Nei giorni scorsi mi è
capitato di leggere il resoconto della conferenza di David Fleming nell’ambito del convegno "Las
ideas detrás de los museos", svoltasi a Rosario, in Argentina, presso la Fundación Litoral, lo scorso 21
agosto. Ho deciso, quindi, di approfondire il suo pensiero per capire come è
nato il concetto di “museo democratico”.
David Fleming è uno degli
studiosi più dinamici ed efficienti del mondo museale britannico e
internazionale. Talmente bravo che, da quando ha assunto l’incarico di
direttore dei Musei Nazionali
di Liverpool nel 2001, il
numero dei visitatori si è quadruplicato, passando da circa 700.000 all'anno a
più di 3,2 milioni. I Musei Nazionali di Liverpool sono uno straordinario
complesso di gallerie e di musei molto innovativi, ben nove, tra i quali,
l’ultimo in ordine di apertura (2007) è l’International
Slavery Museum, situato presso l’Albert Dock insieme al Tate Liverpool, al Beatles Story Museum e al Maritime
Museum.
Che cosa c’è dietro gli
straordinari risultati di Fleming? Sicuramente un modo diverso di concepire il
museo. Secondo lo storico britannico, anche Disneyland ha successo perché il
suo progetto è incentrato sulle strategie più accattivanti per intrattenere il
pubblico, ma non possiamo dire che abbia finalità educative. I musei hanno un
ruolo differente perché possono dare alla gente qualcosa di più sostanziale del
puro divertimento. Ma attenzione: questo non significa essere noiosi,
altrimenti si fallirà. Bisogna pensare continuamente al modo per attrarre
un’ampia fascia di pubblico, dai 3 ai 93 anni. Una grande sfida che contiene
anche un alto rischio di commettere errori.
Quando qualcuno paragona
l’Albert Dock di Liverpool al Guggheneim di Bilbao, facendo riferimento a
quello che viene definito l’”effetto Bilbao”, lo studioso non è completamente
d’accordo, principalmente perché il Guggheneim di Bilbao, a suo parere, in
fondo è una meravigliosa opera di architettura con opere che provengono da New
York, ma non rappresenta proprio il concetto di museo della città. L’Albert
Dock, invece, è qualcosa di diverso: nel suo insieme il complesso è un museo della città, con la città,
per la città. Nello stesso tempo, però, raccomanda Fleming, bisogna anche
guardare oltre i confini della città, perché ogni cittadino britannico che paga
le tasse sta finanziando i musei di Liverpool, perciò – afferma – «prendiamo questa responsabilità seriamente».
«Il principale errore
che i musei possono commettere è non avere passione», ha detto lo storico
britannico David Fleming nell’ambito della conferenza argentina. In quella
circostanza lo studioso ha analizzato il concetto di museo democratico, un’idea che
Fleming ha sviluppato sin dalle sue prime esperienze nel mondo museale, a
partire dal 1981. Prima di affrontare l’argomento, però, è necessario
fare un passo indietro, ripercorrendo anche quella che è stata la formazione di
Fleming.
Uno dei maestri di Fleming è stato l’americano Stephen Weil,
scomparso nel 2005, uno tra i museologi più importanti sullo scenario
internazionale, vice direttore dell’Hirshhorn
Museum dello Smithsonian and Sculpture Garden dal 1974 al 1995 e uno degli
ispiratori e dei promotori della creazione dell’International
Committee on Management di Icom. La principale teoria sui musei di Weil era
che non c’è un solo museo
uguale ad un altro (in
qualche occasione anche dalle pagine di questo blog abbiamo parlato di
“personalità” dei musei), eppure tutti i tipi di musei, o quasi tutti i tipi,
dovrebbero conformarsi ad un unico modello di comportamento. Questo modello,
descritto da Weil come “nuovo e potenzialmente dominante”, è il cosiddetto
modello di “impresa sociale”.
Il museo inteso come
impresa sociale potrebbe dunque «trarre
la sua legittimità da quello che fa, piuttosto che quello che è» - afferma Stephen Weil. Ma quando egli
evidenzia che questo museo dovrebbe,
soprattutto, «considerare le sue collezioni e le altre risorse come mezzi in
vista della realizzazione dei suoi obiettivi imprenditoriali, e non come fini a
se stessi», non propone che il fine dei musei sia la produttività
finanziaria, e infatti aggiunge che: «senza
valore sociale, il museo è nulla. È inutile e non merita l’interesse di alcuno
e tanto meno il supporto».
