Lo sharing fotografico è vera comunicazione?

Un’analisi del fenomeno delle Invasioni Digitali in vista del convegno “Digital Think-In. La voce digitale dei musei”


Il prossimo 4 novembre si svolgerà, a Roma, il convegno “DigitalThink-In. La voce digitale dei musei”, organizzato dal MAXXI, che si annuncia come “il primo evento di cultura digitale rivolta ai musei in Italia”.

Tra i partecipanti al convegno, per il quale è aperta anche una #DITcall per la presentazione di casi studio inerenti il tema in oggetto, vi saranno James Davis, Program Manager di Google Art Project (Londra), Antonella Di Lazzaro, Direttore Media Twitter Italia (Milano), Conxa Rodà, Head of Strategy and Communication – Museu Nacional d’Art de Catalunya (Barcellona), Gruppo MUD Museo Digitale, MiBACT (Roma) e Prisca Cupellini, Comunicazione Online e Progetti Digitali, MAXXI (Roma), Francesco Russo, Consulente Web e blogger, Marianna Marcucci, Cofounder di Invasioni Digitali e Alessandro Bollo, Cofounder e responsabile ricerca della Fondazione Fitzcarraldo.

Il movimento Invasioni Digitali, dunque, è ancora una volta presente in un convegno in cui si discute di comunicazione digitale, ma il fenomeno Invasioni non è stato ancora oggetto di analisi approfondite da parte degli esperti. Siamo realmente di fronte ad un modello di comunicazione digitale? Tenterò di argomentare la mia personale opinione al riguardo.


Media tradizionali e media digitali

Rispetto alla comunicazione mediatica tradizionale, nella forma digitale si verifica il passaggio dalle relazioni lineari a quelle reticolari; il messaggio può essere veicolato attraverso vari ambienti digitali (sito Web, comunità virtuali), ma l’aspetto più importante della comunicazione digitale - e che la differenzia da quella tradizionale - è soprattutto la presenza di un dialogo interattivo tra gli utenti, basato sulla condivisione e la partecipazione. Senza che si verifichi questa condizione non è possibile ravvisare una effettiva diversità tra le due forme di comunicazione.

Se si analizza più nel dettaglio l’ultima Invasione Digitale, dal punto di vista della comunicazione social si rilevano poche interazioni effettivamente incentrate sui contenuti e solo un cospicuo numero di immagini (soprattutto le locandine che pubblicizzano gli eventi e le foto di “Invasione compiuta”): quindi le Invasioni sono sì avvenute ma non sono state sufficientemente raccontate durante il loro svolgimento. Durante alcune manifestazioni speciali non dichiaratamente “digitali” (pur avendo ugualmente una notevole propagazione sui social e su altri media) come le Giornate Europee del Patrimonio o altre iniziative similari, i musei hanno sempre dato vita ad iniziative interessanti con grande successo di pubblico; da cosa si dovrebbero distinguere, dunque, le Invasioni Digitali da queste manifestazioni speciali?

La coerenza vorrebbe che fosse una maggiore partecipazione “social” all’evento: ciò, infatti, è l’aspetto determinante in una manifestazione che si auto-definisce “digitale”. In termini molto semplici, ciascuno dei partecipanti dovrebbe essere la vista e l’udito di chi non è presente all’evento ma che verrà coinvolto come se lo fosse; dovrebbe mettere in rete le proprie sensazioni, esprimendo le emozioni e i pensieri che emergeranno dalla sua esperienza culturale e condividerla con altre persone, intessendo un dialogo con esse. Se la comunicazione consiste, invece, nella semplice informazione del luogo, data e ora che riguardano l’evento, in qualche breve nota descrittiva, in un grande numero di immagini poco commentate e, infine, nella notifica di “Invasione compiuta”, non si potrà parlare di vera comunicazione digitale. Nella maggioranza dei casi, infatti, come si è rilevato, l’interazione non è stata significativa soprattutto in termini di contenuti e non sono stati incoraggiati né live storytelling (pochi i casi) né altre forme di comunicazione partecipata. “Raccontare” gli eventi, dunque, è ciò che dovrebbe fare la differenza[1]. Scrive Tomaso Montanari che “Il patrimonio è un grande repertorio, proprio come il teatro o la musica: se nessuno lo esegue – e cioè se nessuno lo narra, facendolo risorgere – rimane inerte, morto, perduto”.

