di Caterina Pisu
Nel 2001, la giornalista e
scrittrice Josie Appleton, scrisse un articolo che potrebbe sembrare disorientante
per i museologi, in maggioranza assertori convinti dell’importanza del ruolo di
mediazione e di inclusione sociale dei musei nell’ambito delle comunità.
In
realtà, un po’ di autocritica non fa mai male e allora mi sembra opportuno
riportare qui il pensiero della Appleton che, a distanza di anni, può risultare
ancora di una certa attualità, sebbene le sue considerazioni facciano specifico
riferimento all’ambito britannico e ad un determinato momento storico.
Il tema che
oggi propongo è il primo di una serie che desidero dedicare al ruolo sociale
dei musei, in vista del Quarto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei, in
programma ad Assisi 11-12 novembre 2013, in cui si affronterà, tra gli
altri, anche questo argomento, in relazione ai cosiddetti “musei di quartiere” (v. qui il programma provvisorio).
Nell’articolo intitolato “Museums for the people”, pubblicato su http://www.spiked-online.com/site/article/10827/,
la Appleton si chiedeva perché l’inclusione sociale fosse diventata una delle
finalità perseguite dai musei, in realtà non per una spinta venuta dall’interno
del settore museale, ma a seguito della politicizzazione dei musei (si fa riferimento, come già accennato, al Regno Unito).
A seguito della pressione del
governo New Labour, infatti, non solo musei e gallerie, ma anche altre
istituzioni pubbliche, come gli ospedali, le università e le scuole, furono
incoraggiati a considerare l’inclusione sociale come una delle proprie funzioni
essenziali. Fu così che i musei cominciarono a riorganizzarsi cercando di
occuparsi il più possibile delle relazioni con la comunità.
Per la Gran Bretagna dei New
Labour la parola “inclusione sociale” sembrava essere di gran moda, ma restava
comunque un concetto oscuro, non pienamente compreso, che nasceva piuttosto da
un’ansia del pericolo di frammentazione sociale e dalla possibilità che
potessero esistere individui isolati, senza un proprio scopo nella vita, e che
quindi dovevano assolutamente essere aiutati. Laddove esistono persone abbandonate a se stesse è più alto, infatti, il livello di criminalità, più
basso il livello culturale e la pratica di attività sportive. In sostanza, si
possono creare situazioni o fasce sociali in cui la qualità di vita è molto
bassa.
Per ovviare a questo
inconveniente, il Dipartimento britannico per la Cultura, i Media e lo Sport
(DCMS), adottò una strategia che vedeva i musei e le gallerie coinvolti in prima
linea nell'impegno sociale, tesi a responsabilizzare le persone nel saper
individuare il loro posto nel mondo e nel riuscire a svolgere un ruolo attivo
nella società.
Il Group for Large Local Authority Museums (GLLAM) sostenne questa strategia, nella convinzione che i progetti
di inclusione sociale generino maggiore autostima, fiducia e creatività,
contribuendo a sviluppare una vita sociale più attiva e soddisfacente.
Ma perché i musei hanno così
prontamente adottato tra le proprie funzioni primarie, l’inclusione sociale?
Forse perché, secondo la Appleton, la professione museale in quel momento,
quando il partito del New Labour saliva al potere, stava vivendo uno stato di
profonda crisi e di confronto aspro con il resto della società.
I musei avevano un grande bisogno
di auto-giustificare la loro esistenza perché per almeno una decina d’anni erano stati messi
sotto processo dalla società per il loro ruolo di “badanti” e per la loro
troppo stretta connessione con lo studio e l’interpretazione di “oggetti”, che
li aveva tenuti isolati dalla concretezza della vita reale.
Le critiche erano state talmente dure che, a destra, l’ex Primo Ministro Margaret Thatcher aveva definito
i musei “inutili”, e pertanto aveva cercato di “modernizzarli” e di renderli
più “efficienti”, introducendo le logiche del marketing per la loro gestione e
per la valutazione dell’efficacia del lavoro svolto. A sinistra, invece, si
continuava ad attaccare i musei, considerandoli istituzioni tenute in vita da
élite ideologiche che tendevano ad escludere le masse.