Weil voleva che i musei
esistessero per qualcuno, non
per qualcosa. In un suo saggio – ricorda Fleming – scrisse almeno sette
frasi in cui ricorreva la parola “sociale”: voleva "attivismo
sociale", "miglioramento sociale", "promozione
sociale", "servizio sociale", "sviluppo
sociale”, " cambiamento sociale ". Voleva un "risultato
sociale".
Fleming ha cercato di
sviluppare ulteriormente il modello di museo proposto da Weil. «Io sono uno
storico» - afferma - «ma ho sempre desiderato prendere i libri di storia
e farli essere parte della vita delle persone, per riportare la storia stessa
alla vita».
I quattro sotto-modelli
museali di David Fleming:
Partendo dal modello di
“museo impresa sociale” di Weil, Fleming ha elaborato dei “sotto-modelli”
attraverso i quali ha cercato non di proporre non uno schema rigido ma alcune
prassi attraverso le quali i musei possono realizzare importanti cambiamenti
sociali o raggiungere dei risultati in ambito sociale. I sotto-modelli sono
stati contrassegnati ciascuno con un nome che ne evidenzia le caratteristiche.
Essi sono: il museo "defibrillatore", il museo "psicologo
collettivo", il museo "portatore di libertà" e il museo
"scala per il paradiso".
Il museo “defibrillatore”
Rientrano in questa
categoria i musei che sono stati creati per rivitalizzare una zona dal punto di
vista economico. I benefici sociali, in questo caso, possono essere secondari e
accidentali, ma anche molto concreti. Di solito sono musei di nuova
progettazione; sono il prodotto di un'epoca in cui la rigenerazione economica è
un potente strumento dello stato o del governo della regione o della città. Tra
questi possiamo citare come esempio il Guggenheim
di Bilbao, un museo d’arte ospitato nello spettacolare edificio di Frank Gehry, fatto sorgere dal
nulla in una città industriale decaduta al fine di migliorare la sua immagine e
la sua attrattiva turistica. Musei defibrillatori come il Guggenheim ce ne sono
tanti e sparsi in varie parti del mondo. Fleming cita, nel suo Paese, l'Imperial War Museum North,
che ha contribuito a rigenerare la zona portuale di Trafford, e il Merseyside Maritime Museum, che
ha dato il via alla rigenerazione del centro storico di Liverpool e del
decaduto complesso dell’Albert Dock, nel 1980.
Il museo “psicologo
collettivo”
Il secondo sotto-modello è
il museo inteso come “psicologo collettivo”. Questo è un museo che ha un
rapporto speciale con la popolazione locale. Per alcuni questo è un cliché poco
realistico, ma di sicuro il museo può svolgere un compito prezioso nell’aiutare
la gente a riavere fiducia in se stessa, promuovendo il coinvolgimento e
l'attività della comunità, la costruzione di nuove competenze o il superamento
dell'isolamento sociale. Questo museo promuove l'identità locale e di solito si
tratta di un museo storico o etno-antropologico.
La storia ha un’importanza
maggiore di quello che si può credere: una società consapevole del suo passato
non può non avere fiducia nel suo futuro. La storia educa e ci influenza, e le
generazioni future ci giudicheranno proprio per come avremo esercitato il
compito di custodi del nostro passato.
Un esempio di museo di
questo tipo è il South Shields
Museum & Art Gallery, nel nord-est dell’Inghilterra. Fleming lo ha
diretto negli anni Novanta, quando South Shileds registrava il più alto tasso
di disoccupazione della Gran Bretagna occidentale, aveva problemi sociali di
vario tipo e una giunta comunale rissosa. Eppure il museo era un fenomeno
nazionale che riusciva ad attrarre più visitatori dei più importanti e ricchi
musei del nord-est e anche di altre zone. Come mai? Eppure era un museo senza
grandi pretese, con collezioni di importanza puramente locale, aree di visualizzazione
limitate, uno staff ridotto al minimo e bilanci trascurabili. L’unico pregio
era, forse, che possedeva il miglior sito che si possa immaginare, proprio
sulla via principale che attraversa il centro della città. Quello, però, che lo
distingueva dagli altri musei era il suo alto senso dell’accoglienza: il museo
era un luogo-rifugio dove trovare un po’ di comfort e divertimento o dove
acquistare qualche souvenir poco costoso; un posto dove lasciar correre i
bambini o semplicemente dove cercare di rifugiarsi dalla pioggia. La mostra più
popolare era stata “Muffin il mulo”! «Ma la mia fortuna» - racconta lo studioso
britannico - «è che c'era un potente, naturale senso di proprietà collettiva
che circondava il luogo. Può essere esagerato dire che il museo era il luogo
più importante della città, ma, di certo era il museo più attivo della Gran
Bretagna, fatto ancora più sorprendente se si pensa che era ubicato in quella
che molti osservatori sociali avrebbero definito una città senza speranza.
