Se troppo successo fa
male al museo
di Salvatore Settis
Da La Repubblica, 30 luglio 2014
Sterminate folle premono sui musei, sulle città d’arte. Miliardi di cinesi, indiani, giapponesi, russi che paiono dietro l’angolo disegnano
nuove frontiere non della cultura ma della cupidigia di nuovi introiti.
Il turismo mordi-e-fuggi genera l’arte usa-e-getta (il 75% dei turisti che
vanno a Venezia si fermano meno di un giorno lasciandovi chili di detriti).
La neomania dei selfie, sdoganati come performance individualista, inonda il
web di fotoricordo che certificano non la curiosità culturale ma la presenza
rituale del turista. Non archiviano il ricordo, sostituiscono lo sguardo:
perciò la loro quantità è più importante della qualità. La visita a un museo
somiglia più a una simulazione che all’esperienza di un tempo, l’incontro di
una persona (il visitatore di oggi) con un’altra (Giotto, Caravaggio,
Rembrandt). Perciò in un libro recente (2010) Steven Conn si domanda sin dal
titolo se i musei hanno ancora bisogno di oggetti (Do Museums still need
Objects?). Secondo lui, via via che diminuisce la fiducia nel potere degli
oggetti di trasmettere conoscenza diminuiscono di numero gli oggetti esposti
nei musei, crescono gli apparati tecnologici e le appropriazioni fotografiche.
Il nuovo rituale turistico sostituisce la tecnologia alla storia, la
rappresentazione virtuale alla realtà.
Le immagini su un cellulare acquistano un grado di verità e un’intensità di
esperienza che non si accontentano di essere equivalenti al contatto con «la
cosa vera», vogliono essere superiori ad esso. Consentono manipolazioni
(ingrandire un dettaglio), archiviazione di impressioni momentanee, scambi di
opinioni via Facebook. L’oggetto d’arte diventa il mero innesco di un processo
sensoriale che si svolge prevalentemente altrove. Davanti alla Gioconda, il 20%
dell’esperienza (diciamo) è quella del quadro nell’affollatissima sala del
Louvre; ma l’80% ha luogo nello smartphone, nell’i-Pad, in un labirinto di
modalità interattive che consentono inedite forme di appropriazione. Secondo
Conn, la storia (la “cosa vera”) sta diventando noiosa, la tecnologia la
rivitalizza; la realtà virtuale è superiore alla realtà tangibile, l’illusione
prende il posto della riflessione, la duplicazione spodesta l’unicità
dell’originale. L’irriducibile diversità del passato si diluisce e si annienta
in un gratuito bricolage. Viene in mente Baudrillard: «Il simulacro non è mai
ciò che nasconde la verità; la verità è il simulacro, e nasconde che non c’è
alcuna verità. Solo il simulacro è vero».
Le folle che si accalcano davanti alla Gioconda e ignorano i Leonardo della
sala lì accanto e l’accanimento fotografico che sostituisce lo sguardo sono
fratelli: due declinazioni della fretta, di una concezione del museo come
esperienza di consumo, di una stessa rinuncia alla riflessione. Vi sono rimedi?
Il Louvre ci sta provando a Lens, città mineraria in gran decadenza, dove un
“secondo Louvre” è stato aperto con gran successo un anno fa, e ha già avuto
più di un milione di visitatori, rianimando un’area di scarsa attrattività.
Scegliendo oggetti della collezione e disponendoli in ordine cronologico (ma
mescolando le opere d’arte dei vari dipartimenti), sia lo staff del museo che i
visitatori sono invitati a riflettere sulla consistenza e sulla storia delle
collezioni; collocando a Lens una bellissima mostra sui Disastri della guerra
che ricorda l’anniversario 1914-2014, una parte cospicua di visitatori è
attratta altrove, e moltiplica le potenzialità di quel grande museo. Se
arrestare la valanga di selfie pare difficile, sarà possibile diffondere una
cultura della lentezza che nell’osservazione dell’opera d’arte veda
un’occasione di riflessione e di crescita civile? È immaginabile mettere in
rete i tour operator e indirizzare i flussi turistici non solo su poche
destinazioni iconiche, ma sulla trama minuta dei monumenti, delle città, dei
musei?
A queste domande nessuno si aspetta più risposte dirimenti dall’Italia, che
pure è il Paese con la più nobile tradizione museografica, con le più antiche
norme di tutela, prescritta dalla Costituzione nell’art. 9, sempre celebrato e
mai pienamente attuato. Volgari approssimazioni vedono nell’arte delle nostre
città e dei nostri musei un’occasione di business e non un’esperienza di vita;
circola nei palazzi del potere la stolta ipotesi che un manager vale per
principio più di uno storico dell’arte; si ipotizza di chiudere musei e siti
archeologici con pochi visitatori, si ironizza sul fatto che gli Uffizi abbiano
meno visitatori del Louvre (che è 30 volte più grande). E intanto è in fase di
cottura una riforma del ministero dei Beni culturali innescata non (come
sarebbe giusto) dalla voglia di investire sulla cultura, di assumere nuovo
personale, di mettere l’Italia in prima fila in un discorso, quello sul
rapporto fra arte e cittadinanza, che sarà fra i più importanti del nostro
secolo; ma da una pretestuosa spending review , e cioè da ulteriori tagli che
vanno ad aggiungersi a quelli perpetrati dal 2008 in poi da governi d’ogni
colore. Ma la colpevole insistenza sul turismo come ragione ultima delle cure
dovute al nostro patrimonio culturale trascura il solo punto essenziale: quel
patrimonio non è dei turisti, ma dei cittadini; è “nostro” a titolo di
sovranità (questo dice la Costituzione), è consustanziale al diritto di
cittadinanza, serbatoio di energie morali per costruire il futuro. L’Italia ha
su questo fronte un diritto di primogenitura, ma pare decisa a rinunciarvi.