Inoltre, la stessa sovrapproduzione di immagini produce effetti negativi in quanto rende il pubblico meno sensibile e attento ai dettagli.

Insieme alla perdita di attenzione per le foto e per i soggetti delle foto, si rischia di banalizzare e di disperdere nell’eccesso di immagini anche gli “sfondi” di questi selfie che sono i musei e tutti gli altri luoghi di interesse storico e monumentale. Le foto, dunque, e tanto più i selfie, non possono essere considerati dei veri e propri contenuti se non sono adeguatamente didascalizzati e commentati a meno che non possiedano l’eloquenza visiva delle opere di grandi fotografi come Robert Capa. Ma per la maggioranza di noi non è così. Giustamente uno dei più noti fotografi italiani, Ferdinando Scianna, ci ricorda che “nessuno segue con interesse chi sta continuamente in posa”.

Un contesto che non produce contenuti, non perché le iniziative che pubblicizzano non siano valide, ma perché è mancato l’impegno nel trovare adeguate forme di trasferimento delle informazioni che vadano oltre lo sharing fotografico, non porterà alcun tipo di beneficio nemmeno al soggetto culturale che avrebbe dovuto promuovere.

Scrive, a questo proposito, Valentina Vacca:

Per #InvasioniDigitali il pubblico non è più tale, ma è «partecipativo all’offerta culturale». Nel loro manifesto essi proclamano di credere: «in un nuovo rapporto fra il museo e il visitatore basato sulla partecipazione di quest’ultimo alla produzione, creazione e valorizzazione della cultura attraverso la condivisione di dati e immagini. Crediamo nella semplificazione delle norme per l'accesso e riuso dei dati dei Beni Culturali per incentivarne la digitalizzazione. Crediamo in nuove forme di conversazione e divulgazione del patrimonio artistico non più autoritarie, conservatrici, ma aperte, libere, accoglienti ed innovative». Per tradurre tali parole, è sufficiente compiere un’esplorazione nel sito dedicato alle #InvasioniDigitali: al suo interno si trovano una serie di selfie scattati entro musei e luoghi della cultura che hanno come soggetti i visitatori. E’ come se “invadere” –come loro stessi definiscono la visita da parte del pubblico i musei, i monumenti e in generale i luoghi della cultura e poi caricare una foto su internet, equivalga in automatico a trasmettere la conoscenza. Come se digitalizzare la cultura coincida con il mero, semplicistico quanto banale processo di sharing delle immagini delle opere d’arte, delle performance, dei beni immobili. Che sia proprio come disse Baudrillard (1995), ossia che «la maggioranza silente ricerca l’immagine e non il significato».


Il fatto che a prevalere siano più l’apparenza, più il volume della partecipazione e meno il contenuto, mi è stato in qualche modo dimostrato, in occasione della recente Social Media Week, dalla community manager di un museo, la quale ad una mia osservazione riguardo il fatto che le Invasioni Digitali non sono uno strumento di diffusione culturale vero e proprio, replicò che “a loro bastava veder entrare la gente nel museo”: ciò equivale a dichiarare che l’unico scopo che si vuole perseguire è quello di “conteggiare” il numero di visitatori. Sono convinta che questo pensiero non sia quello che contraddistingue tutte le istituzioni museali che hanno aderito in questi anni ad Invasioni Digitali, ma in ogni caso è indicativo che questa iniziativa abbia potuto generare in alcune persone un tale tipo di ragionamento, supportato dall'errato concetto, troppo spesso avallato dai media, che sia più rilevante la quantificazione degli ingressi piuttosto che la misurazione dell’efficacia delle proposte culturali offerte dai musei. E’ fondamentale, allora, che i musei assumano il ruolo di mediatori tra i fabbricanti della comunicazione digitale e la società, ma per farlo non devono restare essi stessi imprigionati dalle logiche del “Viral Style” e da ogni forma di estremismo della comunicazione digitale; devono aprirsi, invece, a più ragionate e originali forme di condivisione di contenuti e di partecipazione culturale, anche attraverso il Web 2.0.