Credo che il museo abbia dato e dia ancora, spero, alla gente locale,
attraverso la sua sfacciata e accessibile rappresentazione della vita
ordinaria, qualcosa che può essere soddisfatto, forse anche qualcosa di cui
essere orgogliosi».
Bisogna puntualizzare che
quando si parla di “coinvolgimento” o di “partecipazione” della comunità alla
vita del museo, non si intende, per Fleming, che si debba consegnare la totale
responsabilità dei contenuti del museo alla nostra comunità locale, nel
tentativo di fare in modo che il museo abbia maggiore rilevanza e valore. «Credo
che questa tendenza sia troppo estrema» - afferma lo storico. É necessario,
invece, che il museo sia in grado di fornire un apporto importante in termini
di interpretazione della storia sociale. Si tratta, dopo tutto, di un ruolo per
il quale noi curatori siamo stati formati, mentre è improbabile che tutti i
membri della comunità possano avere lo stesso grado di competenza nella storia
locale.
Ciò nonostante, è
imperativo che si trovi il giusto equilibrio per garantire da un lato il
compito di interpretazione svolto dai professionisti del museo, dall’altro la
partecipazione del pubblico. Il modo migliore è trovare dei meccanismi che
utilizzino elementi che si riferiscono alla storia locale o che abbiano un
forte sapore locale, in modo che l'esperienza personale si intrecci con i
contenuti proposti dal museo. Come si può garantire un dialogo costante e
sempre vivo? Attraverso i mezzi di cui dispone il museo: per esempio
l’allestimento di mostre continue su argomenti sempre nuovi e differenti. E’
quello che si propone di mettere in atto Fleming nel nuovo Museo di
Liverpool: è importante essere in grado di coprire una vasta gamma di
argomenti nel corso di un anno, relativi sopratutto alla storia recente o alla
società contemporanea. Questo si intende quando si parla del museo come
“psicologo collettivo”, vicino ai problemi delle comunità e dei singoli
individui.
Il museo “portatore di
libertà”
Il terzo sotto-modello è
quello che Fleming definisce il museo “portatore di libertà”. E’ un museo che
si occupa di diritti umani, quindi strettamente collegato al secondo
sotto-modello, ma che, a differenza di questo, avrà spesso risonanza e
importanza internazionale.
E’ un museo arrabbiato,
perché la lotta contro l’ingiustizia permea il suo essere. Parla di
comprensione, di tolleranza, di rispetto e di riconciliazione, ma si propone
anche di reclutare, trasformare e rimodellare la consapevolezza del visitatore
sui principi di equità e di democraticità. Un esempio è l’International Slavery Museum di
Liverpool che si prefigge di
esplorare la storia e l'eredità derivata dal commercio transatlantico di
schiavi, fonte della ricchezza della Liverpool del passato.
Anche se questa è una
grande storia internazionale che Fleming si augura che possa avere ampia
risonanza, il museo non tralascia di affrontare anche le questioni locali, in
particolare il razzismo dei nostri giorni, che caratterizza la città. Questo è
un fatto curioso dato che Liverpool è stata una città multirazziale già 250
anni fa, quando le altre città britanniche erano, invece, del tutto
monoculturali. Ciò nonostante, la comunità nera di Liverpool, attualmente si
sente alienata, sottovalutata e assediata. Il Museo di Liverpool, allora, cerca
di mettere in discussione il razzismo e l'intolleranza, e lo fa cercando di
dare una nuova, potente voce alla comunità nera di Liverpool. La speranza è
quella di ottenere esiti sociali significativi, sfidando l'ignoranza e
l'incomprensione, e invitando la comunità locale a riflettere sulla propria
identità e sulla propria storia, e, non da ultimo, cercando di dimostrare, per
esempio, che senza la schiavitù transatlantica e la trasmutazione della musica
africana in America, non ci sarebbero stati i Beatles, i quattro ragazzi di
Liverpool che hanno cambiato la cultura popolare occidentale. Un argomento che
dovrebbe convincere anche i levercensi più ostinati!
Il museo “scala per il
paradiso”.
Il quarto e ultimo sotto-modello
proposto da Fleming è il museo inteso come “scala per il paradiso” (Stairway to
Heaven). Per lo studioso questo è il più prezioso ed emozionante di tutti. In
realtà, può essere qualsiasi tipo di museo, può interessare ogni disciplina,
ogni ambiente, ogni epoca. Avrà un forte richiamo soprattutto per i bambini,
anche i più piccoli, ma potrà funzionare e comunicare a molti livelli.
