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Libere riflessioni sulle Invasioni Digitali



Invasioni Digitali si è imposta all’attenzione del pubblico ormai da alcuni anni, invitando le persone a visitare i luoghi della cultura e a condividerne fotografie e video attraverso i social media. Osservando le Invasioni che si sono svolte in questi anni e che si stanno compiendo proprio in questi giorni, si nota la quasi totale assenza, con poche eccezioni, di un “racconto” delle varie iniziative. Intendo, con questo, non tanto la creazione di storify realizzati dopo gli eventi, ma il racconto dell’Invasione mentre questa è in corso. Un esempio può essere Urban Experience, cui ho avuto occasione di prendere parte non molto tempo fa, a Viterbo.
Chi non partecipa realmente all’evento, infatti, rimane escluso, e le foto, soprattutto quelle postate su Twitter, spesso sono corredate da poche descrizioni. Ciò comporta che, nell’insieme, le Invasioni non siano altro che un’ampia panoramica di tanti luoghi culturali che rischia, però, nel suo insieme, di apparire indistinta. Inoltre, mancando delle efficaci forme di “racconto”, chi segue dall’esterno non viene coinvolto, soprattutto dal punto di vista emotivo, e quindi si osservano poche interazioni esterne. La “partecipazione” collettiva sui social è un aspetto fondamentale e indispensabile per un evento che vuole promuovere la comunicazione digitale. Il primo impegno dovrebbe essere, dunque, non solo la condivisione di immagini (e possibilmente di contenuti) ma soprattutto l’interazione con il resto della comunità digitale.


La sensazione che Invasioni Digitali non faccia emergere le singole esperienze in modo più visibile si evidenzia anche nella consuetudine, prevista dal regolamento, di scattare una foto di gruppo finale con il cartello recante la scritta “Invasione compiuta”. Questo dettaglio, apparentemente poco rilevante, in realtà contribuisce a rendere le iniziative meno “personali”. Se infatti ogni Invasione si concluderà in maniera identica, soprattutto per quanto riguarda lo slogan utilizzato, sarà problematico individuare delle differenze tra un evento e l’altro; invece, se al posto dello slogan uguale per tutti, il cartello venisse utilizzato per inviare un messaggio più soggettivo, una breve frase che sia in grado di rappresentare con estrema sintesi i sentimenti del gruppo che ha compiuto quella determinata Invasione, scelta con l’aiuto di ciascuno (operazione che aiuterebbe anche a elaborare l’esperienza), allora non solo le Invasioni apparirebbero meno standardizzate, ma gli Invasori assumerebbero un ruolo ancora più attivo. 



Urban experience: un “gioco” che rinnova il concetto di turismo


di Caterina Pisu

In questo post non si parla espressamente di musei, ma di innovazione culturale e valorizzazione dei territori, un tema che non può non interessare da vicino anche chi si occupa di musei. 
Ieri, infatti, grazie all’amica Laura Patara, ho avuto la fortuna di partecipare ad un esperimento molto interessante, l’Experience Lab, un brainstorming (letteralmente “tempesta di cervelli”, tecnica molto usata nel settore pubblicitario) rivolto alle imprese culturali che a luglio troveranno sede nel nuovo Incubatore ICult di Viterbo,  e organizzato da Urban Experience e BIC Lazio.  
L’attività laboratoriale proposta è stato il walk show di esplorazione urbana, una passeggiata multimediale nel centro storico viterbese, in cui ci siamo avvalsi dell’uso di twitter (#urbexp #biclazio) per raccogliere gli spunti che sono emersi nel corso del “brainstorming” itinerante.



“Anima” dell’esperienza è stato Carlo Infante, presidente di un’associazione di promozione sociale che ha attivato il social network urbanexperience. Infante, oltre ad essere giornalista, esperto di teatro, nuovi media e di tecnologie per l’apprendimento, è stato anche l’ideatore del concetto di Performing Media, creato per definire l’interazione sociale e culturale con i nuovi media interattivi. L’idea è promuovere l’uso creativo della città, “per reinventare lo spazio pubblico tra web e territorio”.
Hanno preso parte all’Experience Lab tutti soggetti attivi, in varie forme, nell’ambito imprenditoriale, turistico, culturale, insieme alla sottoscritta che ha rappresentato l’Associazione Nazionale Piccoli Musei.



L’Experience Lab ha anticipato ciò che ci si proporrà di fare con la prossima inaugurazione dell’Incubatore ICult, auspicando che questa nuova realtà possa essere anche l’”acceleratore” di un processo teso ad aggregare gli imprenditori che vogliono investire nel territorio viterbese. E non si tratta solo di business, «perché vale la pena investire intelligenze ed energie nel territorio e trovare il modo di far “giocare” i turisti, anzi, i “viaggiatori”» - per usare le parole di Carlo Infante.
L’incubatore sarà ospitato nell’ex mattatoio di Viterbo e - fa notare Infante” -  «i mattatoi posti in area urbana sono i luoghi che, non solo in Italia, ma in tutta Europa, per primi sono stati dismessi e riadattati per altri usi, soprattutto culturali. Hanno sempre fatto parte, cioè, di progetti di rigenerazione urbana associata alla progettazione culturale».