A questo punto, il Dipartimento per
la Cultura, i Media e lo Sport dovette affrontare con decisione la crisi di
identità dei musei. L’ordine del giorno fu, oltre che rendere esplicita la
volontà di politicizzare i musei, il suggerimento di individuare, ogni anno, un
tema sociale da mettere in luce e approfondire attraverso mostre o altri eventi
di questo tipo.
Durante gli attacchi rivolti alla
categoria, molti professionisti museali erano rimasti in silenzio. Forse erano
talmente demoralizzati che i progetti di inclusione sociale a quel punto
sembravano necessari non solo al pubblico ma soprattutto a se stessi. Grazie a
questi progetti, infatti, il personale dei musei cominciò a sentirsi più utile e
necessario, e a ritrovare nuove energie. Qualcuno affermò di sentirsi “più
connesso”, “più integrato” nell'ambito della comunità, forse più vicino alla
realtà di quanto non fosse prima, quando si occupava solo delle collezioni
espositive.
Ma questa nuova funzione del
museo era realmente un bisogno dei professionisti museali e della società o era
stata imposta dall'esterno, dopo la demolizione del vecchio modello di museo, e
poi attivamente promossa dalle nuove élite museali?
Nel Regno Unito le nuove
generazioni di dirigenti museali avevano ricevuto la loro formazione soprattutto
nei master della Leicester University; alcuni di essi provenivano dagli studi
storici sociali che avevano una chiara impronta di sinistra e avevano iniziato
le loro esperienze professionali presso i musei di enti locali. Essi
propendevano, dunque, alla partecipazione attiva della gente comune nelle
attività promosse dai musei.
Consentire ai visitatori di
diventare una parte importante del lavoro di un museo o di una mostra, venne
visto come una necessaria e radicale trasformazione dei musei in direzione dei
bisogni della società.
Peter Jenkinson sembrava quasi
citare “Stato e rivoluzione” di Lenin
quando descriveva le “fasi della caduta del potere” dei professionisti museali conclusasi
con la soluzione finale più radicale, forse utopica, della creazione di un
museo veramente autonomo e popolare, non
più in mano ai professionisti museali.
E’ curioso – afferma la Appleton
- che i musei specialistici potessero ipotizzare addirittura l’eliminazione dei
professionisti museali a favore di una gestione collettiva dei musei!
In realtà, lungi dal determinare
trasformazioni sociali così radicali, questi progetti hanno avuto il merito soprattutto
di far sentire meglio le persone con se stesse. Nel contesto storico del
declino industriale, la storia sociale dei musei aveva contribuito a rinnovare l’orgoglio
della gente attraverso la riscoperta e il racconto delle loro storie, proprio
nel momento in cui sembrava che l’orgoglio non esistesse più.
E’ significativo che nel 1983, nonostante
fosse stato perso un referendum promosso per tentare di tenere aperto un museo
a cielo aperto in un villaggio minerario del Galles, l’anno seguente fu
ugualmente istituito un museo del villaggio che evidentemente era considerato
irrinunciabile per i curatori e gli amministratori della cittadina. Il curatore Gaynor Kavanaugh affermò
che “essere senza storia è come essere
ignorato e dimenticato. Un posto riconosciuto nella storia significa ritrovare
la propria autostima e i propri valori”.
Bill Silvester, che aveva
istituito the Abbeydale Industrial Hamlet a Sheffield nel 1970, disse a sua volta che “l'idea era di dare un museo ai lavoratori e
ai loro figli, con lo scopo di ripristinare l'orgoglio, troppo spesso negato o
rubato da altri, e di lasciarlo in eredità”.
I progetti di inclusione sociale hanno
sempre cercato, dunque, di trasmettere la percezione che la collezione del
museo appartenga ai membri della comunità, i quali hanno contribuito a
raccontare la propria storia e quella del proprio territorio.
Il punto è che cosa succede
quando i progetti di inclusione sociale diventano parte di un programma di
governo. A questo punto non è più il direttore di un museo che autonomamente
decide di aumentare l’autostima degli individui della comunità in cui opera, ma le
nuove élite museali promuovono questi progetti per veicolare le politiche
governative in ambienti per lo più a rischio.