Questi livelli sono i
gradini di una scala che portano i visitatori da dove sono a qualche altra
parte. Il museo, quindi, è in grado di creare una trasformazione, un
cambiamento nel visitatore, e questo può accadere a chiunque, per quanto possa
essere colto e competente, anche se la trasformazione più magica resta quella
che si può attuare in un bambino.
L’esperienza di un giovane
visitatore è più legata al divertimento che all’apprendimento formale, ma
bisognerebbe fare in modo che la trasformazione operata dal museo prosegua,
poi, negli anni, così che, strato su strato, o gradino su gradino, si possano
acquisire tante esperienze culturali e formative più complesse, non solo
attraverso il museo ma, si spera, anche in tante altre occasioni che
formeranno, appunto, i gradini della scala.
E’ un museo, questo, che
punta molto sul fattore educativo e sulla capacità di far vivere delle
esperienze costruttive per la vita dei suoi visitatori. Ma un museo, come si è
detto, può esercitare la sua azione attraverso una varietà di strumenti, non
solo attraverso l’esposizione delle sue collezioni. Fleming ha sperimentato
anche un tipo di progetto educativo «a distanza», per raggiungere quelle
categorie di pubblico che più difficilmente entreranno in un museo. Tra queste,
per esempio, le famiglie a basso reddito, le comunità delle minoranze nere o di
immigrati, i disabili, gli adulti poco scolarizzati, con difficoltà di
apprendimento o con vari altri problemi, e gli anziani. Tutti sono stati
coinvolti in attività di vario tipo, perché la bellezza di un museo è proprio
la sua flessibilità e il fatto che possa adattarsi a tutti. Vi è un’infinità di
modi per accogliere le persone e per essere loro utili, «nessuno deve
pensare che lì non ci sia niente per lui» - afferma Fleming.
Tornando al concetto di
museo democratico, è necessario considerare che la democrazia non è affatto un
valore definitivamente acquisito nel mondo occidentale capitalistico. Secondo
alcuni, la nostra è ormai una società senza classi, ma evidentemente, afferma
Fleming, questa è l’opinione di chi non vive nelle case popolari di Liverpool o
di Manchester, di Leeds, Newcastle o Londra, i cui residenti potrebbero non
sottoscrivere con fiducia questa ottimistica visione.
E’ vero che dal 1960 le
differenze tra le classi sociali sono diventate meno nitide, ma in fondo, ama
dire ironicamente Fleming, «gli inglesi non sono molto democratici» e
così «la fragilità della democrazia britannica ha finito per investire anche
il settore museale».
«Quando, nel 1981, ho
iniziato la mia carriera» - ricorda - «ho sviluppato l’idea di museo
democratico a sostegno delle trasformazioni che stavano emancipando la classe
operaia. Ero molto ingenuo. Mi sono subito reso conto che stavo delirando
perché i musei, in realtà erano nati e si erano evoluti come luoghi per le
persone colte, alle quali non interessava l’educazione delle altre persone».
I musei britannici, in
effetti, sono stati fondati nel XIX secolo per celebrare le conquiste della
classe industriale. Sono nati, quindi, in una società dominata da una élite
colta, e la maggior parte della popolazione non ha avuto alcun coinvolgimento
nel loro processo di formazione. La maggior parte di questi musei era gestita
come un circolo privato, non a vantaggio della popolazione in generale.
La classe operaia ha visto
un cambiamento in meglio durante i sei governi del Partito laburista, tra il
1918 e il 1974, anche grazie alla crescita dell'influenza del movimento
sindacale. Ma quando, successivamente, il governo di Margaret Thatcher ha
accentuato i divari sociali e ha determinato l’annullamento dei sindacati, la
situazione è nuovamente peggiorata. In quella circostanza i musei non sono
stati in grado di svolgere la loro azione sociale perché non hanno colto i
disagi e le nuove necessità delle classi lavoratrici che, gradualmente,
perdevano i loro diritti. I musei hanno tradito, in tal modo, i principi su cui
si fonda il museo democratico.
Attualmente, sempre in
riferimento allo scenario britannico, la disoccupazione si è ridotta nuovamente negli anni '90 e nei primi anni del 21° secolo. La situazione
sociale e politica è in evoluzione ma è sempre più difficile parlare delle
classi lavoratrici e dei loro problemi, anche se usiamo abitualmente il termine
“cultura popolare” che a tutti gli effetti ha soppiantato il termine “cultura
della classe operaia”, mentre in pratica significa la stessa cosa.
