Dal New York Times del 16 marzo 2011, è tratto questo articolo di Carol
Vogel, intitolato “The Spirit of Sharing” che descrive in che modo alcuni musei
statunitensi si sono preparati ad affrontare i cambiamenti imposti dalle nuove
tecnologie alla comunicazione museale. L’articolo mette in evidenza il lavoro
svolto dai singoli professionisti che operano nel settore della comunicazione
digitale di alcuni grandi musei. Persone che, talvolta, vivono quasi ininterrottamente
“on-line” e che hanno il compito di monitorare le propensioni e gli interessi
dei visitatori internauti e il loro modo di comunicare con l’istituzione
museale. Un lavoro non facile che deve essere affrontato tenendo sempre presente
gli obiettivi primari del museo senza farsi condizionare dalle “mode” che inevitabilmente
le folle contribuiscono a diffondere e cercando di svolgere il proprio ruolo di
mediatori nei confronti della società. Siamo, però, ancora all’inizio di questa
trasformazione della comunicazione tra i musei e il pubblico. I progetti che
implicano partecipazione e condivisione di contenuti sono ancora relativamente
pochi e per ora la maggior parte dei curatori continua a svolgere il proprio
lavoro in modo tradizionale.
Shelley Bernstein vive con
il suo computer. Quasi tutti i giorni si rintana nel suo ufficio spartano
presso il Brooklyn Museum, dove
lavora come Chief Technology Officer,
inventando modi per far venire le persone in visita al museo e al suo sito Web, brooklynmuseum.org.
Ogni sera torna a casa in bicicletta, a Red Hook, Brooklyn, per stare
con Teddy, il suo amato pit bull, e anche da casa continua a monitorare la
presenza dell'istituzione su Facebook, Flickr, YouTube, Four Square e Twitter, dove ha quasi 183.000 seguaci.
Alcuni dei suoi progetti – per esempio mostrare ai suoi followers un
tepee di 28 metri in costruzione nel museo o invitarli a partecipare ad una
mostra proponendo un quiz sulle arti visive – le hanno portato a una marea di
inviti a tenere conferenze in tutto il mondo.
Un decennio fa, i siti web museali erano poco più che una pagina di
pubblicità on-line e si limitavano alla visualizzazione degli orari del museo, dei
prezzi del biglietto d’ingresso e delle mostre in corso. Ora, invece, la
tecnologia in continua evoluzione ha creato nuove opportunità, e persone come Shelley
Bernstein stanno diventando elementi fondamentali per aiutare i musei a
svilupparsi.
Se avrete occasione di parlare con qualunque professionista che si occupi
di nuove tecnologie museali, vedrete che inevitabilmente la conversazione si
focalizzerà soprattutto su una parola: fidelizzazione.
«Puntiamo più sul visitatore che
sulla tecnologia» - conferma la trentasettenne, dinamica Shelley, rispondendo
prontamente a ogni domanda del suo intervistatore. «Alla fine, quello che vogliamo è che le persone sentano di appartenere
a questo museo. Chiediamo loro di dirci quello che pensano. Anche le
recensioni negative, in caso di un nostro errore, ci possono essere d’aiuto. Vogliamo
entrare in contatto con la nostra comunità.»
I musei hanno cercato a lungo di
essere luoghi accoglienti e paradisi dell’apprendimento, ma ora i social media
li stanno trasformando in luoghi di creazione di comunità virtuali. Su
Facebook o su Twitter o su qualsiasi sito web museale, ognuno può esprimere il
suo parere. Perciò i curatori e i visitatori on-line possono comunicare,
imparando gli uni dagli altri. E quando i visitatori portano al museo i
propri dispositivi palmari, la potenziale interattività si intensifica.
Tuttavia, c'è un avvertimento. La nuova tecnologia è «stimolante, e riusciamo a dare una grande
quantità di informazioni» - afferma Thomas P. Campbell, direttore del Metropolitan
Museum of Art - «ma dobbiamo ricordare
alla gente che il loro obiettivo è la scoperta dell’arte.»
La tecnologia e tutti i suoi strumenti rappresentano anche le nuove
sfide dei musei. Tra queste: come installare un accesso internet wireless in
vecchi edifici, così che i visitatori possano utilizzare i propri dispositivi;
come tenere il passo con le continue richieste dei social media e, ancora più
importante, come calibrare l’influenza del pubblico sulle attività del museo.
E’ anche importante non farsi coinvolgere troppo dalle mode. Non
dimentichiamo che una volta «tutti avevano
un pogo stick (saltarello) e uno scooter», ha continuato il direttore - «e che ora, invece, tutti twittano.»
Il Met ha creato la sua pagina web sull’evoluzione della storia
dell'arte nel 2000, riuscendo ad attirare, lo scorso anno, più di sei milioni
di visitatori. Ora(2011) il sito Web sta avendo un restyling che sarà concluso
a fine estate.
Definendo quello che la tecnologia sta producendo per il museo
"un delirio di creatività", il direttore ha aggiunto: «Ogni generazione deve trovare le giuste
modalità di comunicazione, e se ciò aiuta a tenere le porte aperte, allora è
una buona cosa.»