La strategia comunicativa delle Invasioni Digitali

Inizialmente le Invasioni Digitali avevano focalizzato molta della loro attenzione intorno al problema del divieto di fotografare nei musei, poi superato dal Decreto Legge 31 maggio 2014, n. 83. Fu creato un manifesto che mise insieme diversi concetti relativi al rapporto tra il museo e il visitatore, all’utilizzo dei social media per la comunicazione culturale, alla libera circolazione delle idee ed altri ancora. Ad una attenta lettura di tale manifesto si ha l’impressione che siano state toccate troppo tematiche, talvolta in modo ripetitivo e anche slegate tra loro, perfino contradditorie: per esempio si richiede alle istituzioni di essere “piattaforme aperte di divulgazione, scambio e produzione di valore, in grado di consentire una comunicazione attiva con il proprio pubblico”, il che implica anche avere un ruolo di coordinamento e di controllo dei contenuti, e nello stesso tempo si reclamano “forme di conversazione e divulgazione del patrimonio artistico non più autoritarie”, riducendo, quindi, il ruolo guida dell’istituzione museale, determinato dalla sua autorevolezza scientifica e da cui non si può prescindere. Non è riscontrabile alcuna elaborazione personale dei concetti esposti nel manifesto, i quali vengono solo elencati ma non sviluppati e commentati.

Ancora nel manifesto di Invasioni Digitali non si chiarisce in che modo “Internet sia in grado di innescare nuove modalità di gestione, conservazione, tutela, comunicazione e valorizzazione delle nostre risorse”, come se Internet fosse di per sé capace di produrre questi cambiamenti e più di quanto non abbia fatto sessant’anni fa la televisione, per esempio, unificando culturalmente l’Italia e combattendo l’analfabetismo. L’enfatizzazione della comunicazione Web 2.0 non è utile a dimostrarne l’efficacia in ambito culturale. In realtà, i media - che siano di vecchia o di nuova generazione - sono validi solo in base all’uso che se ne fa, come giustamente rilevano Pier Cesare Rivoltella e Chiara Marazzi secondo i quali “non esistono media di serie A e di serie B[2]” in quanto la comunicazione dell’età digitale li include necessariamente tutti. Sono in atto delle trasformazioni cui ci stiamo gradualmente abituando e che vede i vecchi e nuovi media integrarsi al punto che si può parlare “di mediamorfosi, di remediation, di era della complementarietà[3].  E’ vero, inoltre, che l’accesso ad Internet ci regala più semplici e immediati strumenti di espressione individuale, ma forse non si sottolinea abbastanza che ci sono ancora limitazioni al suo uso, identificabili in ragioni di tipo economico, culturale, anagrafico o sociale, come pure ci sono posizioni ideologiche che determinano il rifiuto dell’uso dei social network. Chi si occupa di strategie di comunicazione, pertanto, deve considerare il contesto digitale con adeguato equilibrio, senza esaltarlo ma senza trascurarlo, perché “non essere connessi” non significa “non esistere” e dunque bisogna porsi l’obiettivo di raggiungere anche chi si trova al di fuori del mondo digitale.

Quando, invece, nel manifesto di Invasioni Digitali si legge: “Crediamo che internet ed i social media siano una grande opportunità per la comunicazione culturale, un modo per coinvolgere nuovi soggetti, abbattere ogni tipo di barriere, e favorire ulteriormente la creazione, la condivisione, la diffusione e valorizzazione del nostro patrimonio artistico” si descrive in modo semplicistico una situazione che presenta, come già detto, aspetti molto più complessi.

