolare i processi di pace e di ricostruzione. Inoltre, la dimensione internazionale delle politiche per la cultura attuate dall’Italia favorisce l’integrazione, anche all’interno del nostro Paese, tra realtà provenienti da diverse origini. 
In questa prospettiva, devono essere sviluppati i progetti di cooperazione per il restauro di siti culturali con Giordania, Israele, Palestina, Iraq, Iran, Libia, Tunisia. 
Gli indirizzi programmatici del Ministero devono tenere conto anche dei principi di sussidiarietà verticale e orizzontale. Va osservato, infatti, che i risultati più rilevanti nei campi della tutela e della promozione dei beni e delle attività culturali possono essere realizzati efficacemente solo attraverso un pieno e responsabile coordinamento con le politiche regionali e con le funzioni svolte dagli enti locali. 
Gli ambiti di svolgimento di questa cooperazione verticale sono diversificati e utilizzano strumenti molteplici, in relazione ai settori considerati. Ma è in ogni caso indispensabile individuare, allargandone lo spazio operativo, forme virtuose di coordinamento: la presenza di più attori pubblici nel campo della cultura deve rappresentare occasione di accrescimento dell’efficacia complessiva delle azioni istituzionali e non causa di conflittualità, come talvolta è avvenuto in passato. 
In questo ambito è necessario rafforzare il coordinamento con il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, per lo svolgimento di azioni congiunti con le regioni e con le istituzioni europee per la promozione della ricerca sul patrimonio culturale. 
Anche l’importanza, in alcuni casi l’insostituibilità, dei soggetti privati nell’attuazione delle politiche per la cultura deve essere ribadita e accompagnata da azioni concrete. 
Il mondo delle associazioni nazionali e locali attive nel campo dei beni e delle attività culturali è particolarmente ampio e ha contribuito in modo straordinario alla diffusione di valori condivisi di tutela e valorizzazione dei beni culturali. Non solo: anche i contributi offerti individualmente da soggetti privati impegnati nel campo della cultura hanno consentito spesso la realizzazione di iniziative culturali che il settore pubblico, da solo, non avrebbe potuto attivare. 
Occorre proseguire su questa strada, individuando ulteriori forme di sinergia tra pubblico e privato, senza sovrapposizioni di ruoli e senza “supplenze”, facendo convergere le forze e gli interessi dei diversi soggetti verso obiettivi determinati. In ogni caso, nella giusta prospettiva della trasparenza e della partecipazione dell’amministrazione e dei processi decisionali di maggiore spessore, vanno ampliate le occasioni di ascolto e di confronto dei soggetti privati, specie di quelli portatori di interessi collettivi e diffusi. Il ricorso a modalità di azione partecipate e, il più possibile, condivise con i cittadini, le categorie e i portatori di interesse potrà infatti, auspicabilmente, contribuire a ricostituire un clima di fiducia della collettività nei confronti delle Istituzioni. In questa cornice di riferimento si collocano, più specificamente, i punti essenziali delle linee programmatiche del Ministero, suddivisi in funzione dei settori più importanti in cui si esplica la missione istituzionale dell’amministrazione.

1. Il “Grande progetto Pompei”. Un’opportunità da tradurre in risultati concreti. 

Le notizie di cronaca degli ultimi anni, nel riportare numerosi episodi di cedimenti e danni alle domus di Pompei, hanno richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica sulla necessità di interventi urgenti per la tutela del sito archeologico, di cui è superfluo ricordare il valore inestimabile e l’assoluta unicità. 
Una prima risposta all’emergenza è stata data con l’emanazione del decreto legge n. 34 del 2011, che ha previsto l’adozione di un programma straordinario di interventi, alla cui realizzazione è stato anche destinato un importante finanziamento dell’Unione europea. 
Qualunque visitatore dell’area archeologica può, peraltro, rilevare immediatamente come – nonostante l’evidente ed encomiabile sforzo operato dall’Amministrazione per mettere celermente in cantiere i lavori più urgenti – molto, anzi moltissimo, rimanga ancora da fare. A distanza di due anni dal decreto legge, la piena e completa attuazione di quel Progetto rappresenta quindi una priorità assoluta per il nostro Paese e, verrebbe da dire, per la comunità mondiale. In favore di questo obiettivo occorre pertanto promuovere l’impegno condiviso di tutti gli attori istituzionali coinvolti.

2. La tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale. Il rafforzamento e il miglioramento del codice. 

La tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale costituiscono una delle missioni fondamentali del Ministero, identificandone la stessa ragion d’essere. È necessario, in primo luogo, dare ulteriore impulso e sostegno agli interventi di attuazione e di miglioramento del Codice dei beni culturali e del paesaggio, verificandone con attenzione la concreta applicazione nel corso degli ultimi anni. Il codice costituisce, indubbiamente, un approdo importante della legislazione, perché ha saputo definire efficaci livelli di protezione dei beni culturali e paesaggistici e della loro valorizzazione. Gli strumenti di tutela previsti vanno difesi e rafforzati, ma occorre semplificare alcune procedure eccessivamente burocratiche, scarsamente idonee a realizzare concreti obiettivi di tutela degli interessi culturali. Occorre ricordare, al riguardo, che il codice, entrato in vigore nel 2004, è stato oggetto di importanti correttivi nel 2006 e nel 2008. A distanza di oltre cinque anni dall’ultimo intervento legislativo, la prassi applicativa ha dimostrato l’esigenza della definitiva messa a punto del testo normativo, le cui disposizioni richiedono di essere integrate e chiarite su diversi punti, ferma restando l’architettura generale. Per fare un solo esempio, richiede una profonda revisione la normativa sui “monumenti nazionali”, che trae la propria origine storica dalle vicende successive all’incameramento dei beni della Santa Sede da parte del neonato Regno d’Italia. La scarsa chiarezza del quadro, su questo punto, è all’origine, purtroppo, di situazioni di mancanza di adeguato controllo, che hanno causato, di recente, fatti gravissimi come quelli occorsi presso la Biblioteca dei Girolamini.. Sarà presto attivato un apposito gruppo di lavoro incaricato di analizzare i profili di concreta criticità della normativa in materia di tutela e valorizzazione dei 
beni culturali e di formulare puntuali proposte di modifiche del codice. In tal modo, sarà possibile rimuovere incongruità e colmare lacune emerse nella prassi applicativa di una disciplina complessivamente condivisa e generalmente apprezzata dai cittadini, dagli enti territoriali e dagli operatori del settore. 

3. La fiscalità di vantaggio per i beni e le attività culturali. Uno strumento per il rilancio dell’economia e per la crescita del Paese. 

Raccogliendo i proficui contributi emersi dal dibattito sviluppatosi negli ultimi anni tra le forze politiche e gli attori sociali, deve essere rilanciata con forza la questione della fiscalità di vantaggio per i beni e le attività culturali. 
Tre sono le ragioni e, nel contempo, le linee di indirizzo di questa scelta:

- favorire un partenariato pubblico-privato, anche istituzionalizzato in fondazioni, più dinamico e vitale;

- assegnare una maggiore considerazione – nell’ambito della prossima riforma del regime fiscale degli immobili – della assoluta particolarità della posizione delle dimore storiche, in modo da aiutare i privati proprietari di beni culturali immobili a tenere in piedi questi beni e a garantire la minima manutenzione necessaria per loro conservazione; 

- sostenere il mecenatismo e le sponsorizzazioni, per aiutare lo Stato e gli enti pubblici a fare manutenzione programmata e restauri, da Pompei alla prevenzione del rischio sismico, fino al recupero e restauro di importanti monumenti che rischiano di crollare. 

Il principio del vantaggio fiscale per le attività di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, nonché per il sostegno alle attività culturali, è già attualmente presente nella legislazione tributaria. Si può fare riferimento, in particolar modo, alle ipotesi di detrazioni dall’imposta, per le persone fisiche, e di deduzione dall’imponibile, per le persone giuridiche, delle spese per il restauro di beni vincolati e delle erogazioni liberali, previste dal Testo Unico delle Imposte sui Redditi, nonché alla recente disposizione che prevede l’abbattimento del cinquanta per cento della base imponibile dell’IMU per i fabbricati di interesse storico o artistico. 
Anche nel disegno di legge delega per il riordino del sistema fiscale approvato dal precedente Governo era prevista una menzione della “eccezione culturale”, ossia della necessità di tenere nel debito conto il tema della fiscalità di vantaggio per i beni e le attività culturali. 
Questa linea deve essere mantenuta, con la precisazione di ulteriori e più precise indicazioni e proposte operative. 
In questa prospettiva, occorre introdurre misure forti e chiare: 
l’IVA agevolata per il restauro di beni culturali; la riforma del regime delle detrazioni e deduzioni fiscali dall’imposta sui redditi, pensando magari al modello francese, che prevede la ben più incisiva misura della detraibilità del 60% dall’imposta dovuta dei versamenti effettuati dalle imprese in favore di opere o di organismi operanti nel campo della cultura; la riforma del regime IMU (ovviamente nel contesto generale della revisione del sistema impositivo sulla casa) per gli immobili sottoposti a vincolo storico e artistico, come forma di alleggerimento fiscale a vantaggio dei proprietari di immobili vincolati a fronte degli oneri legati al vincolo e delle connesse responsabilità per la conservazione imposte dalla legge di tutela. 
Queste proposte in tema di vantaggio fiscale per i beni e le attività culturali non servono solo a garantire la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale, ma servono anche a favorire la ripresa economica di un settore – quello del restauro – cui oggi si affacciano con interesse tanti giovani in cerca di occupazione. 

4. I Musei e gli altri luoghi della cultura. La destinazione dei proventi dei biglietti. 

È assolutamente prioritario un intervento normativo finalizzato a modificare le disposizioni normative attualmente in vigore in virtù delle quali gli introiti derivanti dalla vendita dei biglietti di ingresso dei musei, dalla concessione dei servizi al pubblico (libreria, caffetteria, audioguide e simili) e dai canoni dovuti per la riproduzione dei beni culturali statali vengono introitati al bilancio dello Stato e riassegnati, ma solo in minima parte, al Ministero per i beni e le attività culturali. 
Se è già colpevole che il nostro Paese finanzi in misura nettamente insufficiente la cultura, è addirittura intollerabile che vengano sottratti al Ministero i proventi derivanti direttamente dagli introiti dei musei e degli altri luoghi della cultura. La ricchezza prodotta dalla cultura, in questo modo, viene sottratta proprio ai soggetti che la hanno generata. 

5. Il patrimonio dei beni architettonici e monumentali. Il potenziamento del sistema informativo per la valorizzazione di una immensa ricchezza.

In questi anni il Ministero si è concentrato sull’obiettivo di una sempre più ampia conoscenza del patrimonio architettonico attraverso un’intensa attività diretta all’incremento dei provvedimenti di verifica dell’interesse storico artistico dei beni pubblici e una sempre più incisiva azione di catalogazione. Dal 2005, data di istituzione del sistema informativo “Beni Tutelati” ad oggi, sono stati verificati ben 10.905 beni. 
Questo lavoro ha non solo agevolato le iniziative previste dalle recenti leggi di bilancio relative alla razionalizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico attraverso idonei piani di dismissione, con indiscutibili vantaggi per la finanza pubblica, ma anche perseguito una più approfondita conoscenza dei beni stessi, presupposto primo per una efficace azione di tutela e di attuazione della prevenzione in caso di calamità. 
Occorre continuare questa attività, implementando le funzionalità del sistema informativo in modo da assicurarne l’accesso a tutti gli operatori e favorire con la conoscenza preventiva condotte da parte dei soggetti proprietari. 

6. Il patrimonio monumentale e il rischio sismico. La prevenzione e i progetti di restauro nelle aree dell’Abruzzo e dell’Emilia.

Tra gli impegni prioritari del Ministero vi è senz’altro quello di affrontare il tema della prevenzione del rischio sismico, tema sempre di grande attualità, come purtroppo hanno dimostrato i recenti eventi dell’Abruzzo e dell’Emilia. Su questo fronte occorre potenziare e affinare le sinergie che si sono già costituite tra Ministero, Protezione Civile e Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, attraverso la definizione di metodologie adeguate alla protezione dei beni culturali, puntando soprattutto sulla prevenzione. Dovrà essere se del caso arricchita la circolare del 2006 che ha introdotto le “Linee guida per la valutazione riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale”. 
Non si può sottacere, d’altra parte, il fatto che negli ultimi anni si è avuta una progressiva diminuzione delle opere di manutenzione programmata degli edifici in genere ed in modo particolare di quelli vincolati a causa della continua riduzione di risorse. Questo fatto ha profondamente inciso sullo stato di conservazione del patrimonio architettonico rendendolo molto più esposto alle calamità naturali, soprattutto per gli eventi sismici. Il dato diffuso dalla Direzione Regionale dell’Emilia di circa 1500 edifici danneggiati, monumenti di interesse culturale fra cui tantissime Chiese, è un dato significativo e di grande gravità. E’ indispensabile, quindi, operare un’inversione di tendenza e tornare ad investire nella manutenzione e nel restauro del patrimonio. Occorre sviluppare una cultura della sicurezza, anche in accordo con il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca.