E la Appleton a questo proposito
cita, come esempio, il progetto tessile per le donne asiatiche del Birmingham
Museum and Art Gallery che, con il pretesto di coinvolgere le donne nella
creazione di tessuti ispirati alle collezioni del museo, ha operato un’indagine
tra esse incoraggiandole a parlare della loro salute mentale. Sarebbe stato
difficile, infatti, che queste donne si rivolgessero spontaneamente a degli
assistenti sociali, ma un’attività culturale
ha facilitato questo lavoro di utilità sociale.
E si possono citare anche altri
casi di progetti simili rivolti a varie categorie sociali “a rischio”. Questa
trasformazione del ruolo del museo all'interno della società trasforma
inevitabilmente anche i contenuti del museo: i progetti di integrazione sociale,
in pratica, potrebbero anche ignorare le attività su cui è stato "costruito" il
museo stesso. Il rischio, allora, è quello di creare una distorsione dei
principi fondamentali sui cui poggia l'istituzione museale. Il ruolo tradizionale
del museo, di raccolta, studio ed esposizione dei manufatti, ha sempre avuto una
solida base nella società; i collezionisti e l’establishment accademico sono
stati coinvolti in questa attività e hanno sviluppato gli standard e le
modalità di valutazione del lavoro dei professionisti museali. Ciò ha dato al
museo una struttura ben definita, una sua ragion d'essere, e in tutto questo l’esposizione
degli oggetti era la base sostanziale attraverso la quale il museo si metteva
in relazione con il suo pubblico.
Oggi, la funzione di inclusione sociale,
essendo stata presa in consegna dalla politica - afferma la Appleton, può apparire poco ben definita,
priva di un senso di direzione chiaro, non fondata su pratiche sperimentate e
consolidate. Ciò determina spazi di interpretazione troppo ampi e talora
ambigui.
Il Rapporto del Group for Large
Local Authority Museums sull'inclusione
sociale, che fa riferimento all'ambito dei musei locali che sono in prima linea
in iniziative di questo tipo, riferisce che “la definizione di inclusione sociale è problematica; è 'difficile da
vedere e difficile da cogliere nel suo insieme; è un concetto che può essere definito
e utilizzato variamente dal governo e dai diversi enti locali”.
Quando un concetto è “sfumato” o “sfocato”,
la tentazione è quella di usare il righello per definirlo meglio. Il Group for
Large Local Authority Museums ritenne che fosse necessario dare impulso a studi
trasversali per precisare innanzitutto lo spettro d’azione più coerente in cui
poteva essere attuata una politica di inclusione sociale, cercando poi di
puntualizzare le metodologie e gli standard di lavoro da utilizzare in questo
ambito. E’ vero, però, che anche il sistema più elaborato e preciso che sia
in grado di misurare l’impatto sulla società dei progetti di inclusione
sociale, non risolverà il nodo fondamentale che è quello delle motivazioni.
Le comunità, infatti, sono formate da persone che
decidono spontaneamente se condividere alcuni aspetti della loro vita, non
dietro una sollecitazione “ben orchestrata” e, soprattutto, con finalità
politiche.
La conclusione della Appleton è
dunque che sia i politici che i musei sarebbero fortemente aiutati in questo
discernimento se la politica cominciasse
ad apprezzare i musei innanzitutto perché essi esistono e sono una realtà concreta,
inserita nelle nostre società, cui non è necessario imporre dall'alto la direzione
da seguire.
Specialmente in quest’ultimo punto mi trovo molto d’accordo con Josie
Appleton. I cambiamenti culturali non si possono imporre con un decreto
governativo, ma i musei, se sono percepiti come espressione e memoria della
collettività, potranno trovare in se stessi le motivazioni per una
trasformazione più o meno radicale, alla ricerca di modelli più adeguati ai
tempi ed anche alle nuove esigenze sociali, senza rinunciare alle proprie
peculiarità.
I governi si dovranno preoccupare soprattutto di sostenerli con risorse adeguate e di favorire l'apporto di sempre nuove energie professionali, ben qualificate.