La strategia principale di Invasioni Digitali può essere equiparata, allora, piuttosto alla messa in atto di un Brand Identification System in cui principalmente si enfatizza la partecipazione all’evento e nel contempo si cerca di dare all’insieme il valore di un “movimento di pensiero” ma senza alcun tipo di ricerca teorica. I partecipanti sono considerati sempre come un corpo unitario, senza mettere in risalto le specifiche personalità e individualità che lo compongono: non è il messaggio dei singoli partecipanti a prevalere, ma il “brand”, quasi come se si trattasse di “marketing virale”. Tenendo ancora presente il confronto con le strategie del marketing pubblicitario, si nota, per esempio, un grande utilizzo di slogan (“We love this game”, “Veniamo in pace”, ecc.,) che, unitamente alla costante esposizione del logo Invasione Digitale, hanno lo scopo di favorire il brand engagement. Inoltre, nelle linee guida per i partecipanti di Invasioni Digitali si raccomanda di seguire alcune azioni prestabilite: non mi riferisco alle regole pratiche che sono necessarie in qualsiasi tipo di manifestazione che comporti una procedura di adesione da parte del pubblico, ma alla richiesta di svolgere precise azioni nel corso dei propri eventi, producendo, in tal modo, un eccesso di massificazione e una diminuzione dello spazio riservato alla creatività dei singoli. Si chiede, infatti, di utilizzare il cartello “Invasione compiuta” in cui deve campeggiare il logo di Invasioni Digitali e, in aggiunta, di stampare, sempre dal sito di Invasioni Digitali, una “maschera” predeterminata, che gli Invasori dovranno indossare o comunque mostrare nei propri selfie. Queste richieste contribuiscono a “spersonalizzare” le iniziative, aumentando il valore del “brand” a scapito dei messaggi che i promotori e i partecipanti dei singoli eventi avrebbero potuto essi stessi veicolare in modo più originale e soggettivo. L’idea della maschera mi pare, a questo proposito, quanto mai emblematica: una maschera, il simbolo delle Invasioni Digitali, si sovrappone al volto dell’”Invasore” e al monumento stesso, occupando una posizione preminente rispetto all’uno e all’altro.







Avendo voluto sperimentare le prime due Invasioni Digitali, posso affermare con cognizione di causa che la sensazione avuta è stata quella di essermi trasformata in uno strumento al servizio di un movimento che mi lasciava poco spazio per agire con modalità mie proprie. Fotografarsi con un cartello in mano recante il logo dell’organizzazione non è propriamente un’azione esaltante dal punto di vista intellettuale.

Ma forse è inevitabile che anche nel settore culturale prendano forma tali fenomeni considerando che Erich Fromm, già quarant’anni fa profetizzava una società uniformata e dominata dai modelli della comunicazione pubblicitaria[4]. Il rischio, però, è che si perda “il senso profondo di ciò che facciamo dal momento che non siamo propriamente noi a farlo; il nostro agire non è espressione della nostra autentica personalità ma è determinato dai dettami della massa a cui “dobbiamo” prestare ascolto e a cui dobbiamo sacrificarci essendovi continuamente esposti[5].

Fino a due anni fa, eravamo ancora in una fase in cui le istituzioni museali si mostravano in buona parte diffidenti e poco propense ad utilizzare i mezzi di comunicazione digitale, in particolare i social network; dopo la prima edizione della Museum Week[6], nel marzo 2014, si è assistito ad un incremento considerevole di account istituzionali dei musei, per cui ora siamo entrati in una seconda fase in cui sembra prevalere l’entusiasmo per un nuovo modo di rapportarsi con il pubblico. Questo può essere sicuramente un fatto positivo ma l’impressione è che si stia formando un’immagine distorta della missione del museo che sembra debba costruire la sua “modernizzazione” solo con il concorso di queste nuove forme di comunicazione, mentre il vero museo moderno è soprattutto quello che sa riconoscere i bisogni della propria comunità, che è in grado di analizzare le problematiche dei tempi attuali e che sa offrire un luogo di scambio e di dialogo a ciascuno, senza alcun tipo  di barriera.