7. I valori culturali specifici dei centri storici. Verso una nuova idea di città. Riguardo alla tutela e valorizzazione dei centri storici, deve essere proseguito, e sviluppato l’indirizzo di particolare attenzione già avviato con la Direttiva del 10 ottobre del 2012. Questa iniziativa andrebbe anzi arricchita e completata, con la collaborazione dell’ANCI e delle Regioni, per verificare la 
possibilità di trovare nuove soluzioni normative al problema della progressiva espulsione dai centri storici delle botteghe tradizionali, che pure ne costituiscono un aspetto caratterizzante meritevole di tutela. E’ inoltre necessario che le città riprendano a svolgere il ruolo di “capitali della cultura”. 

8. L’aggiornamento della disciplina sulla circolazione dei beni culturali al di fuori del territorio nazionale. 

Un tema che molto importante e sul quale è necessario intervenire è quello della circolazione dei beni storici, artistici ed etnoantropologici, che oggi presenta una disciplina lacunosa e datata (risalente ad alcune circolari del 1974). Ma anche la direttiva del gennaio 2008 esige un affinamento. Appare dunque necessario prevedere l’apertura di un nuovo tavolo di confronto per riesaminare sia i criteri oggi vigenti per le valutazioni in caso di prestiti sia i criteri per il rilascio o il diniego degli attestati di libera circolazione. Occorrerà inoltre implementare l’utilizzo dei sistemi informativi oggi operanti di GESMO (prestiti per mostre) e SUE (Uffici esportazione).

9. L’arte e l’architettura contemporanee. La qualità dell’architettura e del paesaggio. 

Una particolare attenzione dovrà poi essere assicurata per l’architettura e l’arte contemporanee. La strategia per il settore del contemporaneo, per la natura e la specificità di obiettivi e azioni, richiede una crescente attenzione alla ricerca della qualità e della innovazione creativa, in collegamento con l’operato delle diverse realtà nazionali e internazionali. Il principale strumento operativo di cui si avvale il Ministero per il potenziamento del patrimonio contemporaneo pubblico è il Piano dell’arte contemporanea, introdotto dalla legge n. 29 del 2001, finalizzato ad acquisizioni e arricchimenti di collezioni esistenti, a favorire la committenza di opere, a promuovere concorsi e premi e la conoscenza del settore. 
Un’ulteriore linea di azione del Ministero è quella rivolta alla qualità dell’architettura nel paesaggio attraverso una pluralità di attività dirette a favorire la crescita di una cultura che si estende anche al contemporaneo. 
In quest’ottica, è indispensabile riprendere e approfondire il tema della qualità architettonica, sul quale nelle precedenti legislature sono stati già presentati, anche dai miei predecessori, importanti disegni di legge, che costituiscono una prima traccia utile lungo la quale sviluppare il ragionamento e il confronto. La qualità dell’architettura si lega strettamente, come è evidente, al tema della riqualificazione del tessuto urbano e, soprattutto, delle periferie di tante città italiane: solo un profondo cambiamento del modo di pensare, progettare e dunque realizzare i nuovi interventi – che ponga al centro la qualità del costruire – può consentire il ridisegno 
di tante aree oggi degradate, brutte o, nella migliore delle ipotesi, amorfe, insignificanti, squallide, che avviliscono i nostri centri urbani e sono concausa di disagio sociale; solo la qualità del progetto architettonico potrà consentire di creare nuovo paesaggi urbani, che pongano le nostre reti urbane al livello delle più avanzate e vitali realtà metropolitane europee. Il Ministero non è contrario alle nuove costruzioni. E’ contrario alle nuove costrizioni “vecchie”, cioè a un modo di costruire che sembra rimasto agli anni ’70 del secolo scorso; è contrario all’idea antiquata di una certa imprenditoria del mattone che pensa ancora nella logica del secolo scorso dell’edilizia di espansione – i palazzoni di sette piani in mezzo alla campagna – tutta centrata sul consumo di suolo agricolo verde, che non ha ancora capito che la priorità nel terzo millennio è quella di ricucire e rigenerare i già troppo ampi e dispersivi agglomerati urbani compromessi e degradati. E per realizzare questo cambio di passo è necessario puntare sulla qualità del progetto architettonico, premiando i giovani architetti e incentivando (soprattutto gli enti pubblici) a privilegiare i concorsi di progettazione e gli altri strumenti giuridici capaci di promuovere e sostenere la creatività, la cultura, la novità del progettare. 
Va poi valutata, con il massimo approfondimento, la possibilità di introdurre modifiche giuridiche idonee a migliorare l’azione per la salvaguardia del patrimonio di architettura contemporanea, oggi sostanzialmente escluso dal codice di settore e tutelato solo in base alla legge sul diritto d’autore, ciò che rende di fatto impossibile una efficace azione di tutela.

10. La tutela del paesaggio. Il ruolo della pianificazione territoriale e il rapporto con le Regioni.

Nell’ottica di una politica seria, coerente ed efficace di governo del territorio, che coniughi intelligentemente e oculatamente le istanze dello sviluppo e della tutela, la pianificazione paesaggistica si pone, da sempre, come impegno prioritariamente strategico nell’attività del Ministero. Le finalità che il Codice delinea a carico della pianificazione paesaggistica, 
sono del tutto in linea con la Convenzione Europea del Paesaggio e prevedono una complessa ricognizione di varie centinaia di provvedimenti di tutela dei quali vengono verificate, congiuntamente con le Regioni, le perimetrazioni e messi a punto i criteri di gestione. E’ un’operazione questa particolarmente significativa in termini di certezza del diritto e chiarezza procedurale, giacché è finalizzata a mettere a disposizione del cittadino e degli operatori economici un quadro chiaro e incontrovertibile degli ambiti territoriali di valenza paesaggistica. Al momento i tavoli di co-pianificazione sono particolarmente attivi con le regioni Calabria, Marche, Piemonte, Puglia, Sardegna, Toscana, Umbria e Veneto. 
Pertanto, si deve proseguire nell’attività di co-pianificazione, sia per la conclusione dei lavori nelle Regioni sopra segnalate e l’approvazione del piano, sia per l’attivazione o l’incentivazione della partecipazione nei confronti di quelle regioni oggi in fase di stallo. 

11. La tutela del paesaggio e le energie rinnovabili. Per un equilibrio razionale tra gli interessi in gioco. 

Un tema molto importante e delicato è quello relativo allo sviluppo delle energie rinnovabili, per le complesse implicazioni di carattere paesaggistico. Nell’attuale quadro normativo si registra l’assenza di una chiara regolamentazione di settore, insieme alla mancanza di adeguati indirizzi di programmazione e di valutazione della collocazione delle infrastrutture su scala vasta. Da ciò consegue che si assiste alla disseminazione di impianti sul territorio senza idonei e coordinati criteri di localizzazione. Appare urgente, allora, un’iniziativa anche legislativa da parte del Ministero ripartendo dall’attività già svolta nell’ambito del gruppo di studio a suo tempo promosso dall’Ufficio Legislativo e cogliendo le opportunità insite nella recente attivazione, presso il Ministero dello Sviluppo Economico, dell’Osservatorio per le energie rinnovabili. 

12. La salvaguardia del paesaggio attraverso il contenimento del consumo del suolo. 

Per rafforzare ulteriormente la tutela del paesaggio risulta particolarmente utile l’introduzione di una disciplina legislativa per il contenimento del consumo del suolo e per favorire il prioritario riuso del suolo già edificato, secondo un modello già sperimentato con ottimi risultati in altri Paesi europei. E’ sotto gli occhi di tutti il degrado delle nostre periferie urbane, dove ai capannoni industriali dismessi, alle aree agricole trasformate in depositi di materiali a cielo aperto, vanno aggiungendosi continuamente nuovi centri commerciali e nuovi piccoli agglomerati urbani, completamente scollegati dalla parte rimanente della città. Il fenomeno del consumo incontrollato di suolo agricolo ha ormai assunto, in Italia, soglie allarmanti. Se l’attuale andamento non dovesse essere immediatamente arrestato ci ritroveremmo, in pochi anni, ad aver definitivamente e irreparabilmente compromesso il nostro territorio. E ciò genera una serie di effetti sui quali la nostra società, che – purtroppo vede ancora in un certo modo di fare edilizia l’unico motore dell’economia – non ha ancora riflettuto abbastanza, primi fra tutti la definitiva perdita di aree agricole pregiate e l’irreparabile compromissione del nostro paesaggio agrario, che è elemento caratterizzante del nostro territorio, della nostra identità e 
della nostra cultura. Tutto ciò senza contare che la c.d. “dispersione urbana”, producendo centri abitati privi di servizi o centri commerciali in aree non antropizzate, genera di per sé situazioni di disagio abitativo, e determina, nel medio periodo, l’ulteriore consumo di suolo per dotare quelle aree delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria di cui sono prive. 
Al riguardo, va segnalata la risoluzione adottata , nella precedente legislatura, dalla 13^ Commissione del Senato, che impegnava il Governo “ad attivarsi, in collegamento con il Parlamento e con le Regioni, per la predisposizione di nuove norme di indirizzo in materia urbanistica, che assumano pienamente l’obiettivo di limitare il consumo di suolo libero anche attraverso l’individuazione di obiettivi quantitativi da perseguire nel corso del tempo e l’introduzione di un sistema bilanciato di incentivi e disincentivi fiscali (...)”. 
Mi è altresì noto il disegno di legge presentato dal Governo nella scorsa legislatura volto alla tutela e alla valorizzazione delle aree agricole. Quell’esperienza dovrebbe essere utilmente ripresa e approfondita, mediante l’elaborazione di un nuovo atto di iniziativa legislativa, con l’obiettivo di affinare gli strumenti giuridici allora ipotizzati, per pervenire all’obiettivo della riduzione del consumo del suolo, mettendo, in primo piano, accanto alla salvaguardia degli usi agricoli del suolo, la finalità di tutela e valorizzazione del paesaggio agrario, quale elemento qualificante e identitario della forma del territorio italiano. 

13. Colosseo, Domus Aurea, Appia antica: un rinnovato impegno in favore della tutela e della valorizzazione del patrimonio archeologico. 

Il patrimonio archeologico rappresenta uno dei più importanti fattori di unicità del nostro territorio, della nostra cultura e della nostra identità. La conservazione di questa inestimabile ricchezza, soprattutto al fine di tramandarla alle future generazioni, richiede un impegno assiduo e costante, che non può soffrire di interruzioni a causa di questioni burocratiche o di carenza di fondi, pena il rischio di perdite non più rimediabili. 
Sono, quindi, fondamentali un rinnovato impulso e una celere conclusione delle iniziative già in corso, come quella concernente il restauro del Colosseo, nonché il potenziamento delle attività di tutela e di valorizzazione di altri importantissimi beni archeologici, quali la Domus Aurea e la via Appia antica; e ciò anche ricorrendo all’apporto finanziario di soggetti privati. 
Al riguardo, il Ministero ha recentemente varato le Norme tecniche e le Linee guida per le sponsorizzazioni di beni culturali, con le quali è stato dettato un quadro chiaro delle regole applicabili. Si tratta, adesso, di valersi opportunamente di questo strumento, ed eventualmente anche di migliorarlo, sulla base dell’esperienza applicativa, in modo da avviare in tempi brevi nuove iniziative di collaborazione tra soggetti pubblici e privati in favore della piena tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico. 

14. L’archeologia. L’attuazione della Convenzione europea per la protezione del patrimonio archeologico. 

Sempre con riguardo all’archeologia, va rapidamente proposto il disegno di legge per l’autorizzazione alla ratifica e per l’esecuzione della Convenzione 16 gennaio 1992. E’ noto a tutti gli operatori del settore il colpevole ritardo dell’Italia che, pur caratterizzata da un patrimonio archeologico unico al mondo, e pur essendo tra gli Stati primi firmatari della Convenzione, non ha poi, per oltre vent’anni, provveduto alla ratifica del Trattato, collocandosi, oggi, tra i pochi rimanenti Paesi che non hanno ancora reso operativo l’Accordo sul proprio territorio. Pertanto, è assolutamente prioritario colmare questa grave lacuna del nostro ordinamento. 