Durante il walk show ci siamo avvalsi di un sistema radio che ci ha permesso di rimanere connessi tra noi,  muovendoci in modo più libero rispetto alle visite guidate tradizionali che costringono a rimanere sempre uniti gli uni agli altri, ascoltando l’unica voce della guida. In questo caso, invece, era anche possibile allontanarsi, continuando, però, ad ascoltare le conversazioni tra Infante e i vari partecipanti,  osservando le peculiarità di uno dei borghi più belli d’Italia, ma così poco valorizzato. Attraverso il collegamento radio abbiamo ascoltato anche alcuni repertori audio, trasmessi mediante un tablet, che hanno arricchito l’esperienza sensoriale.



Il percorso si è snodato per le vie della Viterbo medievale, a cominciare dal Duomo per poi raggiungere il quartiere medievale con una breve visita al piccolo Museo del Sodalizio dei Facchini di S. Rosa. Si è cercato di andare oltre la classica visita che illustra le radici storiche di una città, entrando in un’ottica diversa, cogliendo spunti che potranno contribuire alla futura rigenerazione urbana.

Il metodo usato, quello di “camminare, osservare e dialogare”, cambia l’approccio del brainstorming propriamente detto: in questo caso non eravamo seduti intorno a un tavolo a discutere e a confrontarci. «Siamo come uno sciame di api che raccolgono informazioni e poi le diffondono sui social networks» - è l’interpretazione proposta da Carlo Infante.

Nel pomeriggio, al termine dell’experience lab abbiamo accolto il pubblico per il walk show finale dal titolo: “La terra che dice. Ascoltando il genius loci etrusco lungo la via Francigena”, evento inserito nel programma del FestivalCollective Project Via Francigena 2013 promosso dall’Associazione Europea delle Vie Francigene e Civita. In pratica, abbiamo ripetuto lo stesso percorso della mattina, ma questa volta coinvolgendo anche i nuovi partecipanti.

Che cosa è emerso da questa esperienza? Innanzitutto che dobbiamo imparare qualcosa dal territorio. Si è detto che Viterbo è una città poco valorizzata, così come lo è tutto il territorio della Tuscia. Ma il “caso Viterbo” può essere esteso a tutta l’Italia perché sono tante le situazioni simili. Si può parlare, piuttosto, di un “caso Italia”. E’ importante, allora, riuscire a coniugare la progettazione culturale con l’innovazione. La cultura, infatti, non è più circoscritta solo alle “belle arti”; per cultura oggi si intende tutto ciò che caratterizza un territorio e lo rende unico, comprendendo nel concetto la sua capacità di produrre innovazione e creatività, ma anche quella di saper trasmettere la propria “eredità” alle generazioni future. Cultural heritage vuol dire letteralmente “eredità culturale”, anche se noi traduciamo questo termine come “patrimonio culturale”, perdendo, forse, il senso più esatto dell’espressione inglese.

Alla luce di quanto è emerso dalla nostra riflessione, abbiamo concluso, o meglio ancora, abbiamo rafforzato la convinzione che una delle vie di salvezza dell’Italia - forse “la via di salvezza” - è la valorizzazione del  territorio. Tutta l’energia spesa per trasformare le città in smart-cities, cioè in ambienti urbani che impiegano tecnologie capaci di migliorare la qualità della vita, non può non essere indirizzata principalmente verso questo obiettivo. 
Non a caso, accanto al PIL, che indica il valore totale dei beni e servizi prodotti in un Paese e che quindi può esprimere il benessere di una nazione, ora è considerato ugualmente importante anche il BES (benessere eco-sostenibile), un indicatore che è in grado di andare oltre il PIL. Che c’entra con il territorio? Moltissimo, dato che la valutazione del BES considera ben 12 campi che comprendono, tra gli altri, oltre al benessere economico, all’istruzione, alla formazione, al benessere soggettivo, alla salute e ai tempi di vita, anche l’ambiente, la qualità dei servizi, il lavoro, le relazioni sociali, la ricerca e l’innovazione, il paesaggio e il patrimonio culturale.

Questa esperienza ci ha anche aiutato a capire che l’Italia è un luogo “da attraversare" e che bisognerebbe “combinare” i percorsi in modo coerente (per esempio la via francigena con il corridoio bizantino che collegava Roma con Ravenna). Ma non solo, abbiamo potuto focalizzare che uno dei maggiori vantaggi che ha l’Italia è la biodiversità, che ha reso estremamente diverso un territorio dall’altro. Dunque, bisogna cogliere le peculiarità e saperle narrare.