L’auspicio è che si giunga a coniugare in modo corretto ed equilibrato l’uso degli strumenti della comunicazione digitale con i principi dettati dalla nostra coscienza umanistica, quella che “funge da sentinella, richiamo, segnale, bussola di orientamento, guida, custode del nostro vero essere, della nostra natura umana universale e della soggettività del nostro Io[7]”.





[1] In un post del 30 aprile 2015 del mio blog Museums Newspaper, citai UrbanExperience come esempio eccellente ed evoluto di disseminazione partecipata della cultura utilizzando gli strumenti del Web 2.0 

[2] Rivoltella P. C., Marazzi C., “Le professioni della media education”, Roma 2001, p. 22

[3] Totaro A., “Dinamiche di interrelazione tra blogosfera e mediasfera” in C.I.R.S.D.I.G, Centro Interuniversitario per le ricerche sulla Sociologia del Diritto e delle Istituzioni Giuridiche, Quaderni della Sezione: Diritto e Comunicazioni Sociali, Working Paper n. 29, Dipartimento di Economia, Statistica, Matematica e Sociologia “Pareto”, Facoltà di Scienze Politiche, Università di Messina, 2008, p. 5

[4] Cerracchio C., “La manipolazione. Bernays e gli psicomarchettari”, Società & Psiche, 9 novembre 2012, http://www.psicologiaradio.it/2012/11/09/la-manipolazione-delle-masse-bernays-e-gli-psicomarchettari/

[5] Lattanzi P., “La società malata. L’umanesimo di Erich Fromm tra Marx e Freud”, e-book, 2015, p. 137

[6] La Museum Week è stata lanciata la prima volta nel marzo del 2014 da dodici musei nazionali francesi in collaborazione con Twitter France. In seguito l’iniziativa social si è diffusa su scala europea, con la partecipazione di svariati musei non solo europei. L’obiettivo dell’evento è quello di accedere attraverso Twitter a contenuti culturali proposti dai musei per poi interagire con i curatori.

[7] Risari G., “Coscienza umanistica, identità, ‘produttività’ e biofilia” in Erich Fromm, Publication of the International Erich Fromm Society, Italian-English conference “Death and the Love for Life in Psychoanalysis. In Memoriam Romano Biancoli“ on June 5-6, Ravenna 2010

In attesa del Sesto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei



Mancano 32 giorni al Sesto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei, il momento più atteso per tutti coloro che seguono l’attività dell’APM perché si tratta di una delle poche occasioni in Italia in cui si pone l’attenzione sulle realtà “minori” e “periferiche” del patrimonio museale nazionale. 
Si parla, però, non di un ambito minoritario, ma del 90% circa dei musei italiani; per questa ragione ci sorprende che di essi si discuta così poco: forse la causa è da individuarsi nel fatto che le politiche culturali sono in genere più orientate verso quelle istituzioni museali che meglio rispondono al bisogno di valorizzazione piuttosto che di tutela, di grandi numeri anziché di conservazione dei patrimoni locali. Allora forse noi siamo in controtendenza ma nonostante questo i nostri convegni attirano ogni anno un gran numero di uditori, fatto che dimostra che in realtà l’interesse intorno ai piccoli musei è molto alto.

Il nostro convegno è un’occasione di reciproco scambio perché non solo si discute di tematiche che riguardano la gestione dei piccoli musei, ma perché si cerca anche di dare voce a chi vi lavora. Conoscere questi che spesso definisco “casi studio” ma che forse sarebbe più corretto indicare come “storie di persone e di comunità”, sempre coinvolgenti e sorprendenti, è essenziale per comprendere la necessità di preservare questi luoghi, importanti non per il numero di visitatori ma soprattutto per la loro missione culturale e sociale.  

Gli esempi sono i più svariati: negli anni passati sono state presentate le esperienze di musei statali, regionali, civici, privati, gestiti da fondazioni e da associazioni; musei dislocati tanto in piccole città quanto in grandi centri. Il concetto di “piccolo museo” può essere applicato in molti casi e proprio su questo tema si sta svolgendo, ormai da due anni, una ricerca interna all’APM che condurrà alla definizione formale di “piccolo museo” e che potrà essere un punto di riferimento per gli studi futuri in questo ambito.