15. La tutela rafforzata dei beni culturali. Il controllo della circolazione di beni archeologici. La riforma dei reati contro il patrimonio culturale. 

Un settore che richiede una particolare attenzione è quello dell’attività di controllo della circolazione di beni archeologici a livello internazionale. Il traffico illegale di opere d’arte rappresenta un business significativo da parte della criminalità organizzata e colpisce l’Italia ad altri Paesi del Mediterraneo particolarmente ricchi di opere apprezzate dal mercato antiquario; in particolare, il patrimonio archeologico è il settore maggiormente a rischio di distruzione e dispersione a causa del fenomeno degli scavi clandestini. Negli ultimi anni, è stata potenziata dal MiBAC una forte sinergia tra le Istituzioni preposte a vario titolo alle attività di prevenzione e di contrasto del traffico illegale di beni culturali. Intendo dunque favorire la presenza di rappresentanti dell’Italia nei tavoli internazionali che trattano tematiche connesse alla tutela e al controllo della circolazione di beni culturali (UNESCO, UE, UNODC, UNIDROIT). 
In questo contesto, la Direzione Generale delle Antichità, in stretta collaborazione con le Soprintendenze periferiche e con il Comando CC TPC, è impegnata in una costante opera di verifica su materiale archeologico segnalato in case d’asta o alle frontiere, anche quando non sia di provenienza italiana. In quest’ottica, va promossa un’iniziativa legislativa finalizzata al 
conferimento di una delega al Governo per la riforma della disciplina dei reati contro il patrimonio culturale. L’inasprimento del trattamento sanzionatorio di queste fattispecie penali risponde invero all’esigenza di valorizzare la particolare oggettività giuridica dei fatti di reato che, oltre a ledere la proprietà pubblica o individuale dei beni, offendono altresì il patrimonio culturale e, quindi, l’interesse primario ad esso inerente, consegnatoci dall’articolo 9 della nostra lungimirante Costituzione. 
D’altra parte, l’inasprimento delle pene è anche funzionale alla necessità – sempre più drammaticamente segnalata dal Comando dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio culturale – di disporre di strumenti processuali e investigativi più incisivi rispetto a quelli attualmente utilizzabili dalla magistratura e dalle forze dell’ordine. Un intervento legislativo di questo segno risponderebbe a un’esigenza largamente condivisa, che ha dato vita, nella scorsa legislatura, alla promozione di un disegno di legge di delega di iniziativa governativa. Quel testo, poi rielaborato e migliorato dalla Commissione giustizia, costituisce un buon punto di partenza per riprendere e condurre celermente a termine l’iniziativa legislativa. Al riguardo, 
emerge una significativa condivisione su tale priorità anche da parte di un cospicuo numero di Senatori della presente Legislatura, poiché un disegno di legge sul medesimo argomento è stato recentemente presentato dal Senatore Giro e vede tra i propri firmatari numerosi Senatori della 7^ Commissione del Senato. 

16. La valorizzazione del patrimonio culturale. Una migliore fruizione dei luoghi della cultura. Una gestione efficace dei servizi accessori. 

In tema di valorizzazione gli obiettivi che richiedono di essere perseguiti sono il miglioramento dell’accessibilità ai musei, non sempre assicurata a tutte le fasce di utenti e con orari di apertura spesso penalizzanti, una qualità dei servizi nei Musei che sia adeguata agli standard internazionali, il rinnovo delle concessioni dei servizi al pubblico nei Musei, ampiamente scadute e che, a causa di contenziosi insorti rispetto alle procedure di gara avviate nel 2010, non è stato possibile rinnovare. 
Occorrerà poi incrementare e migliorare il materiale informativo e gli apparati illustrativi nei Musei, spesso realizzati solo in italiano; è inoltre necessario favorire una maggiore integrazione tra i luoghi della cultura statali e non statali, presenti nelle stesse città, anche mediante la promozione degli itinerari culturali non inseriti nei principali circuiti turistici. Infine, è necessario stimolare e favorire una maggiore attenzione delle giovani generazioni per il patrimonio culturale. Per queste finalità, sarà presto costituito un gruppo di studio, cui sarà demandato il compito di approfondire le forme e le modalità più efficaci per l’esplicarsi del rapporto tra soggetti pubblici e privati nella gestione delle attività di valorizzazione, in modo da individuare soluzioni che consentano di coniugare le esigenze della migliore fruizione pubblica degli istituti e dei luoghi della cultura con la sostenibilità economica delle gestioni e la valorizzazione della progettualità degli operatori economici. Sul piano normativo, è necessario impegnarsi per il miglioramento della pubblica fruizione dei siti culturali attualmente non aperti al pubblico o non adeguatamente valorizzati. I dati in possesso del Ministero dicono che numerosi siti culturali statali sono attualmente non visitabili o sono aperti solo in determinati giorni e orari. In questi luoghi della cultura – è quasi inutile aggiungerlo – sono del tutto carenti i servizi in favore del pubblico: dalle audioguide, alle librerie, ai servizi di ristorazione. Si tratta di un fenomeno molto grave, perché la mancata fruizione dei beni rappresenta un impoverimento per la collettività. Un impoverimento anzitutto culturale, ma anche economico, se si considerano le opportunità di lavoro che potrebbero derivare dall’apertura di quei siti e l’indotto che potrebbe essere generato. Peraltro, l’attuale situazione dei conti pubblici non consente di ipotizzare l’effettuazione di assunzioni del grande numero di unità di personale, soprattutto di custodia, che sarebbe necessario a tal fine. 
La via percorribile potrebbe, pertanto, essere quella di consentire la concessione dei siti, sulla base di un progetto di restauro e di valorizzazione condiviso dall’Amministrazione, a soggetti privati, sulla base di procedure selettive di evidenza pubblica e per un periodo di tempo determinato. Ove, poi, la gestione imprenditoriale dei luoghi della cultura interessati dovesse risultare non profittevole, potrebbe ipotizzarsi la concessione a soggetti non lucrativi, che sarebbero in grado di assicurare almeno l’apertura al pubblico. 
Le moderne tecnologie, internet, i social networks, la tendenza a una circolazione sempre più veloce delle informazioni e dei contenuti, prodotti oggi in modo diffuso, da soggetti non professionali, costituiscono fattori di crescita culturale, sociale ed economica e, soprattutto, di democrazia, e non possono non spingere verso l’aggiornamento anche dell’attuale disciplina in materia di riproduzione dei beni culturali. La normativa vigente, infatti, prevede che per riprodurre l’immagine di un bene culturale appartenente allo Stato, a una regione o a un comune sia sempre necessaria un’apposita autorizzazione e che sia inoltre ordinariamente dovuto un canone. La regola vale sia nel caso di riproduzione – per così dire – “dal vivo” del bene, sia ove si tratti di riproduzione di un’immagine già esistente, per esempio nel caso in cui si pubblichi una fotografia già esistente di un’opera d’arte sulla propria pagina di Facebook. Non solo, ma l’autorizzazione è rilasciata a titolo gratuito solo in caso di riproduzione “per uso personale o per motivi di studio”, senza che possa ritenersi del tutto chiaro se tale sia, ad esempio, la pubblicazione della foto su un blogo su un social network. Si tratta, con tutta evidenza, di una normativa che richiede di essere chiarita e messa al passo con i tempi, soprattutto ove si consideri che a un tale astratto rigore nel perseguire la pubblicazione di foto di beni culturali su internet da parte di privati cittadini non si associa, purtroppo, altrettanta capacità di trarre occasioni di introito, in favore dell’erario e, quindi, della collettività, dalle utilizzazioni commerciali dell’immagine dei beni culturali pubblici. Anche su tali aspetti, pertanto, è necessario e urgente un intervento normativo.

17. La tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale attraverso le nuove tecnologie.

Le nuove tecnologie possono e devono fornire un contributo importante per la valorizzazione del patrimonio culturale, favorendone la conoscenza e migliorandone la pubblica fruizione. In questo senso, assume certamente rilievo prioritario la promozione e il costante aggiornamento di applicazioni tecnologiche finalizzate a comunicare e a rendere fruibile il patrimonio culturale. 
Attraverso un sistema mirato di azioni da parte del Ministero, in stretta collaborazione con l’Agenzia per l’Italia digitale, è possibile e necessario individuare e sperimentare soluzioni innovative nel campo della comunicazione digitale, in particolare attraverso i social networks, in modo da mettere a disposizione di un pubblico sempre più vasto e con modalità semplici e accessibili l’enorme quantità di informazioni e di contenuti relativi al patrimonio culturale oggi in possesso del Ministero. 

18. La valorizzazione del patrimonio culturale quale fattore dello sviluppo territoriale.

Va segnalata, tra le azioni di prioritaria importanza che il Ministero è chiamato ad attuare nell’immediato, la realizzazione del Programma Operativo Interregionale “Grandi attrattori naturali, culturali e del turismo”, previsto nell’ambito dell’ASSE I “Valorizzazione e integrazione del patrimonio culturale” nelle regioni dell’obiettivo Convergenza (ossia Campania, Calabria, Puglia e Sicilia). Al riguardo, si rende necessaria la stipulazione degli accordi di programma con le regioni e l’adozione dei bandi di gara per i progetti programmati entro il 2013. 
Per la stessa finalità di valorizzazione del patrimonio culturale quale fattore dello sviluppo territoriale, occorre rafforzare la collaborazione con il Ministro per la coesione territoriale; ciò, in particolare, allo scopo di realizzare quattro/cinque progetti-pilota di sviluppo territoriale imperniati su risorse culturali emergenti e diffuse, attraverso azioni sistemiche volte a sollecitare una domanda qualificata di “territori culturali integrati”. 

19. Gli archivi e la conservazione delle memorie digitali. 

Gli archivi di Stato, spesso percepiti come strutture antiquate e che operano in favore di una ristretta cerchia di studiosi, sono, oggi, candidati a costituire strutture di eccellenza e all’avanguardia, in considerazione del ruolo fondamentale che essi sono chiamati ad assumere rispetto alla conservazione delle memorie digitali. Occorre ricordare che lo sforzo sempre maggiore della pubblica amministrazione nei confronti della dematerializzazione dei documenti e della digitalizzazione del patrimonio documentario già esistente pone oggi nuove sfide, poiché si rende necessario studiare e applicare strumenti, regole e prassi completamente nuovi, in grado di assicurare il perdurare nel tempo e la fruibilità a lungo termine dei documenti digitali, nonostante l’inevitabile obsolescenza delle tecnologie impiegate per produrli, riprodurli e conservarli. 
Assume quindi importanza strategica per il Ministero, nell’ambito del quale già oggi operano esperti di indiscussa professionalità nel settore dell’archivistica digitale, partecipare all’elaborazione e adozione di regole per la conservazione a lungo termine dei documenti digitali e dei relativi archivi, contribuendo all’iniziativa già avviata da parte dell’Agenzia per l’Italia digitale. In questa prospettiva, è necessario anche operare in raccordo con il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri al fine di attuare iniziative volte a rafforzare il ruolo degli Istituti archivistici nei confronti degli archivi correnti delle Pubbliche Amministrazioni nonché di quelli nativi digitali, secondo quanto previsto dal Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD). 
Sul piano normativo, va invece evidenziata l’opportunità, allo scopo di favorire la pubblica fruizione del patrimonio archivistico, di abrogare la norma che oggi esclude dalla consultazione tutti i documenti (anche non riservati) che siano stati versati agli archivi di Stato anticipatamente   rispetto al termine ordinario dei 40 anni dalla conclusione delle pratiche. 

20. Le Biblioteche, gli istituti culturali e il diritto d’autore. 

Va avviata la riforma dei principi e dei criteri che regolano il finanziamento delle istituzioni culturali, sulla base di una riflessione congiunta con i rappresentanti delle istituzioni stesse, al fine di abbandonare la logica assistenziale e dei finanziamenti a pioggia. Occorre favorire, invece, un sistema inclusivo che sostenga la capacità delle istituzioni di fare rete e che valorizzi in particolare quegli enti che siano in grado di dimostrare l’utilizzazione intensiva delle nuove tecnologie e l’erogazione di servizi avanzati, con particolare riferimento al prestito di documenti in digitale, al collegamento a banche dati, alla presenza su web con siti leggibili e 
regolarmente aggiornati. Appare, inoltre, necessario avviare una riflessione sull’opportunità 
dell’allineamento del valore dell’IVA per l’e-book e per le pubblicazioni in formato elettronico (attualmente al 21%) a quello previsto per le pubblicazioni in formato cartaceo (4%). Inoltre, in materia di diritto d’autore, è occorre prendere in considerazione la necessità di un intervento di normazione primaria per la tutela del format, non espressamente menzionato dalla legge sul diritto d’autore e la cui protezione è oggetto di decisioni giurisprudenziali non univoche. 