Gli sviluppatori di queste tecnologie dicono che non esiste un limite
alla portata del flusso di informazioni. Quando il San Francisco Museum of
Modern Art dovette portare al laboratorio di restauro uno dei suoi
quadri più famosi, la "Donna con un cappello" di Matisse, fu postata
su Facebook una fotografia delle operazioni di rimozione del quadro. «In questo modo la gente poteva dare una
sbirciatina dietro le quinte in tempo reale» - ricorda Ian Padgham, membro
dello staff che cura la comunicazione digitale del museo - «È tutta una questione di trasparenza e spontaneità.»
In occasione di un viaggio a
Parigi, racconta Padgham, ha pensato di cercare i luoghi dove avevano lavorato
gli artisti rappresentati nella collezione del museo: «Sono stato in grado di trovare il punto esatto in cui Man Ray ha
fotografato St. Sulpice». Così ha realizzato una fotografia dalla stessa angolazione
e l’ha postata su Facebook con un link che rimandava all'opera
originale. Il post di Facebook è stato "apprezzato" da 189
persone ed ha suscitato commenti entusiastici.
Al Museo
d'Arte di Indianapolis , invece, gli utenti web possono esplorare le
sue collezioni, i suoi membri, il numero di visitatori che ha avuto in un giorno
specifico, e anche quanto impegno viene messo in tutte le attività. «Ci piace condividere le informazioni con il
pubblico, con la stampa e con il nostro personale» - ha detto Robert Stein,
vice direttore per la ricerca, la tecnologia e l'engagement al museo di
Indianapolis -«Questa è una delle nostre
missioni più importanti.»
Il sito web del Metropolitan Museum of
Art, invece, ha dato vita ad una nuova iniziativa denominata "Connections", dove,
dietro le quinte, lo staff del museo – in particolare un educatore e un produttore
di media - parlano delle loro opere preferite, appartenenti alla collezione del
museo. «Abbiamo creato un equilibrio tra le opinioni personali e quelle
degli accademici» - afferma Erin Coburn,
il chief officer of digital media del Met.
Il museo ha anche creato una
sezione del sito web denominata Date
Night per il giorno di San Valentino , con un assistente
editoriale che descrive le opere d’arte più romantiche del Met. L’iniziativa
è stata postata su Facebook, ed è stato chiesto agli utenti di condividere ciò
che pensavano di queste opere. «Volevamo
riproporla in ambiti differenti», ha spiegato Erin Coburn, e così il post
ha ricevuto centinaia di “like”.
La differenza è che mentre i
social media hanno ricevuto sempre così tanta attenzione – continua Erin Coburn
- «sul sito web non ci sono state
richieste di avere un maggior numero di informazioni o di avere più immagini ingrandite,
più testi descrittivi, video e audio, tutti riuniti in un medesimo spazio.»
Per coloro che vogliono conoscere
nei dettagli i "singoli pezzi", il museo ha introdotto anche delle applicazioni
per i dispositivi mobili. Il primo è stato quello per l’esposizione, Guitar Heroes: Legendary Craftsmen from
Italy to New York. Da quando è stato introdotto, il 5 febbraio 2011, più di
40.000 persone lo hanno scaricato.
Per alcuni musei, i siti Web
funzionano come se fossero il loro ingresso principale. Il numero di
visitatori presso l’Indianapolis Museum of Art, nel 2010, era di 430.000
visitatori, ma il suo sito web ha avuto quasi un milione di utenti che hanno
potuto vedere le collezioni del museo, guardare i video e contribuire ai blog.
«Dobbiamo essere rilevanti sul Web, rendendo costantemente interessanti
le nostre informazioni» - afferma Maxwell L. Anderson ,
direttore del Museo d'Arte di Indianapolis. Un modo, ha detto, è quello che lui definisce il potere del
"pensiero collettivo." E così nel 2009, il museo, ha creato artbabble.org,
un sito Web che offre video di istituzioni museali di tutto il mondo. «Abbiamo iniziato con sei partner e ora ne abbiamo
30 in tutto il mondo», ha detto Stein.
Il network internazionale del Solomon R. Guggenheim Museum ha dato un
nuovo significato alla democratizzazione dell'arte quando ha creato il progetto YouTube Play, grazie al quale
chiunque, con una videocamera e un computer, aveva la possibilità di inserire
filmati nella sua biennale di video creativi che ha avuto luogo nel mese di
ottobre in tutti i musei Guggenheim sparsi nel mondo.
La biennale è stato un tale successo
- 23.358 proposte provenienti da 91 paesi e più di 24 milioni di spettatori su
YouTube – tanto che il Guggenheim è già in trattative con YouTube per l’organizzazione
della prossima. «Ci ha dato la
possibilità di comunicare in modo più diretto con le persone» - ha detto
Nancy Spector, curatore capo del Guggenheim di New York - «Ed è stato l’inizio dell’utilizzo di un
mezzo di comunicazione e di condivisione che si pensava che fosse di bassa
cultura, ma che invece sta emergendo come una forma d'arte.»
La partecipazione pubblica sta
prendendo forme diverse in vari musei. Il sito web del Brooklyn Museum,
per esempio, ha organizzato un quiz che aiuterà alla creazione della
mostra Split Second: Indian Paintings.
Bisogna dire, in conclusione, che
progetti come quelli del Brooklyn Museum e del Guggenheim sono
eccezioni. La maggior parte di ciò che accade dentro i musei è ancora a
cura dagli studiosi. L'obiettivo di tutta questa tecnologia resta ancora quella
di portare la gente al museo.
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