Grazie per i piccoli musei!” ha scritto un ex direttore di un piccolo museo americano, Frederick A. Johnsen, sul sito Museumerica. Si riferiva alla sua visita del Baker Heritage Museum, commentando così il suo entusiasmo: “Il Baker Heritage Museum esemplifica la gioia dei musei, puri e semplici. Le sue esposizioni e i diorami sono la prova che apprendimento e divertimento si possono trovare anche nei piccoli musei delle più piccole comunità. La mia visita mi ha ricordato di non trascurare musei come questo durante i miei viaggi attraverso il Paese”.

E’ lo stesso invito che anche noi dell’APM rivolgiamo a tutti coloro che ci seguono: non trascuriamo questi piccoli luoghi culturali perché molto spesso ci riservano emozioni ed esperienze non inferiori a quelle dei musei più noti e frequentati.

Vi aspettiamo a Massa Marittima, Palazzo dell’Abbondanza, il 2 ottobre dalle ore 15 e il 3 ottobre dalle 9.30.

Il futuro del patrimonio culturale

Che cosa dobbiamo attenderci dalla riforma Franceschini


E’ quanto mai curioso che uno Stato decida di risolvere i problemi degli organi periferici dei propri Ministeri, mi riferisco alle Soprintendenze, non cercando di ridare ad esse nuova linfa - per esempio favorendo nuove assunzioni, razionalizzando le spese, migliorando gli strumenti a disposizione dei funzionari - ma, anzi, impoverendole ancora di più fino a esautorarle del tutto. Sarebbe stato forse più coraggioso decidere di eliminarle d’un sol colpo, ma evidentemente si vuole prima portare all’attenzione dei media quelle che vengono giudicate inefficienze (ma che la maggior parte delle volte sono da attribuire, appunto, alla mancanza di personale e di risorse) in modo da ingrossare le fila di coloro che sono contro le Soprintendenze.
In tal modo la loro eliminazione sarà vista da tutti come il giusto epilogo di una storia fatta di scarsa produttività e pastoie burocratiche. Recentemente Salvatore Settis si è espresso su questo punto affermando, a proposito del Ddl Madia e del recente mega concorso per la direzione dei venti più importanti musei italiani, che “se questa riforma ha al centro i musei – in particolare i venti scelti come più importanti – dall’altro lato impoverisce di personale le soprintendenze territoriali. Quelle di Roma, Firenze e Napoli hanno nove storici dell’arte in tutto: come faranno a tutelare l’immenso patrimonio a loro affidato? Il vero punto per capire se questo governo rispetterà l’articolo 9 della Costituzione è se verranno fatte nelle Soprintendenze territoriali le massicce assunzioni di cui c’è assolutamente bisogno. Di questo si parla troppo poco”.
Anche per Tomaso Montanari il Ddl Madia rappresenta il "più grave attacco al sistema della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale mai perpetrato da un Governo della Repubblica italiana perché un potere tecnico (quello delle soprintendenze, una sorta di magistratura del territorio e del patrimonio) che rispondeva solo alla legge, alla scienza e alla coscienza da oggi confluisce nel potere esecutivo. Se il governo vuol fare un’autostrada in un bosco secolare o in un centro storico, lo chiede a qualcuno che è diretto dai prefetti: cioè sostanzialmente a se stesso”.
A che cosa condurrà questa operazione di smantellamento delle Soprintendenze? C’è la percezione di ciò che ci aspetta in un prossimo futuro, anzi, domani stesso, data la velocità con cui si stanno mettendo in atto questi cambiamenti: già si parla dei Grandi progetti beni culturali approvato dal Consiglio superiore del Mibact. Una parte di questi progetti è indubbiamente buona, ma ciò che lascia perplessi, per esempio, sono i 18,5 milioni di euro per il Colosseo e che riguarderanno un intervento di tutela e valorizzazione volto al ripristino dell'arena al fine di consentirne un uso sostenibile per manifestazioni di altissimo livello culturale. I timori sono più che comprensibili, data l'importanza del monumento, anche se il Ministro Franceschini ha dichiarato che non si pensa “alle partite di calcio proposte dal presidente della Roma o ai concerti rock. Ci saranno solo eventi di altissima qualità”.
E’ evidente, in ogni caso, che stiamo assistendo ad una vera e propria corsa alla “valorizzazione”, alla famosa “messa a reddito” del nostro patrimonio culturale, non vista da tutti con simpatia. Andrea Emiliani, per esempio, grande studioso, a lungo soprintendente di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna, si è espresso piuttosto duramente riguardo gli ultimi avvenimenti. Gli è stato chiesto se avrebbe partecipato al mega concorso voluto da Franceschini ed ha così risposto: “No, perché credo nel vecchio concetto italiano di applicare la competenza al luogo dove l’esperto si è formato. Uno studioso di arte piemontese non può andare in Sicilia. Io, che ho studiato a Bologna, non me la sarei sentita di spostarmi a Roma o a Milano. Sa su cosa si basa tutta la manovra? Sul concetto, falso, idiota, che invero precede Renzi, di “valorizzazione”. Quando se ne parla, si esce dalla storia dell’arte e si entra nello spettacolo. Tutto nasce intorno al 1980 dal liberismo sfrenato di Reagan e della Thatcher. Il mondo si ribalta, e l’Europa va al traino. L’arte-spettacolo ignora la storia; il museo diventa un magazzino, dove si vanno a prendere pezzi per le mostre e li si fa viaggiare, in modo tale da distruggerli nel giro di 50 anni. Mandare Piero della Francesca a Tokyo non esiste! Che senso ha un’esposizione come quella organizzata da Goldin a Vicenza sui notturni da Tutankhamon a van Gogh? Contro l’operazione omologante del ministro si è rivoltato perfino Sgarbi, che è facinoroso ma persona intelligente».