21. La cultura e lo spettacolo dal vivo. 

Per quanto attiene al settore dello spettacolo dal vivo, è noto che l’intervento statale – attuato attraverso il Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS) – vive un momento critico, in relazione alla più generale condizione di difficoltà di bilancio dello Stato. Il Fondo Unico per lo Spettacolo ha visto costantemente diminuire il proprio valore in termini reali. Dal 2001, anno in cui si attestava intorno ai 530 milioni di euro, si è ridotto costantemente fino ad arrivare quest’anno a meno di 390 milioni di euro (passando dallo 0,083 del PIL del 1985 allo 0,029 del 2011). 
Tra gli obiettivi prioritari non può, dunque, non annoverarsi quello del reperimento di risorse aggiuntive pubbliche, anche eventualmente a mezzo di incentivi fiscali. Questa richiesta non può andare disgiunta da una forte proposta di riforma finalizzata a dare maggiore efficacia ed efficienza al sistema. 

22. Il completamento della riforma delle fondazioni lirico-sinfoniche. 

Le 14 fondazioni lirico-sinfoniche sono state interessate dall'avvio della riforma del settore iniziata con il decreto-legge n. 64 del 2010. Il quadro normativo vigente applicabile alle fondazioni lirico-sinfoniche è infatti assai articolato componendosi di un insieme frastagliato di norme che, già di per sé, rende difficile l’operatività degli enti. E’ a tal proposito in corso di esame – nella fase di richiesta di parere del Consiglio di Stato – uno schema di regolamento di riforma approvato in primo esame dal precedente Governo nello scorso mese di dicembre. Questa proposta tende a rendere più efficiente l’organizzazione delle fondazioni lirico-sinfoniche e a definire la loro nuova struttura ordinamentale. Prevede in particolare l’ampliamento dell’autonomia statutaria delle al fine di consentire alle Fondazioni di dotarsi di una struttura organizzativa più rispondente ai propri bisogni. Gli obiettivi prioritari perseguiti da questo schema di riforma sono la razionalizzazione dei costi di gestione, anche attraverso l’introduzione di un unico livello di contrattazione aziendale, l’elaborazione di nuovi criteri e percentuali di ripartizione del contributo a favore delle Fondazioni lirico-sinfoniche al fine di incentivare un aumento dell'offerta al pubblico di spettacoli con contenimento dei costi di gestione, l’introduzione di adeguate semplificazioni normative. 

23. L’assegnazione dei contributi per lo spettacolo. Verso la definizione di nuove procedure semplici e trasparenti. 

Un altro settore di intervento riguarda la ridefinizione dei decreti ministeriali che dettano i criteri di assegnazione dei contributi alle attività musicali, teatrali, di danza, circensi e dello spettacolo viaggiante. Si tratta di atti risalenti al 2007 che richiedono un opportuno aggiornamento. La Direzione generale per lo spettacolo dal vivo ha già avviato un proficuo colloquio con le categorie interessate nell’intento di raccogliere le esigenze operative e di semplificare le modalità di assegnazione dei contributi. Il fine perseguito da questa riforma è quello del rilancio della centralità dello spettacolo dal vivo per l'innovazione della cultura italiana, anche mediante il reperimento di fondi pubblici e privati, l’ottimizzazione delle risorse e l’individuazione di criteri per l'assegnazione nel rispetto del principio della trasparenza; l’introduzione di idonee semplificazioni normative, la chiarificazione sull'adeguamento al settore dello spettacolo dal vivo tutto degli adempimenti in tema di trasparenza e di monitoraggio dei conti pubblici. Un altro tema importante, sul quale sarebbe utile un approfondimento in questa sede parlamentare, riguarda l’assoggettamento degli enti lirici e teatrali alle norme sulla spending review, ciò che spesso è avvenuto in base a un’acritica e discutibile collocazione di tali enti all’interno dell’elenco ISTAT, con effetti inconciliabili con 
l'ambito produttivo di riferimento. Tale scelta dell’amministrazione finanziaria ha generato diffuso contenzioso e ha obbligato molti enti a riversare all'Erario parte delle risorse già assegnate. Inoltre, con riferimento al settore dello spettacolo dal vivo, è necessario dare spazio e riconoscimento adeguato anche alle forme espressive e musicali diverse 
rispetto alla musica lirica e sinfonica.

24. La “Biennale della Cultura popolare”. Un impegno in favore del patrimonio culturale immateriale. 

E’ noto che le espressioni di identità culturale collettiva sono oggetto di due Convenzioni UNESCO, recepite dall’Italia: quella del 3 novembre 2003 per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e quella del 20 ottobre 2005 per la protezione e la promozione delle diversità culturali. Tuttavia, fino ad oggi, il nostro Paese non ha dedicato una particolare attenzione ai beni culturali immateriali, limitandosi a proteggere – attraverso la disciplina di tutela del Codice dei beni culturali e del paesaggio – le testimonianze materiali legate alle espressioni di identità culturale collettiva, ossia gli oggetti che costituiscono lo strumento o l’oggetto del manifestarsi di quelle espressioni. E’ quindi evidente la necessità di un maggiore impegno in questo ambito, anzitutto dando spazio e visibilità alle espressioni di identità culturale in quanto tali, e non soltanto in relazione alle cose con cui e su cui si esplicano. In questo senso, un’iniziativa certamente da varare è l’inaugurazione di una “Biennale della cultura popolare”, che rappresenti un’occasione di rappresentazione, sperimentazione, studio 
e divulgazione della cultura immateriale, quale fondamentale fattore identitario e, al contempo, di crescita culturale della collettività. 

25. Il cinema. La necessità di nuovi interventi ordinamentali. 

L’attuale situazione del cinema italiano, con riferimento a tutte le componenti artistiche, tecniche e imprenditoriali, richiede – sotto l’aspetto del rapporto con lo Stato, ed in particolare del MiBAC – una serie di interventi immediati, di tipo “ordinamentale” e di tipo economico-finanziario. Al riguardo, è necessario promuovere il coinvolgimento, accanto alla Direzione 
generale per il cinema del Ministero, anche di esperti e operatori del settore, attraverso l’indizione degli “stati generali del cinema”, in modo da favorire il contributo di idee e di soluzioni che possano effettivamente rilanciare sia l’industria cinematografica che la fruizione pubblica delle opere cinematografiche. Vi sono, peraltro, una serie di iniziative la cui necessità e urgenza sono, già oggi, evidenti e universalmente condivise. Si rende necessario, anzitutto, il rinnovo del tax credit per il triennio 2014-2016. Attualmente, il beneficio fiscale ha una scadenza prevista al 31 dicembre 2013. 
Si rende, quindi, necessaria e urgente una disposizione di proroga. L’urgenza è legata al fatto che quella cinematografica, soprattutto con riferimento alle produzioni internazionali interessate a girare in Italia, è un’attività con cicli di programmazione lunghi che, pertanto, necessita di avere con sufficiente anticipo un quadro certo delle risorse e opportunità a disposizione per operare sul mercato. E’, inoltre, indispensabile un intervento straordinario per favorire la digitalizzazione degli schermi delle piccole e piccolissime sale cinematografiche, 
urgentissimo in quanto, a partire dal 1° gennaio 2014, la diffusione delle copie di film 
in sala diverrà (a causa della fine della produzione di pellicola su scala mondiale) solo digitale, e ciò significa che circa 1000 sale (il 25-30% del “parco” italiano), che non hanno le risorse finanziarie sufficienti per gli interventi tecnici, potrebbero venire tagliate fuori dal mercato, con grave danno per la diffusione del cinema, in particolare d’autore, soprattutto nei piccoli centri del Paese. E’, parimenti, necessario e urgente che il Ministero per i beni e le attività culturali promuova, in accordo con il Ministero degli affari esteri, azioni in ambito europeo al fine di escludere il settore audiovisivo dal “Transatlantic trade and investment partnership agreement” tra Unione europea e Stati Uniti, in modo, così, da evitare che l’industria culturale cinematografica e l’intero settore audiovisivo europeo possano essere progressivamente marginalizzati dalle grandi compagnie statunitensi. Tra gli interventi di medio periodo, si rendono, inoltre necessari: l’allargamento del campo d’azione del Ministero dal mero settore cinematografico a tutto il settore delle produzioni audiovisive, come ad esempio i film e le serie per le tv e per il web; il riordino del comparto audiovisivo, mediante un intervento normativo che chiarisca gli ambiti di competenza dello Stato rispetto a quelli delle Regioni e 
degli altri enti territoriali; il potenziamento della lotta alla pirateria, in particolare quella digitale; l’approfondimento del tema dei rapporti tra cinema e televisione, anche al fine di valutare la necessità di un intervento normativo finalizzato a favorire la nascita di produttori indipendenti; l’elaborazione di una nuova disciplina della revisione cinematografica, incardinata sulla tutela dei minori; la razionalizzazione del sistema normativo e amministrativo concernente l’autorizzazione per l’apertura di nuove sale cinematografiche; il miglioramento dell’utilizzo delle risorse comunitarie in favore del settore cinematografico; l’introduzione di un nuovo meccanismo di finanziamento degli strumenti di intervento nel settore cinematografico ed audiovisivo, in particolare valutando la possibilità di introdurre un sistema di prelievo sulla filiera che alimenti fondi destinati a sostenere la produzione di cinematografica ed audiovisiva e che includa, tra i soggetti da considerare, oltre alla sala e alle televisioni, anche le Telecom e gli aggregatori di contenuti in internet; la messa a punto di una strategia per incentivare ed esaltare le sinergie fra cinema/audiovisivo e turismo, nell’ottica della promozione dell’immagine dell’Italia attraverso il cinema italiano e, soprattutto, attraverso il cinema internazionale girato in Italia. 

26. L’organizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali. Il recupero di efficienza delle strutture e dei processi.

26.1 Ripristino degli organismi collegiali soppressi a seguito della spending review.

Tra le priorità vi è poi il ripristino della piena funzionalità degli organismi collegiali di altissimo profilo scientifico del Ministero. Alcuni di essi, come i Comitati tecnico scientifici, sono infatti già cessati a seguito dell’entrata in vigore della spending review, mentre il prestigioso e autorevolissimo Consiglio superiore per i beni culturali e paesaggistici si trova oggi ad operare i n una composizione incompleta, in quanto i Presidenti dei soppressi Comitati dovrebbero farne parte quali membri di diritto. Inoltre – e soprattutto – il regime introdotto dal decreto legge n. 95 del 2012, prevede che, in ogni caso, gli organismi collegiali o peranti presso le Pubbliche Amministrazioni siano tutti, indistintamente, soppressi alla prossima  scadenza, con assegnazione delle relative competenze agli uffici delle amministrazioni presso cui operano. Si tratta di un regime troppo rigido e cieco, perché l’operatività di questi Organi è indispensabile, considerato che essi sono chiamati per legge a esprimere pareri obbligatori. In assenza del ripristino degli organismi cessati l’Amministrazione si vedrebbe verosimilmente costretta a ricorrere a consulenti esterni, con aggravio dei costi per la collettività e garanzie di professionalità e indipendenza certamente non maggiori. 
Questo tema riveste, peraltro, un’importanza particolare per il settore dello spettacolo dal vivo. Infatti, ove gli organismi operanti in questo ambito dovessero cessare definitivamente alla scadenza, la Direzione generale del Ministero si troverebbe a dover esercitare tutte le relative competenze. Ciò comporterebbe in alcuni casi la devoluzione all’Amministrazione di attività caratterizzate da notevole discrezionalità tecnica, che uffici di per sé amministrativi non hanno finora mai svolto, con notevole rischio, tra l’altro, di un aumento del contenzioso in materia di assegnazione dei contributi a decorrere dal 2014, e anche a discapito dei principi di trasparenza e terzietà che hanno ispirato le ultime riforme in materia di Pubblica Amministrazione. Anche con riferimento alla Commissione per la revisione cinematografica (c.d. “Commissione censura”) non è seriamente ipotizzabile la devoluzione delle competenze alla Direzione generale per il cinema, a meno di non dotare quest’ultima delle risorse necessarie per valersi di specialisti ed esperti in grado di valutare tecnicamente l’idoneità delle opere cinematografiche alla visione da parte dei minori. 