Gli incontri della nostra Urban Experience viterbese


Durante la nostra esperienza, abbiamo avuto occasione di conoscerci tra noi durante il briefing che ha preceduto l'Urban Experience e nel corso del walk show. Personalmente sono stata colpita in modo particolare da tre di loro, senza nulla togliere a tutti gli altri, e che descriverò, di seguito, nell’ordine in cui li ho conosciuti:

Alessandro Pichardo: alla ricerca della tomba perduta

Il primo di cui voglio raccontare è Alberto Pichardo, archeologo spagnolo che si sta occupando di un progetto di internazionale che include, tra gli altri obiettivi, la ricerca della sepoltura di Papa Alessandro IV (1199-1261), il pontefice che trasferì da Roma a Viterbo la curia pontificia. La tomba fu nascosta per impedire che le spoglie del Pontefice fossero depredate; dai documenti risulta sepolto sotto il duomo di Viterbo, ma nessuno ha mai ritrovato il luogo esatto, per cui per secoli è rimasto il “mistero” irrisolto di Viterbo.
La tecnica usata nella ricerca condotta da Pichardo si basa sulla generazione di onde soniche, registrate da una serie di sensori disposti seguendo un tracciato geometrico, i quali permettono di misurare il tempo impiegato dalle onde durante il loro passaggio all’interno dei materiali. Poiché la velocità di propagazione delle onde elastiche è in relazione alle proprietà elastiche del materiale stesso, questo consente di scoprire la presenza di cavità o di strutture particolari che si differenziano dai materiali circostanti. Oltre a questa tecnologia saranno usati anche altri strumenti, come potenti metal detector e sistemi di esplorazione robotizzati e telecamere a fibre ottiche per le ricognizioni endoscopiche da utilizzare negli spazi di difficile accesso.

Alberto Pichardo davanti all'effigie di Papa Alessandro IV, posta all'interno del Duomo di Viterbo

Alberto Pichardo e un geofisico collocano gli elettrodi ai piedi della scalinata del Duomo


Ma la ricerca della sepoltura di Papa Alessandro IV non è, come abbiamo già accennato, l’unico obiettivo. Il progetto si propone anche di studiare le strutture archeologiche sottostanti il Colle del Duomo, dove dovrebbero trovarsi i resti dell’originario sito etrusco; individuare altre cavità antropiche come cunicoli, cisterne, gallerie, cripte, sepolture, ecc. ecc.; studiare la geologia e la stratigrafia del Colle del Duomo; studiare e mappare le condizioni di potenziale instabilità degli edifici situati sul Colle del Duomo, su cui per anni fu operativo l’Ospedale di Viterbo, e dove attualmente sono ubicati il Seminario e la sede vescovile. Intanto è notizia di pochi giorni fa che Alberto Angela realizzerà un documentario sulle ricerche condotte da Pichardo nell’ambito del progetto internazionale “Alessandro IV”.

La Viterbo sotterranea di Sergio Cesarini:

Il secondo personaggio di Viterbo che ho incontrato durante la nostra Urban Experience è Sergio Cesarini, giornalista e direttore di “Viterbo sotterranea”, un percorso di origine etrusca che si snoda nelle viscere del quartiere medievale di San Pellegrino. Si tratta di un patrimonio storico della città di Viterbo che Cesarini ha valorizzato rendendolo fruibile al pubblico. Per ora sono percorribili un centinaio di metri disposti su due livelli, a tre e ad otto metri di profondità, dove sono visibili anche i resti di alcuni “butti” medievali, ma presto (probabilmente in concomitanza con la Festa di S. Rosa, a settembre) si aprirà un altro tratto che includerà alcuni spazi adibiti a laboratori didattici, soprattutto a beneficio delle scuole. Altri progetti stanno per essere realizzati da Cesarini anche nella provincia viterbese – e di cui spero di poter raccontare a breve - a dimostrazione che con le buone idee, la capacità e l’entusiasmo, si possono raggiungere obiettivi importanti che portano benefici alla comunità in termini di sviluppo e di occupazione.

Renato Petroselli: l’imprenditore filosofo

Tra le persone che ho conosciuto durante l’Urban Experience, mi ha particolarmente colpito Renato Petroselli, un viterbese che ha saputo “reinventarsi” imprenditore turistico/culturale dopo aver lasciato la professione che, negli anni Settanta, lo portò ad essere il primo operatore televisivo di Televiterbo e tra i primi ad utilizzare la tecnica dello storyboard nella pubblicità.  
Nel suo racconto, sollecitato dalle domande di Carlo Infante che gli chiedeva quale fosse il rapporto dei viterbesi con la propria città, mi ha colpita la sua frase “prima di promuovere, bisogna conoscere”, cioè bisogna essere consapevoli del valore di ciò che cerchiamo di promuovere. E questo è un concetto che appartiene anche alle teorie promosse dall’Associazione Nazionale Piccoli Musei. Se i residenti non sono i primi ad essere coscienti della ricchezza del proprio territorio, che cosa potranno trasmettere ai turisti di passaggio? 
E’ fondamentale, allora, lavorare prima all’interno della comunità e poi dare impulso al territorio, perché solo così si riuscirà a mettere in relazione chi è depositario della conoscenza, o meglio, chi “possiede la memoria storica del luogo” con chi vuole apprendere, a cominciare dalle nuove generazioni che a loro volta dovranno diventare testimoni e divulgatori della propria eredità culturale.

Leggi anche: http://museumsnewspaper.blogspot.it/2015/04/libere-riflessioni-sulle-invasioni.html

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