Ascoltare le parole di un uomo di 84 anni che ha lavorato a lungo nelle Soprintendenze non può far male alla politica dei nostri giorni. 

OPPORTUNITA' DI FORMAZIONE

Stage nel Regno Unito: The Open Palace Programme


Dal sito http://www.globalmuseum.org/ dove è possibile reperire le opportunità lavorative nei musei di tutto il mondo, in particolare degli Stati Uniti e del Regno Unito, è estratta la notizia di questo stage presso alcuni importanti luoghi di interesse storico del Regno Unito. Di seguito alcuni dettagli:

Contatti: Marian Coles


Scadenza: 2015/12/31

Indirizzo web: http://openpalace.co/

Dettagli sullo stage

The Open Palace Programme offre la possibilità di:

Osservare da dietro le quinte di alcuni dei palazzi e ville più significativi del Regno Unito, tra cui Hampton Court, Kensington Palace e la Torre di Londra. Imparare dai professionisti che operano nei palazzi come conservare, presentare e interpretare i siti e le collezioni. Prendere parte ad attività accanto agli esperti. Immergersi nella storia. Manipolare manufatti storici e documenti antichi. Acquisire preziose esperienze e nuovi contatti che arricchiranno il proprio curriculum. Soggiornare in alcuni dei luoghi storici più affascinanti dell'Inghilterra come Bath, Brighton, Londra, Stowe, Windsor e Buckingham.

Sono disponibili 4 borse di studio OPP di £ 500 ciascuno.

Possono partecipare candidati da tutto il mondo con buona conoscenza della lingua inglese e che siano:
- studenti universitari neo-laureati o  laureandi su argomenti relativi al patrimonio culturale.
- professionisti emergenti, retribuiti o volontari, già impegnati nel settore dei beni culturali.

Costi:

La tassa d'iscrizione all'intero programma di 21 giorni, da svolgersi la prossima estate 2016 - comprensiva di soggiorno, colazioni, una cena di benvenuto, una cena comune nel Dorset e una cena formale a Stowe, tutti i biglietti d'ingresso, tutti gli input professionale e tutti i viaggi previsti all'interno del programma - è di £ 2450.