26.2 Riorganizzazione del Ministero a seguito della riduzione delle dotazioni organiche. 

L’attuazione delle disposizioni della spending review ha determinato, anche per il Ministero per i beni e le attività culturali, la riduzione della dotazione organica, passata da 21.232 a 19.132 unità. Nell’ambito di tale complessiva riduzione, si segnala, inoltre, che i posti di funzione dirigenziale generale sono passati da 29 a 23 e i posti di funzione dirigenziale non generale da 194 a 162. Si rende, a questo punto, necessaria una accurata ridefinizione dell’assetto organizzativo del Ministero, in funzione dei tagli già apportati alla dotazione organica. 
In questa prospettiva, un apposto gruppo di lavoro procederà a indicare le proposte per un più efficace assetto strutturale degli Uffici, anche mediante la modernizzazione dei procedimenti e dei flussi informativi e amministrativi. È indispensabile, infatti che l’elevata professionalità dellerisorse umane del Ministero possa esplicarsi con piena funzionalità, secondo moduli operativi agili e veloci.

Musées (em)portables 3a edizione. Un accordo con l'Associazione Nazionale Piccoli Musei

Dal blog Piccoli Musei di Giancarlo Dall'Ara: Piccoli Musei: Musées (em)portables 3a edizione. Un accordo con l...




L’Associazione Nazionale Piccoli Musei ha accolto con entusiasmo l’invito rivolto da Museumexperts, ad essere partner internazionale della manifestazione Musée (em)portables, il grande evento - giunto alla terza edizione - che ha lo scopo di avvicinare i visitatori ai musei attraverso i più usuali strumenti di comunicazione: i cellulari. 
Caterina Pisu, coordinatrice APM, sarà nella giuria che sceglierà i video realizzati dai visitatori dei musei, che saranno premiati. Con la bella esperienza fatta in Italia con #Invasionidigitali sono certo che il nostro Paese potrebbe aggiudicarsi un premio!

Giancarlo Dall'Ara dal blog Piccoli Musei: Musei e volontariato. Caterina Pisu fa chiarezza

Piccoli Musei: Musei e volontariato. Caterina Pisu fa chiarezza: Caterina Pisu, Coordinatore Ricerca e Comunicazione dell'Associazione Nazionale Piccoli Musei, che sul suo blog e sulla sua pagina Fa...

Un dibattito costruttivo

Il dibattito su La Notte dei Musei e l'impiego dei volontari, animato da Alessandro D'Amore sul suo blog http://leparoleinarcheologia.wordpress.com/, e dalla sottoscritta, da queste pagine, non è passato inosservato e si spera che abbia offerto soprattutto lo spunto per una disamina del problema più serena e costruttiva. 
A tale proposito, ringrazio Sara De Carli che su Vita.it ha riportato alcuni stralci delle opinioni espresse da me e dal collega D'Amore nei nostri rispettivi blog.  

Ancora a proposito di #no18maggio


Prosegue il dibattito sull'opportunità o meno di dare vita ad una protesta degli archeologi collegata alla Notte dei Musei del prossimo 18 maggio.
Per leggere l'inizio della discussione vi rimando al link:

Caro Alessandro, è un piacere avere l’opportunità di discutere questi temi così importanti che purtroppo spesso sono ignorati dall’opinione pubblica. Questo è anche il motivo per cui sono dispiaciuta che queste energie siano state bruciate per una occasione che a mio parere non riuscirà a mettere in evidenza i problemi reali della nostra professione e che, come ho già scritto, potrebbe dimostrarsi fuorviante per i media e per il pubblico in generale. 
In questi giorni mi è capitato di leggere alcuni articoli postati su blog o sui giornali locali in cui l’appello del MiBAC  è interpretato da tutti come rivolto ai professionisti che sarebbero stati invitati a prestare il proprio lavoro gratuitamente. Non è così, perché il MiBAC si è rivolto alle associazioni di volontariato e non ha certo indetto un bando per chiamare archeologi, storici dell’arte, ecc., a prestare la propria opera a titolo volontario e gratuito. Questo il testo dell’appello del 23 aprile:  «Apriamo alla collaborazione del mondo del volontariato per migliorare la fruizione del patrimonio culturale durante la Notte dei Musei 2013. Per maggiori dettagli potete chiamare al numero di tel. 06/67232197». Non si cercano professionisti e questo è il punto. Come poter innestare una protesta efficace su un comunicato che, in concreto, non richiede alcuna prestazione professionale altamente specializzata? Il ricorso ai volontari in queste occasioni, continuo a ripeterlo, è una consuetudine che non scandalizza nessuno in ogni parte del globo. Ho fatto una ricerca su internet in inglese e, se non mi è sfuggito qualcosa (potrebbe anche essere naturalmente), non ho trovato casi di contrasto tra volontari e professionisti in altre parti del mondo. Probabilmente perché compiti e competenze sono ben chiare e distinte. 
Nessuno impedisce a uno studente di archeologia o anche ad un neo-laureato di fare un po’ di esperienza mediante il volontariato, anzi, in alcuni casi può anche essere una opportunità formativa interessante, ma questo non vuol dire farsi sfruttare. Lo diventa se il laureato, una volta acquisita coscienza della sua professionalità continua a prestare la propria opera gratuitamente. Ma questa, allora, è una responsabilità personale. 
Credo che siano molto più diffusi e molto più gravi, piuttosto, i casi di archeologi sfruttati, questo sì che è un termine che si può usare, da cooperative che sottopagano i propri collaboratori o che talvolta si dimenticano perfino di remunerarli. Questo non è volontariato, è sfruttamento del lavoro professionale, ed è contro queste realtà che bisogna reagire con forza, per esempio cercando di organizzarsi sindacalmente, dato che, se non mi sbaglio, per ora il lavoro dell’archeologo nei cantieri di scavo è regolato dalle norme che riguardano il comparto edile, e forse bisognerebbe pensare a proteggere la categoria con norme più specifiche e adeguate. E se ci fosse una tutela sindacale specifica si potrebbe anche impedire alle associazioni di volontariato archeologico di svolgere compiti che esulano dagli ambiti del puro volontariato e che sottraggono occasioni di lavoro ai professionisti. 
Tutto questo per sottolineare che la questione degli archeologi è molto complessa e non può essere banalizzata con un slogan sbagliato che penalizza ulteriormente la dignità della nostra professione, paragonandola a occupazioni molto meno specializzate. Non si tratta di creare dei “compartimenti stagni”, ma di definire correttamente il ruolo e le competenze di un archeologo. Faccio un esempio: un medico se vuole, per necessità o per stravaganza, può anche fare il portantino, ma ciò non significa che questa “anomalia” determini un’estensione delle funzioni del medico alle pulizie degli ambulatori, che diventano conseguentemente un compito suo di diritto. Questo non significa essere “elastici”, vuol dire creare il caos. 
E chi scrive è una persona che ha vissuto il disagio essere stata sottostimata per la propria professione, sentendosi dire perfino da un sindaco che “quella dell’archeologo è una professione curiosa”. Puoi ben immaginare se io non sono indignata quanto voi per la poca stima che circonda la nostra categoria. Proprio per questo considero #no18maggio un’occasione sprecata in cui non c’è stata ponderazione ed è mancata una vera pianificazione che lanciasse una protesta comprensibile e capace di colpire nel segno. A me è sembrato che sia prevalsa soprattutto l’emotività e forse anche un po’ di improvvisazione. Una protesta incisiva necessita di altre premesse e, soprattutto, la circostanza in cui svolgerla deve essere scelta con la massima cura perché sarà questa a caratterizzare il movimento di protesta. Per me #no18maggio continua ad essere una scelta infelice e non un’occasione colta al volo.
Se vogliamo davvero che “il Paese si riappropri della sua Storia e anche del Valore economico che questo, di fatto, costituisce per restituirli ai Cittadini tutti”, non possiamo impedire che i volontari offrano il loro contributo soprattutto in queste occasioni, proprio perché la cultura deve essere partecipativa. E i musei, se non hanno bisogno di dieci custodi perché durante il resto dell’anno possono conteggiare solo un numero esiguo di visitatori, devono per forza ricorrere ai volontari in occasioni straordinarie. 
E’ necessario un maggior controllo istituzionale questo sì, perché, all’opposto, è inammissibile che musei che hanno due visitatori al giorno, abbiano uno staff di 20 custodi, come è stato messo in rilievo dalla stampa riguardo il caso dei musei della Regione Sicilia, nel 2011. A volte il ricorso ai volontari, quindi, rappresenta anche un risparmio di denaro pubblico. Si può obiettare, invece, quando musei di una certa importanza (chiaramente non mi riferisco ai piccoli musei civici o ai musei privati) utilizzano continuativamente i volontari, ma qui si entra in questioni che riguardano la gestione dei musei che sono troppo complesse per poter essere affrontate in poche battute. In questi giorni ho letto affermazioni estreme quali: “se i musei non possono assumere personale (riferendosi alla Notte dei Musei!) allora che restino chiusi”. Ma ci si dimentica che la guardiania è spesso affidata alle società che gestiscono i servizi aggiuntivi ed è da queste che bisognerebbe pretendere l’assunzione di personale, cosa che non sarà facile dato che queste società devono necessariamente far quadrare i propri bilanci. E’ molto recente, per esempio, la notizia delle difficoltà di Zétema che, pur essendo a rischio di scomparire, “vittima” della spending review, è stata criticata proprio per aver assunto 22 custodi in questo clima di incertezza. Personale che a breve resterà senza lavoro.
E’ molto difficile, quindi, dar vita ad una protesta che riguarda la categoria degli archeologi, facendola poggiare su un terreno ancora più complicato e insidioso, come quello museale. Mi concentrerei, piuttosto, sui problemi che riguardano molto più direttamente l’ambito archeologico e che sono già sufficienti per avanzare lamentele più che fondate. 
Non intendo, con questo, convincere nessuno di coloro che entusiasticamente aderiscono a #no18maggio, ma spero almeno di aver fornito qualche spunto per ampliare il dibattito e pensare ad azioni future maggiormente mirate.

Grazie per l'opportunità che mi hai dato di replicare e di dare vita a questo interessante dibattito!

Caterina

Musei liberi e non politicizzati: la realtà britannica




di Caterina Pisu


Nel 2001, la giornalista e scrittrice Josie Appleton, scrisse un articolo che potrebbe sembrare disorientante per i museologi, in maggioranza assertori convinti dell’importanza del ruolo di mediazione e di inclusione sociale dei musei nell’ambito delle comunità. 
In realtà, un po’ di autocritica non fa mai male e allora mi sembra opportuno riportare qui il pensiero della Appleton che, a distanza di anni, può risultare ancora di una certa attualità, sebbene le sue considerazioni facciano specifico riferimento all’ambito britannico e ad un determinato momento storico.

Il tema che oggi propongo è il primo di una serie che desidero dedicare al ruolo sociale dei musei, in vista del Quarto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei, in programma ad Assisi 11-12 novembre 2013, in cui si affronterà, tra gli altri, anche questo argomento, in relazione ai cosiddetti “musei di quartiere” (v. qui il programma provvisorio).

Nell’articolo intitolato “Museums for the people”,  pubblicato su http://www.spiked-online.com/site/article/10827/, la Appleton si chiedeva perché l’inclusione sociale fosse diventata una delle finalità perseguite dai musei, in realtà non per una spinta venuta dall’interno del settore museale, ma a seguito della politicizzazione dei musei (si fa riferimento, come già accennato, al Regno Unito).
A seguito della pressione del governo New Labour, infatti, non solo musei e gallerie, ma anche altre istituzioni pubbliche, come gli ospedali, le università e le scuole, furono incoraggiati a considerare l’inclusione sociale come una delle proprie funzioni essenziali. Fu così che i musei cominciarono a riorganizzarsi cercando di occuparsi il più possibile delle relazioni con la comunità.
Per la Gran Bretagna dei New Labour la parola “inclusione sociale” sembrava essere di gran moda, ma restava comunque un concetto oscuro, non pienamente compreso, che nasceva piuttosto da un’ansia del pericolo di frammentazione sociale e dalla possibilità che potessero esistere individui isolati, senza un proprio scopo nella vita, e che quindi dovevano assolutamente essere aiutati. Laddove esistono persone abbandonate a se stesse è più alto, infatti, il livello di criminalità, più basso il livello culturale e la pratica di attività sportive. In sostanza, si possono creare situazioni o fasce sociali in cui la qualità di vita è molto bassa.

Per ovviare a questo inconveniente, il Dipartimento britannico per la Cultura, i Media e lo Sport (DCMS), adottò una strategia che vedeva i musei e le gallerie coinvolti in prima linea nell'impegno sociale, tesi a responsabilizzare le persone nel saper individuare il loro posto nel mondo e nel riuscire a svolgere un ruolo attivo nella società.