Il cambiamento, secondo
Fleming, deve allora venire dalla creazione di un nuovo modello di museo
popolare che riesca ad attrarre un pubblico che sia il più vasto possibile. Ma
questa trasformazione non può essere attuata se la gestione dei musei è ancora
affidata ad «una élite che non accetta che il mondo abbia gusti diversi e
che esige solo un silenzio reverenziale dinanzi alla cultura».
Chi dirige un museo,
invece, dovrebbe chiedersi innanzitutto che cosa contiene e in che modo una
istituzione culturale come il museo possa diffondere tali contenuti tra la
gente.
Un museo democratico «attira
una folla eterogenea, ha una programmazione varia e opera su diversi livelli, è
socialmente responsabile, coinvolge il pubblico, lo fa partecipare, si basa sul
dialogo, non ha paura del dibattito, della polemica, delle opinioni, ma anzi le
sollecita. Un museo democratico può lottare per la giustizia e i diritti umani».
Fleming puntualizza che un
museo democratico, tuttavia, «non è contro gli accademici e gli intellettuali:
anzi, esso esige che gli accademici e gli intellettuali abbiamo buone
collezioni e possano svolgere ricerche eccellenti» perché questo va a vantaggio
di tutti. Come esempio lo storico inglese cita il Museo delle mine antiuomo di Pnhom
Pehm, in Cambogia, «un luogo che educa sulla storia e sulle conseguenze
della guerra in quel paese, come potrebbe fare qualsiasi altra istituzione del
suo genere, ma che dà anche un alloggio ai bambini che sono stati vittime di
conflitti e assiste coloro che hanno subito amputazioni (durante la guerra
civile che ha insanguinato il regime dei Khmer rossi). Questo museo non è solo
uno spazio espositivo ma è anche un luogo di guarigione per i corpi, i cuori e
le menti».
Fleming è convinto che i
musei possono influenzare la vita delle persone, ma, proprio perché sono
investiti di questo importante compito, «se falliscono, tradiscono la
società».
E’ un concetto, questo,
che dovrebbero tenere a mente alcuni decisori delle amministrazioni locali
italiane che in questi ultimi mesi sembrano voler vedere nei musei soltanto un
patrimonio immobiliare da sfruttare o da “mettere a reddito”, per usare
un’espressione diventata di moda in ambito culturale, dimenticandosi che i
musei sono molto di più e che sono un valore soprattutto in misura di ciò che
riescono a fare per la società.
«La magia di un museo»
- afferma Fleming - «è saper attrarre adulti e bambini con gli stessi
strumenti, il che non significa riempire i musei di computer o coprirne le
pareti con testi che nessuno leggerà». E’ anche importante essere
realistici e capire che la gente riceve tante sollecitazioni, da altre
istituzioni, dai media, dalle proprie esperienze o dalle altre persone. Perciò
non bisogna neppure caricare il museo di un eccesso di aspettative. La cosa più
importante è che il museo sia intelligentemente integrato nel suo ambiente
sociale, in modo che sia in grado di svolgere il proprio ruolo pienamente. Il termine
“collaborazione” forse ultimamente troppo abusato, comincia ad avere un
significato se è collocato in questo campo d'azione.
Un museo socialmente
sostenibile – secondo la teoria proposta dallo storico britannico - dovrà
lanciare un messaggio inequivocabile e chiaro che faccia capire che il pubblico
è al primo posto in ogni sua azione e che non si giustificherà alcuna
esclusione. Questo si ottiene con la passione, l'impegno e il coraggio (forse
anche con l’ostinazione e l’intransigenza), e si può raggiungere con la messa a
punto di sistemi, strutture, standard, e con un’adeguata gestione del rischio.
Non può prescindere, inoltre, dal lavoro di squadra e da un approccio
multidisciplinare.
In
definitiva, il museo democratico deve essere condotto da iconoclasti che
cercheranno di rovesciare lo status quo, superando il conservatorismo e le
vecchie mentalità. La direzione di un museo socialmente responsabile formerà
uno staff adeguato che, con i propri atteggiamenti e comportamenti, mostri un
genuino rispetto per il pubblico e per tutte le sue diversificazioni. Si
cercherà di comprenderne gli interessi, le aspirazioni e i gusti per orientare
su queste le proprie offerte culturali. La missione del museo dovrà essere
orientata verso l'esterno, a «guardare le stelle, invece di guardarsi
l'ombelico!» - sintetizza efficacemente Fleming, che aggiunge: «non
servono grandi budget per attirare il pubblico, ma occorre soprattutto essere
sensibili e creativi. La passione non costa niente».