Anticipo di £ 500 e saldo di £ 1.950.

Maggiori dettagli sul sito web.

Musei “zombie” in Galles?


Zombie. Così la BBC ha definito i musei locali del Galles che sarebbero entrati in una spirale di grave declino.
Per tentare di risolvere la situazione, lo scorso autunno una commissione di esperti è stata incaricata dal Vice Ministro della Cultura, il laburista Ken Skates, di esaminare la situazione.
Nel loro report è stato evidenziato che i musei locali possono rappresentare una grande risorsa in quanto attirano circa 2 milioni di visitatori l'anno, con un incremento del 24% dal 2004; la metà di questi riceve finanziamenti dagli enti locali; conservano e curano almeno un milione di reperti, sono in grado di stipendiare 1.300 dipendenti e di gestire più di 2.100 volontari.

Nel report, però, si sottolinea anche che molti di questi musei sono mal gestiti mentre pochi sono risultati i “buoni esempi”. Spesso gli standard espositivi sono risultati troppo superficiali e stereotipati, mai rinnovati negli ultimi cinque anni. 

Il vice presidente del National Museum Wales, Haydn E Edwards, che ha presieduto la commissione, ha fatto appello anche ai consigli locali affinché si affrontino le difficoltà finanziarie, si decida il futuro immediato dei musei locali e si lavori per un rinnovo radicale della gestione museale in Galles.  

La commissione ha quindi redatto 10 raccomandazioni che riguardano le seguenti aree:
- elaborazione di nuovi modelli di erogazione dei servizi
- rivedere il ruolo e le responsabilità del governo gallese
- favorire la collaborazione tra le organizzazioni.


C’è anche da dire che i musei sono particolarmente a rischio di tagli finanziari e di chiusura a causa delle attuali circostanze economiche. Si teme addirittura che i finanziamenti per i musei possano essere ridotti allo stesso livello del 1950, quando, però, il numero dei musei gallesi a conduzione comunale era solo un quarto di quello di oggi. 

Kysy museolta: chiedi al museo e otterrai risposta!



Kysy museolta”, “Chiedi al museo” è un’idea messa in pratica in Finlandia cui hanno aderito otto musei disposti a rispondere alle domande dei propri utenti. Tramite un form on-line è possibile soddisfare le proprie curiosità sui contenuti del museo o su qualsiasi altro tema inerente le competenze di ogni singolo museo. Le risposte vengono inviate tramite posta elettronica ma alcune domande, scelte tra le più interessanti, e le relative risposte, sono pubblicate in forma anonima sul sito. 
Un’ottima idea per abbattere quella barriera che solitamente divide chi opera nei musei dal proprio pubblico. 

Nel complesso è molto simile all’iniziativa social #askacurator, ideata da Jim Richardson nel 2010, con la differenza che in questo caso i social network non sono l’ambiente di incontro tra curatori e pubblico e, soprattutto, non si tratta di una iniziativa che si svolge solo in determinati periodi dell’anno, ma di un servizio sempre disponibile.

Varie le domande che pervengono ai curatori. Si chiedono informazioni su oggetti, personaggi storici e molto altro: per esempio c’è chi ha trovato un oggetto antico in soffitta e chiede informazioni al Museo Finlandese dell’Agricoltura su quale fosse il suo utilizzo alcuni decenni fa, oppure viene chiesto al Museo del Teatro chi ha interpretato il ruolo della Bella Addormentata nel 1950 nel Teatro Nazionale Finlandese.


Il servizio è utilizzato con molta frequenza e le risposte sono sempre puntuali e molto esaustive. Anche la pagina web del sito è continuamente aggiornata e questo incoraggia le persone a partecipare attivamente. Mi sembra davvero una bella idea da esportare!

Il caso dell’Art Institute of Chicago: fuori tutti i volontari bianchi dal museo

Fonte dell'immagine: The Federalist Negli Stati Uniti, presso l’Art Institute of Chicago (AIC) si è aperto un caso che potrebbe essere d...