Il Group for Large Local Authority Museums (GLLAM) sostenne questa strategia, nella convinzione che i progetti di inclusione sociale generino maggiore autostima, fiducia e creatività, contribuendo a sviluppare una vita sociale più attiva e soddisfacente.
Ma perché i musei hanno così prontamente adottato tra le proprie funzioni primarie, l’inclusione sociale? Forse perché, secondo la Appleton, la professione museale in quel momento, quando il partito del New Labour saliva al potere, stava vivendo uno stato di profonda crisi e di confronto aspro con il resto della società.
I musei avevano un grande bisogno di auto-giustificare la loro esistenza perché per almeno una decina d’anni erano stati messi sotto processo dalla società per il loro ruolo di “badanti” e per la loro troppo stretta connessione con lo studio e l’interpretazione di “oggetti”, che li aveva tenuti isolati dalla concretezza della vita reale.  
Le critiche erano state talmente dure che, a destra, l’ex Primo Ministro Margaret Thatcher aveva definito i musei “inutili”, e pertanto aveva cercato di “modernizzarli” e di renderli più “efficienti”, introducendo le logiche del marketing per la loro gestione e per la valutazione dell’efficacia del lavoro svolto. A sinistra, invece, si continuava ad attaccare i musei, considerandoli istituzioni tenute in vita da élite ideologiche che tendevano ad escludere le masse.
A questo punto, il Dipartimento per la Cultura, i Media e lo Sport dovette affrontare con decisione la crisi di identità dei musei. L’ordine del giorno fu, oltre che rendere esplicita la volontà di politicizzare i musei, il suggerimento di individuare, ogni anno, un tema sociale da mettere in luce e approfondire attraverso mostre o altri eventi di questo tipo.
Durante gli attacchi rivolti alla categoria, molti professionisti museali erano rimasti in silenzio. Forse erano talmente demoralizzati che i progetti di inclusione sociale a quel punto sembravano necessari non solo al pubblico ma soprattutto a se stessi. Grazie a questi progetti, infatti, il personale dei musei cominciò a sentirsi più utile e necessario, e a ritrovare nuove energie. Qualcuno affermò di sentirsi “più connesso”, “più integrato” nell'ambito della comunità, forse più vicino alla realtà di quanto non fosse prima, quando si occupava solo delle collezioni espositive.
Ma questa nuova funzione del museo era realmente un bisogno dei professionisti museali e della società o era stata imposta dall'esterno, dopo la demolizione del vecchio modello di museo, e poi attivamente promossa dalle nuove élite museali?
Nel Regno Unito le nuove generazioni di dirigenti museali avevano ricevuto la loro formazione soprattutto nei master della Leicester University; alcuni di essi provenivano dagli studi storici sociali che avevano una chiara impronta di sinistra e avevano iniziato le loro esperienze professionali presso i musei di enti locali. Essi propendevano, dunque, alla partecipazione attiva della gente comune nelle attività promosse dai musei.
Consentire ai visitatori di diventare una parte importante del lavoro di un museo o di una mostra, venne visto come una necessaria e radicale trasformazione dei musei in direzione dei bisogni della società.
Peter Jenkinson sembrava quasi citare “Stato e rivoluzione” di Lenin quando descriveva le “fasi della caduta del potere” dei professionisti museali conclusasi con la soluzione finale più radicale, forse utopica, della creazione di un museo veramente autonomo e popolare,  non più in mano ai professionisti museali.
E’ curioso – afferma la Appleton - che i musei specialistici potessero ipotizzare addirittura l’eliminazione dei professionisti museali a favore di una gestione collettiva dei musei!
In realtà, lungi dal determinare trasformazioni sociali così radicali, questi progetti hanno avuto il merito soprattutto di far sentire meglio le persone con se stesse. Nel contesto storico del declino industriale, la storia sociale dei musei aveva contribuito a rinnovare l’orgoglio della gente attraverso la riscoperta e il racconto delle loro storie, proprio nel momento in cui sembrava che l’orgoglio non esistesse più.
E’ significativo che nel 1983, nonostante fosse stato perso un referendum promosso per tentare di tenere aperto un museo a cielo aperto in un villaggio minerario del Galles, l’anno seguente fu ugualmente istituito un museo del villaggio che evidentemente era considerato irrinunciabile per i curatori e gli amministratori della cittadina. Il curatore Gaynor Kavanaugh affermò che “essere senza storia è come essere ignorato e dimenticato. Un posto riconosciuto nella storia significa ritrovare la propria autostima e i propri valori”. 
Bill Silvester, che aveva istituito the Abbeydale Industrial Hamlet  a Sheffield nel 1970, disse a sua volta che “l'idea era di dare un museo ai lavoratori e ai loro figli, con lo scopo di ripristinare l'orgoglio, troppo spesso negato o rubato da altri, e di lasciarlo in eredità”.
I progetti di inclusione sociale hanno sempre cercato, dunque, di trasmettere la percezione che la collezione del museo appartenga ai membri della comunità, i quali hanno contribuito a raccontare la propria storia e quella del proprio territorio.
Il punto è che cosa succede quando i progetti di inclusione sociale diventano parte di un programma di governo. A questo punto non è più il direttore di un museo che autonomamente decide di aumentare l’autostima degli individui della comunità in cui opera, ma le nuove élite museali promuovono questi progetti per veicolare le politiche governative in ambienti per lo più  a rischio.
E la Appleton a questo proposito cita, come esempio, il progetto tessile per le donne asiatiche del Birmingham Museum and Art Gallery che, con il pretesto di coinvolgere le donne nella creazione di tessuti ispirati alle collezioni del museo, ha operato un’indagine tra esse incoraggiandole a parlare della loro salute mentale. Sarebbe stato difficile, infatti, che queste donne si rivolgessero spontaneamente a degli assistenti sociali, ma un’attività culturale  ha facilitato questo lavoro di utilità sociale.
E si possono citare anche altri casi di progetti simili rivolti a varie categorie sociali “a rischio”. Questa trasformazione del ruolo del museo all'interno della società trasforma inevitabilmente anche i contenuti del museo: i progetti di integrazione sociale, in pratica, potrebbero anche ignorare le attività su cui è stato "costruito" il museo stesso. Il rischio, allora, è quello di creare una distorsione dei principi fondamentali sui cui poggia l'istituzione museale. Il ruolo tradizionale del museo, di raccolta, studio ed esposizione dei manufatti, ha sempre avuto una solida base nella società; i collezionisti e l’establishment accademico sono stati coinvolti in questa attività e hanno sviluppato gli standard e le modalità di valutazione del lavoro dei professionisti museali. Ciò ha dato al museo una struttura ben definita, una sua ragion d'essere, e in tutto questo l’esposizione degli oggetti era la base sostanziale attraverso la quale il museo si metteva in relazione con il suo pubblico.
 Oggi, la funzione di inclusione sociale, essendo stata presa in consegna dalla politica - afferma la Appleton, può apparire poco ben definita, priva di un senso di direzione chiaro, non fondata su pratiche sperimentate e consolidate. Ciò determina spazi di interpretazione troppo ampi e talora ambigui. 
Il Rapporto del Group for Large Local Authority Museums sull'inclusione sociale, che fa riferimento all'ambito dei musei locali che sono in prima linea in iniziative di questo tipo, riferisce che “la definizione di inclusione sociale è problematica; è 'difficile da vedere e difficile da cogliere nel suo insieme; è un concetto che può essere definito e utilizzato variamente dal governo e dai diversi enti locali”.
Quando un concetto è “sfumato” o “sfocato”, la tentazione è quella di usare il righello per definirlo meglio. Il Group for Large Local Authority Museums ritenne che fosse necessario dare impulso a studi trasversali per precisare innanzitutto lo spettro d’azione più coerente in cui poteva essere attuata una politica di inclusione sociale, cercando poi di puntualizzare le metodologie e gli standard di lavoro da utilizzare in questo ambito. E’ vero, però, che anche il sistema più elaborato e preciso che sia in grado di misurare l’impatto sulla società dei progetti di inclusione sociale, non risolverà il nodo fondamentale che è quello delle motivazioni.
Le comunità, infatti, sono formate da persone che decidono spontaneamente se condividere alcuni aspetti della loro vita, non dietro una sollecitazione “ben orchestrata” e, soprattutto, con finalità politiche.
La conclusione della Appleton è dunque che sia i politici che i musei sarebbero fortemente aiutati in questo discernimento  se la politica cominciasse ad apprezzare i musei innanzitutto perché essi esistono e sono una realtà concreta, inserita nelle nostre società, cui non è necessario imporre dall'alto la direzione da seguire.

Specialmente in quest’ultimo punto mi trovo molto d’accordo con Josie Appleton. I cambiamenti culturali non si possono imporre con un decreto governativo, ma i musei, se sono percepiti come espressione e memoria della collettività, potranno trovare in se stessi le motivazioni per una trasformazione più o meno radicale, alla ricerca di modelli più adeguati ai tempi ed anche alle nuove esigenze sociali, senza rinunciare alle proprie peculiarità. 

I governi si dovranno preoccupare soprattutto di sostenerli con risorse adeguate e di favorire l'apporto di sempre nuove energie professionali, ben qualificate. 

Una risposta al collega Alessandro D'Amore

Rispondo qui alla replica del collega Alessandro D'Amore al mio articolo "Muoia Sansone con tutti i Filistei". Il post di Alessandro può essere letto nel suo interessantissimo blog Le parole in archeologia.

Caro Alessandro, ho appena letto il tuo intervento, molto articolato, e che necessita, quindi, di una altrettanto compiuta risposta, anche per chiarire alcuni concetti che, soprattutto nel mio articolo pubblicato su ArcheoNews lo scorso autunno, citato nel mio precedente post, credo di aver in parte già focalizzato. 

Io non ho mai negato che possa esserci un impiego improprio del volontariato, e proprio perché il problema esiste, in occasione del IX Congresso Internazionale degli Amici dei Musei, tenutosi a Oaxaca, in Messico, dal 21 al 25 ottobre 1996 si evidenziò con particolare attenzione questo rischio: Evitare sovrapposizioni. Gli amici e i volontari possono trovare negli ambiti d’intervento non affidati al personale permanente del museo un terreno privilegiato in cui esercitare le loro iniziative e devono prestare attenzione onde evitare che le loro attività non si sovrappongano a quelle esercitate dal personale responsabile
Nel caso in cui questa clausola non venga rispettata, allora si è in pieno diritto di protestare e di esigere l’adempienza delle norme che regolano il lavoro dei volontari. 

Ora, il fatto che il MiBAC si sia appellato ai volontari per aiutare a tenere aperti i musei il 18 maggio, fornendo assistenza ai visitatori, significa invadere qualche specifico campo professionale? 
Si tratta di una funzione da archeologo o da storico dell’arte o da museologo o da antropologo? Non mi sembra. 

Il fatto, come tu dici, che nell’ultimo concorso MiBAC per assistenti alla vigilanza, il 90% dei partecipanti alla selezione fossero “archeologi specializzati, dottori di ricerca, parlanti fluentemente due o tre lingue”, non significa che quello sia diventato all’improvviso un lavoro da archeologo. 
E' la necessità di lavorare che costringe le persone non solo ad accontentarsi di fare i custodi nei musei, ma anche di fare i commessi nei supermercati o i venditori porta a porta, ma nessuno direbbe che quelli sono lavori che devono fare gli archeologi, e il fatto che il lavoro di custode si svolga in un museo non modifica questa realtà. In un museo si lavora anche nelle caffetterie o si fanno le pulizie o si gestisce il bookshop. Ma l'archeologia è un'altra cosa. 

Perciò, bisogna assolutamente evitare, innanzitutto, di creare confusione tra i vari ruoli, e i primi a farlo dobbiamo essere noi se non vogliamo che la nostra professione sia considerata inferiore ad altre che sono ritenute indispensabili per la società, e quindi molto più rispettate. 

Noi siamo archeologi, non custodi di museo, questo è il primo punto da mettere bene in chiaro. Quanto al significato del termine “volontario” rispetto all'altro termine “reclutato”, scusami, ma è una sottigliezza che non comprendo: i volontari devono essere informati della necessità del loro servizio e mi sembra che utilizzare i social networks sia un modo per raggiungere rapidamente un’ampia platea di persone. Niente di più, niente di meno.

L’unico appunto che si può fare al MiBAC è che, forse, impauriti dalla reazione dei professionisti al loro appello, non sono riusciti a mantenere la lucidità necessaria per fornire le corrette giustificazioni e hanno dato l’impressione di “annaspare” in acque agitate.

Il vostro errore, invece, a mio parere, è stato quello di organizzare una protesta che si fonda su argomentazioni sbagliate, perché in realtà la Notte dei Musei non c’entra proprio niente con i nostri problemi, che non sono certo legati all’impiego dei volontari in questa circostanza. 

C’è il rischio, come ho già detto, di creare confusione e contrapposizioni che non saranno comprese, perché è inutile che lo si neghi, ma se lanciamo un hashtag #no18maggio, significa che non vogliamo la Notte dei Musei perché il lavoro dei volontari abbiamo diritto di farlo noi! 

Questo è il messaggio che stiamo dando. E poi pretendiamo che la gente capisca che cos’è l’archeologia?

Perché non fare una protesta altrettanto vigorosa quando un concorso di dottorato si rivela non molto “trasparente” o quando in un concorso universitario per una docenza, la scelta cade sul candidato meno preparato? Perché si tace quando talvolta si viene trattati da “piccoli servitori” da alcuni docenti che sfruttano anche il nostro lavoro durante un dottorato? 
Io penso che tutto ciò sia molto grave, molto più grave di un volontario che viene chiamato a fare il custode in aiuto del personale strutturato. Eppure non si muovono le folle per questo tipo di ingiustizie che costringono tanti a lasciare la professione o a emigrare all’estero. 

Ma certo, se noi, dopo tanto studio e tanti sacrifici, ci accontentiamo di contendere il lavoro di custode nei musei ai volontari, allora vuol dire che forse noi stessi non abbiamo capito bene quali sono i reali problemi della professione. 

Caterina Pisu




"Muoia Sansone con tutti i Filistei"

L’amarezza per le situazioni critiche cui conduce una professione sfruttata e sottostimata come quella dell’archeologo o dello storico dell'arte non deve portare allo scontro con la cultura partecipativa: il caso della Notte dei Musei


di Caterina Pisu

In questo blog avevo già affrontato il tema del volontariato, per cui non ripeterò alcuni concetti fondamentali già espressi, che pure sono importanti per capire l’origine e l’importanza del volontariato come anche alcuni aspetti ambigui che riguardano non tanto il volontariato in sé quanto il suo utilizzo improprio, ma vi rimando, per questo, alla lettura del mio articolo.

L’argomento è diventato ancora più attuale da quando il MiBAC, dalla propria pagina Facebook,  tempo fa ha lanciato un appello alle organizzazioni di volontariato affinché si rendessero disponibili durante la Notte dei Musei 2013, che si svolgerà il prossimo 18 maggio.

La notizia ha provocato l’immediata reazione soprattutto di archeologi e storici dell’arte che hanno interpretato l’appello come l’ennesimo tentativo di sfruttare i professionisti della cultura.

In realtà l’apporto dei volontari in questa circostanza sarà unicamente di supporto al personale che, nei casi di afflusso di pubblico maggiore rispetto all’ordinario, potrebbe rivelarsi insufficiente, causando disagi soprattutto ai visitatori. 

Si tratta, quindi, di svolgere una semplice funzione di assistenza al pubblico, fornendo qualche spiegazione, così come fanno normalmente i custodi di un museo; niente che abbia a che fare con la professione dell’archeologo o dello storico dell’arte che, chiaramente, quando hanno la fortuna di lavorare, solitamente svolgono compiti completamente diversi e altamente specializzati.

Il primo aspetto negativo, dunque, è quello di ingenerare confusione nelle persone, le quali così accomuneranno la nostra professione ad altre che richiedono un minor grado di specializzazione. Certamente non tutti potranno capire come mai se gli operatori dei servizi di custodia non hanno avanzato vigorose proteste in questa circostanza, essendo i più diretti interessati all’impiego dei volontari nel loro ambito di lavoro, se ne siano preoccupati, invece, archeologi e storici dell’arte che normalmente svolgono compiti completamente diversi. Si tratta di una sorta di autogol, di una auto-dequalificazione del proprio ruolo professionale.

E allora da dove nasce la protesta? Certamente da un’onda emotiva. Il disagio dei professionisti della cultura è comprensibile: troppo spesso queste professioni sono sottostimate e sfruttate. Ma per mettere in atto una protesta che sia giustificata e, soprattutto, che sia chiara anche per il resto della comunità, non si poteva scegliere occasione peggiore. 

Innanzitutto, per quanto si sia cercato in vari modi di evitare di entrare in aperto contrasto con il mondo del volontariato, di fatto si vuole impedire che la cittadinanza possa compiere liberamente il proprio impegno civico, che è un diritto sancito dalla nostra Costituzione (Art. 2). Pertanto, in un periodo storico come l’attuale, in cui parole come “condivisione” e “partecipazione” sono sempre più sentiti come un’esigenza irrinunciabile, andare contro corrente è rischioso e attirerà antipatie verso la protesta di archeologi e storici dell’arte.

In secondo luogo, si è criticato perfino il modo con cui il MiBAC ha lanciato l’appello, cioè attraverso i social network. Questa affermazione sbalordisce ancora di più, soprattutto perché è pronunciata da chi, in genere, appartiene al “popolo del Web”, cioè da quelle generazioni che ormai sanno vivere con disinvoltura la comunicazione virtuale e ne conoscono i vantaggi in termini di veicolazione di contenuti e di notizie. Quali strumenti sono migliori e più democratici dei social network?

Il volontariato: in alcuni Paesi, come il Regno Unito, è uno "stile di vita" non in contrasto con il mondo professionale.

La sensazione è che questi professionisti, eterne vittime di una politica che ha sempre penalizzato le professioni culturali, vogliano trascinare nella “rovina” tutto il mondo della cultura. “Muoia Sansone con tutti i Filistei”, che importa se non ci saranno più eventi come la Notte dei Musei o altri simili, che hanno il pregio di coinvolgere tutti e di diffondere l’amore per il nostro patrimonio culturale?

Badate, non sono le motivazioni di base della protesta che sono sbagliate, ma lo è la circostanza! Su Twitter è stato lanciato l'hashtag #no18maggio che sarà interpretato come un veto ai volontari e come un tentativo di bloccare ogni forma di partecipazione attiva da parte della comunità.


Perché #no18maggio, ovvero “No alla Notte dei Musei”, un evento che si svolge in ogni parte del mondo con l’apporto prezioso dei volontari? Mi si spieghi che cosa c’entra questo con la causa degli archeologi e degli storici dell’arte. 



Ma attenzione, se non si sgombrerà il campo dagli equivoci e non si cercherà di essere più che convincenti, eliminando ogni rischio di confusione tra quelle che sono le reali funzioni di archeologi e storici dell’arte rispetto ai compiti di un volontario, sarà più difficile che in futuro i problemi della categoria possano essere compresi e condivisi dal resto della comunità.

I musei nell'era di Facebook e Twitter: istruzioni per l’uso


di Caterina Pisu




I musei moderni sono necessariamente obbligati a confrontarsi e ad adattarsi alla circolazione sempre più intensa di informazioni e di immagini attraverso il web? 
Un articolo di Yasmin Khan del giornale britannico The Guardian ha riportato il parere di alcuni esperti. Il dibattito è aperto e nel Regno Unito  ci si chiede a quale personaggio di Dickens si potrebbero paragonare, oggi, i musei britannici: a una Miss Havisham, imprigionata in un vecchio abito da sposa dentro una camera coperta di ragnatele, oppure all'imprenditore Fagin, preoccupato di aumentare la sua influenza sull’intera città? In Italia potremmo accostare una parte dei musei più tenacemente affezionati alla comunicazione tradizionale, a un Don Abbondio, timoroso di avventurarsi in situazioni più grandi di lui che metterebbero in pericolo le tranquille certezze del suo quotidiano.
Il The Guardian fa riferimento al convegno organizzato dall’Università di Leicester, "Museums in the Information Age: Evolution or Extinction?", svoltosi a Londra, presso il Science Museum, cui hanno partecipato alcuni esperti del settore museale. Si è cercato di capire se i musei stiano effettivamente rispondendo al progresso tecnologico nell’ambito della comunicazione o se, invece, siano in ritardo. Si è discusso soprattutto della necessità di adeguare i musei anche a nuove forme di fruizione dei beni culturali, grazie alla digitalizzazione delle immagini. A questo riguardo, Carole Souter, della Heritage Lottery Fund, ha affermato: - “I musei hanno bisogno di evolversi se vogliono mantenere un ruolo rilevante in questo particolare momento storico. Ciò vuol dire che devono anche essere attenti a quella parte di pubblico che non può venire fisicamente al museo, per esempio mettendo a disposizione online le collezioni esposte nel museo e dando la possibilità anche ai non esperti di partecipare alle discussioni postando i loro commenti”.
Per sua stessa ammissione, Ian Blatchford, direttore del Science Museum, afferma di avere sempre svolto il ruolo di “vecchio parruccone”, concordando sì con la necessità che il museo si orienti verso una evoluzione digitale, ma anche confutando la certezza che le mostre digitali possano realmente sostituirsi in modo efficace a quelle reali: - "La tecnologia digitale non dovrebbe in ogni caso modificare il senso di identità di un museo, le cui finalità e funzioni dovrebbero rimanere le stesse" - ha continuato Blatchford - "Molte delle attività tradizionali che si svolgono nei musei, come le borse di studio, la cura per le collezioni e le esposizioni museali, oggi sono più che mai rilevanti e si riflettono anche nella crescita del numero di visitatori."
In un'epoca in cui il flusso di informazioni è ridondante, l'autenticità e la fiducia hanno ancora più importanza per le persone.” - ha aggiunto – “Non dobbiamo scambiare quello che il pubblico vuole veramente con quello che noi pensiamo che dovrebbe volere.
D’altronde, “è nel DNA di un museo evolversi” - sostiene Ross Parry, docente presso la University of Leicester's School of Museum Studies. – “Il museo moderno ha inevitabilmente cambiato la sua struttura, alcuni aspetti legati alle sue stesse finalità e ai rapporti con il pubblico, così come l’impostazione intellettuale che dà senso alle sue collezioni. Probabilmente Robert Cotton, Hans Sloan, Henry Cole e Oppenheimer non riconoscerebbero più i musei che hanno contribuito a creare.”
Quest’ultima asserzione è assolutamente condivisibile: il museo è sempre stato lo specchio della società nel tempo; un museo ottocentesco non è più in grado di rappresentare le comunità dei nostri giorni. Ed essendo, la nostra, l’epoca della comunicazione globale, dovrebbe essere del tutto naturale, direi fisiologico, che i musei sentano la necessità di una maggiore interazione e capacità di dialogo con i visitatori e le comunità di riferimento, sebbene uno sguardo sereno e obiettivo non potrà non rilevare anche una enfatizzazione della questione, soprattutto in questi ultimi anni, sia in Europa che oltreoceano[1].
In parte, la necessità di allargare il proprio pubblico attraverso le tecnologie della web communication, potrà trovare le sue motivazioni anche nelle trasformazioni sociali degli ultimi decenni che hanno visto, e vedranno ancora di più in futuro, una considerevole contrazione demografica a fronte di un aumento del fenomeno dell’immigrazione nei Paesi industrializzati. E si è notato che questo fenomeno si accompagna all’instaurarsi di abitudini diverse, tra le quali un minor consumo culturale. Attraverso varie indagini condotte fino ad oggi, si calcola che entro 25 anni si avrà un collasso delle visite museali dell’ordine del 20% circa[2]. Anche l’impoverimento generale, dovuto alle gravi crisi finanziarie degli ultimi tempi, produrrà senza dubbio altri cambiamenti delle abitudini sociali che coinvolgeranno anche i musei.
Il bisogno di rinnovamento, quindi, è giustificato ed è realmente urgente trovare nuovi modelli di fruizione per salvare le tradizioni culturali, senza “mummificare” le nostre istituzioni museali ma anche senza sconvolgerne la naturale vocazione. Si è riconosciuta nella “rivoluzione del web 2.0” una delle “ciambelle di salvataggio” che potranno modernizzare rapidamente i musei, ma è necessario comprendere attraverso quali modalità ciò potrà avvenire. Il web 2.0 può essere anche un ambiente insidioso perché alla sua capacità di coinvolgere milioni di persone e di rendere la ricerca delle informazioni del tutto nuova rispetto a decenni fa (grazie alla possibilità di accedere simultaneamente a un gran numero di fonti, all’interscambio di dati e di contenuti, all’utilizzo degli strumenti del project management 2.0), si accompagna, simultaneamente, il rischio di autoreferenzialità o peggio di “protagonismo”, o  ancora il pericolo di restare affascinati da «strategie persuasive» prodotte dall’informazione che fa «rumore»[3]. E gli esempi più recenti ci vengono, per esempio, dalla politica. Grazie al web sono nati movimenti politici, sono scoppiate sommosse (il pensiero va alla primavera araba), e sempre più spesso la “piazza virtuale” si sostituisce agli ambiti istituzionali tradizionalmente vocati al dibattito politico. Ma possiamo dire che si tratta realmente di trasformazioni profonde del sistema politico o si è semplicemente sostituito il vecchio slogan che animava le manifestazioni degli anni Settanta e Ottanta con i più moderni “tweets”? Gli slogan, si sa, entusiasmano le folle, riescono a muoverle all’unisono sia che si tratti di compiere una rivoluzione sia che si debba semplicemente partecipare ad un flash mob; ma oltre questo ci deve essere qualcosa di più: contenuti, proposte, progetti. Altrimenti si rischia che gli slogan restino solo parole, e che le rivoluzioni si trasformino non in un cambiamento ma soltanto in uno spostamento di poteri da una forma di autorità tradizionale ad un’altra che è del tutto simile alla precedente se non peggiore.
In ambito culturale si può affermare che il rischio è più o meno simile. L’autoreferenzialità è un pericolo costante e può avere come conseguenza la diffusione di contenuti non corretti, ma ugualmente convalidati dall’approvazione del popolo del web. L’istituzione museale può svolgere senza dubbio un ruolo importante nella verifica dei contenuti, tanto più efficace quanto più è consolidata la sua autorevolezza negli specifici settori di specializzazione. Questo ruolo del museo non è inconciliabile con il sistema di relazioni che questo intreccia con il proprio contesto di riferimento, tenendo conto, appunto, dell’importanza sempre crescente che ha assunto il visitatore del museo nella creazione e diffusione di contributi “dal basso” che lo hanno reso «protagonista attivo e partecipe ai processi di valorizzazione del museo, finanche nella fase della loro progettazione[4]». La qualità dell’informazione può certamente coesistere, anzi è opportuno che lo sia, con la libera partecipazione della collettività. Questa operazione, così come altre legate alla comunicazione museale, non può svolgersi in modo “astratto” ma necessita di figure professionali specifiche che sono, appunto, i comunicatori museali, e che riassumono, innanzitutto, quelle che sono le competenze proprie di un esperto di comunicazione, ma non solo. Altrettanta importanza è data, per esempio, alla conoscenza delle dinamiche turistiche. Ma dal punto di vista della formazione, c’è ancora una separazione tra le scienze del museo e gli «insegnamenti relativi al turismo ed ai cambiamenti in atto nel settore, in cui è facilmente collocabile anche una ridefinizione del ruolo e delle funzione del museo stesso. Rispetto alla tradizionale idea di “luogo di conservazione” ci si sta avvicinando a quella di “strumento di comunicazione”, rivolto ad un pubblico di soggetti sempre più ampio» [5]. Il cambiamento dovrà partire, dunque, anche da una riprogettazione della formazione universitaria.
I rischi nel web di cui si è trattato finora non sono solo quelli legati a ciò che viene scritto ma riguardano anche l’uso delle immagini e i diritti derivanti dalla proprietà intellettuale. Quando la legge pone dei limiti alla libera circolazione di questi contenuti, in qualche modo va ad imbrigliare la libertà di Internet e il diritto di accedere gratuitamente alle informazioni. Un superamento di questa barriera alla libera fruizione dei dati, è rappresentata dagli Open Data, cioè i dati prodotti da vari enti, resi accessibili a tutti in formato aperto, tra i quali sono incluse anche informazioni finora rimaste inaccessibili al pubblico, come i dati provenienti da musei, librerie e archivi[6]. Tuttavia non sempre l’accesso agli Open Data è garantito in forma totale e non di rado si riscontrano reticenze o restrizioni alla diffusione dei dati. Talvolta ci possono essere ragioni economiche dietro questi modi di agire, anche quando si tratta di immagini fotografiche autoprodotte. In alcuni musei, per esempio, il divieto di fotografare riguarda sia i turisti che gli studiosi e gli studenti, per cui per motivi di studio e di ricerca si è costretti a sborsare svariate decine di euro per ottenere un file di archivio e molti di più per le foto ex novo[7], tariffe di gran lunga superiori a quelle richieste da altri musei europei. Si tratta di restrizioni che certamente dovranno essere modificate o del tutto abolite. Se alcuni musei consentono lo scatto di fotografie e non sono stati riscontrati problemi per la regolare fruizione della visita, non si vedono ragioni perché il consenso non possa essere esteso a tutti. La stessa crescente diffusione di smartphone, tablet e macchine fotografiche digitali, sono un invito a fotografare e condividere le immagini; continuare a imporre divieti che potevano forse ancora essere accettati dieci anni fa, è anacronistico e autolesionistico per i nostri musei.



[1] V. Falletti, “Ripensare il museo” in V. Falletti, M. Maggi, “I musei”, Il Mulino 2012, p. 60
[2] M. Maggi, “Le sfide” ” in V. Falletti, M. Maggi, “I musei”, Il Mulino 2012, p. 185
[3]Autenticità e verità nella cultura dei social network”, L’Osservatore Romano, 25 gennaio 2013)
[4] L. Sollima, “Il museo in ascolto. Nuove strategie di comunicazione per i musei statali”, Rubbettino 2012, p. 25
[5]Rapporto di analisi comparata basata su peer review”, Rapporto di ricerca dell’Università La Sapienza di Roma, 30/07/2011, p. 3. La ricerca ha considerato in che modo i musei di quattro paesi  (Italia, Bulgaria, Romania, Regno Unito) si stanno preparando ad affrontare le trasformazioni che coinvolgono la loro stessa missione: « le istituzioni museali pubbliche e private – e soprattutto quelle di dimensioni medie e piccole – paiono risentire dell’impatto della congiuntura economica sfavorevole nel momento stesso in cui viene a definirsi – anche in modo problematico – una nuova funzione del museo: accanto a quella tradizionale di tutela, conservazione ed esposizione degli oggetti, si sta infatti sempre più facendo strada la concezione del museo anche come spazio pubblico, luogo di espressione dell’identità e di fruizione culturale, polo attrattivo per un vasto pubblico. In sintesi, è in atto un processo per superare la dicotomia tra conservazione, da un lato, e dall’altro valorizzazione dei patrimoni».
[6] Tra i progetti di Open Data che riguardano più direttamente le istituzioni culturali, si ricorda, per esempio, Europeana.
[7]Guardare ma non scattare”, dal blog di Michele Smargiassi, Fotocrazia (http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2011/02/08/guardare-ma-non-scattare/)

I MOOCs applicati ai musei: le nuove frontiere della fruizione museale

di Caterina Pisu



Leggendo un post di David Greenfield dal suo blog View from a Blog, mi sono molto interessata all’applicazione degli ultimi sviluppi dell’e-learning all’ambito museale. David Greenfield inizia con la considerazione che le visite ai musei sono sempre un’esperienza molto coinvolgente. Che si tratti della visita di una mostra temporanea o di una galleria, che si segua un percorso proposto dai curatori o dagli operatori didattici, o che si compia autonomamente, costruendo, in tal modo, un nostro personalissimo modo di vedere quella esposizione, in ogni caso ne trarremo sempre grandi vantaggi. Quando si ha la possibilità di vedere i luoghi e gli oggetti nelle proprie reali dimensioni, dal vivo, potendo osservare materiali e dettagli, l’intelletto e la curiosità dei visitatori sono catturati e affascinati molto più che dall’osservazione sul web di immagini ridimensionate. In ogni caso, per facilitare l’esperienza di visita, i professionisti museali cercano di progettare e ottimizzare i siti web anche per la realizzazione di pre-visite, che aiuteranno poi la visita reale, offrendo dei punti di riferimento e delle conoscenze preliminari.
Ma non tutti potranno prendere parte alla visita reale: costi e distanze possono creare ostacoli difficili da superare a molti potenziali visitatori dei musei. Questo rappresenta uno dei punti critici da risolvere.
Un aiuto può venire dai recenti progressi del web: il continuo sviluppo e l'integrazione dei media digitali, ovvero l’uso del web e dei social network, possono fornire alcune soluzioni interessanti e innovative a questo problema o almeno possono cercare di ricreare alcune delle condizioni che si verificano durante lo svolgimento di una visita guidata. Durante queste visite, per esempio, coloro che vi partecipano creano delle comunità temporanee nelle quali viene condivisa la prospettiva di interpretazione delle opere o, più in generale, dell’allestimento, così come proposto dalla guida, aggiungendo, però, anche il proprio punto di vista o sollevando questioni. Si crea, così, un dialogo tra la guida e i visitatori che consente lo scambio di informazioni, osservazioni e la ricerca di risposte alle proprie curiosità.
La domanda è: può essere attuato il trasferimento di un tipo di esperienza analogo anche alle visite on-line? Si è accennato al fatto che alcuni musei stanno già sviluppando strumenti web che funzionano come pre-visita. Sebbene questo sia un importante servizio messo a disposizione dei migliori siti web dei musei, bisogna dire che in realtà questo non supera tutte le limitazioni alla fruizione del museo che penalizzano i potenziali visitatori impossibilitati a raggiungere fisicamente il museo.
La proposta, dunque, è quella di utilizzare le possibilità offerte dai MOOCs (Massive Open On-line Course) che consentono la partecipazione interattiva su larga scala e l’open access attraverso il web. In pratica i MOOCs sono capaci di integrare i punti di forza dei social media (web 2.0) e del web semantico (3.0).
Per comprenderne meglio l’utilizzo, dobbiamo collocare questo strumento nell’ambito dell’e-learning, di cui il MOOC è l’ultima frontiera che si traduce, appunto in “massive open online course”, cioè corsi online gratuiti e aperti a tutti. Da poco tempo è possibile accedere a questi corsi gratuiti, online, da molte università in tutto il mondo. Su You Tube è disponibile un video che spiega molto chiaramente il funzionamento dei MOOCs:


In Italia, l’Università La Sapienza di Roma è il primo ateneo ad essere entrato nel progetto Coursera, lo spin off universitario nato nell’aprile del 2012 su iniziativa di due docenti dell’Università di Stanford, Daphne Koller e Andrew Ng, con l’obiettivo di creare uno spazio sul web dove chiunque possa partecipare a corsi on-line gratuiti su diverse materie. 
Rispetto a corsi online di tipo tradizionale, un MOOC si basa sul presupposto che il grande numero di partecipanti costituisca il punto di partenza per lo sviluppo di elevate connessioni e interazioni, elemento fondamentale per la divulgazione dell’apprendimento. Inoltre i MOOCs, che sono gratuiti, richiedono una partecipazione attiva nella produzione e nel repackaging di contenuti. E questo richiama moltissimo il funzionamento degli attuali social media.

E i musei? In ambito museale si possono utilizzare le potenzialità del MOOC per creare un ponte tra le esperienze reali e quelle on-line: in tal senso, esso può essere usato come sito stand-alone (cioè capace di funzionare in modo indipendente) per emulare l’esperienza di una visita guidata. I visitatori connessi on-line avrebbero la possibilità di esplorare, condividere, interpretare e creare dei contenuti all'interno di una comunità di persone con i loro stessi interessi.
Il MOOC può anche essere utilizzato come piattaforma per la creazione di mostre virtuali che, oltre agli evidenti vantaggi economici, permetterebbe, per esempio, di mostrare quelle opere che sono conservate nei magazzini, offrendo ai visitatori ulteriori approfondimenti della produzione di un artista, di uno stile o di un determinato periodo. Si possono creare, inoltre, mostre di opere d’arte o manufatti che sono disseminati in tanti musei, in varie parti del mondo, che altrimenti difficilmente potrebbero essere viste simultaneamente. Si possono anche formare dei sotto-gruppi, all’interno di una comunità, per coloro che sono interessati a discutere argomenti ancora più specifici, per esempio determinate opere o movimenti artistici, storici, ecc. ecc. Le possibilità di utilizzo sono veramente illimitate.
Forse la visita di una mostra on-line potrebbe non essere così appagante come l'esperienza reale, ma le funzioni del MOOC, per mezzo delle connessioni e delle interazioni su cui si basa il sistema, sono in grado di ricreare ciò che avviene durante una visita reale, quando si formano comunità temporanee tra le persone che vi partecipano; e questo è il primo passo per rendere la visita on-line più vicina a quella on-site.
Mi viene in mente l’esempio citato da Umberto Eco nel suo articolo “Il museo nel terzo millennio”: l’idea di un museo trasportabile, fatto non di opere originali, ma di immagini proiettate dei capolavori dei più importanti musei del mondo, per permettere a tutti di vedere ciò che probabilmente non potranno mai raggiungere fisicamente. Un’idea concepita dall’architetto Konrad Wachsmann, condivisa da Eco, per il quale il museo del terzo millennio sarà “sempre inedito, sempre capace di offrirmi nuove sorprese”. E forse questo è l’obiettivo che si potrà raggiungere con le nuove tecnologie, grazie al superamento delle distanze e alla possibilità di mettere in connessione tra loro milioni di persone.


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