Un’analisi del fenomeno delle Invasioni Digitali in vista del convegno “Digital
Think-In. La voce digitale dei musei”
Il prossimo 4 novembre si
svolgerà, a Roma, il convegno “DigitalThink-In. La voce digitale dei musei”, organizzato dal MAXXI, che si
annuncia come “il primo evento di cultura digitale rivolta ai musei in Italia”.
Tra i partecipanti al convegno,
per il quale è aperta anche una #DITcall
per la presentazione di casi studio inerenti il tema in oggetto, vi saranno James
Davis, Program Manager di Google Art Project (Londra), Antonella Di Lazzaro,
Direttore Media Twitter Italia (Milano), Conxa Rodà, Head of Strategy and
Communication – Museu Nacional d’Art de Catalunya (Barcellona), Gruppo MUD Museo
Digitale, MiBACT (Roma) e Prisca Cupellini, Comunicazione Online e Progetti
Digitali, MAXXI (Roma), Francesco Russo, Consulente Web e blogger, Marianna
Marcucci, Cofounder di Invasioni Digitali e Alessandro Bollo, Cofounder e
responsabile ricerca della Fondazione Fitzcarraldo.
Il movimento Invasioni Digitali,
dunque, è ancora una volta presente in un convegno in cui si discute di
comunicazione digitale, ma il fenomeno Invasioni non è stato ancora oggetto di
analisi approfondite da parte degli esperti. Siamo realmente di fronte ad un
modello di comunicazione digitale? Tenterò di argomentare la mia personale opinione
al riguardo.
Media tradizionali e media digitali
Rispetto alla comunicazione
mediatica tradizionale, nella forma digitale si verifica il passaggio dalle
relazioni lineari a quelle reticolari; il messaggio può essere veicolato
attraverso vari ambienti digitali (sito Web, comunità virtuali), ma l’aspetto
più importante della comunicazione digitale - e che la differenzia da quella
tradizionale - è soprattutto la presenza di un dialogo interattivo tra gli
utenti, basato sulla condivisione e la partecipazione. Senza che si verifichi
questa condizione non è possibile ravvisare una effettiva diversità tra le due
forme di comunicazione.
Se si analizza più nel dettaglio
l’ultima Invasione Digitale, dal punto di vista della comunicazione social si rilevano
poche interazioni effettivamente incentrate sui contenuti e solo un cospicuo numero di immagini (soprattutto le locandine
che pubblicizzano gli eventi e le foto di “Invasione compiuta”): quindi le Invasioni sono sì avvenute ma non sono state sufficientemente raccontate durante il loro svolgimento.
Durante alcune manifestazioni speciali non dichiaratamente “digitali” (pur
avendo ugualmente una notevole propagazione sui social e su altri media) come
le Giornate Europee del Patrimonio o altre iniziative similari, i musei hanno
sempre dato vita ad iniziative interessanti con grande successo di pubblico; da
cosa si dovrebbero distinguere, dunque, le Invasioni Digitali da queste manifestazioni
speciali?
La coerenza vorrebbe che fosse
una maggiore partecipazione “social” all’evento: ciò, infatti, è l’aspetto
determinante in una manifestazione che si auto-definisce “digitale”. In termini
molto semplici, ciascuno dei partecipanti dovrebbe essere la vista e l’udito di
chi non è presente all’evento ma che verrà coinvolto come se lo fosse; dovrebbe
mettere in rete le proprie sensazioni, esprimendo le emozioni e i pensieri che
emergeranno dalla sua esperienza culturale e condividerla con altre persone,
intessendo un dialogo con esse. Se la comunicazione consiste, invece, nella
semplice informazione del luogo, data e ora che riguardano l’evento, in qualche
breve nota descrittiva, in un grande numero di immagini poco commentate e,
infine, nella notifica di “Invasione compiuta”, non si potrà parlare di vera comunicazione
digitale. Nella maggioranza dei casi, infatti, come si è rilevato, l’interazione
non è stata significativa soprattutto in termini di contenuti e non sono stati
incoraggiati né live storytelling (pochi i casi) né altre forme di
comunicazione partecipata. “Raccontare” gli eventi, dunque, è ciò che dovrebbe fare
la differenza[1]. Scrive
Tomaso Montanari che “Il patrimonio è un
grande repertorio, proprio come il teatro o la musica: se nessuno lo esegue – e
cioè se nessuno lo narra, facendolo risorgere – rimane inerte, morto, perduto”.
Inoltre, la stessa
sovrapproduzione di immagini produce effetti negativi in quanto rende il
pubblico meno sensibile e attento ai dettagli.
Insieme alla perdita di
attenzione per le foto e per i soggetti delle foto, si rischia di banalizzare e
di disperdere nell’eccesso di immagini anche gli “sfondi” di questi selfie che
sono i musei e tutti gli altri luoghi di interesse storico e monumentale. Le
foto, dunque, e tanto più i selfie, non possono essere considerati dei veri e
propri contenuti se non sono adeguatamente didascalizzati e commentati a meno
che non possiedano l’eloquenza visiva delle opere di grandi fotografi come
Robert Capa. Ma per la maggioranza di noi non è così. Giustamente uno dei più
noti fotografi italiani, Ferdinando Scianna, ci ricorda che “nessuno segue con interesse chi sta
continuamente in posa”.
Un contesto che non produce
contenuti, non perché le iniziative che pubblicizzano non siano valide, ma
perché è mancato l’impegno nel trovare adeguate forme di trasferimento delle
informazioni che vadano oltre lo sharing fotografico, non porterà alcun tipo di
beneficio nemmeno al soggetto culturale che avrebbe dovuto promuovere.
Scrive, a questo proposito,
Valentina Vacca:
Per #InvasioniDigitali il pubblico non è più tale, ma è «partecipativo all’offerta culturale». Nel loro manifesto essi proclamano di credere: «in un nuovo rapporto fra il museo e il visitatore basato sulla partecipazione di quest’ultimo alla produzione, creazione e valorizzazione della cultura attraverso la condivisione di dati e immagini. Crediamo nella semplificazione delle norme per l'accesso e riuso dei dati dei Beni Culturali per incentivarne la digitalizzazione. Crediamo in nuove forme di conversazione e divulgazione del patrimonio artistico non più autoritarie, conservatrici, ma aperte, libere, accoglienti ed innovative». Per tradurre tali parole, è sufficiente compiere un’esplorazione nel sito dedicato alle #InvasioniDigitali: al suo interno si trovano una serie di selfie scattati entro musei e luoghi della cultura che hanno come soggetti i visitatori. E’ come se “invadere” –come loro stessi definiscono la visita da parte del pubblico i musei, i monumenti e in generale i luoghi della cultura e poi caricare una foto su internet, equivalga in automatico a trasmettere la conoscenza. Come se digitalizzare la cultura coincida con il mero, semplicistico quanto banale processo di sharing delle immagini delle opere d’arte, delle performance, dei beni immobili. Che sia proprio come disse Baudrillard (1995), ossia che «la maggioranza silente ricerca l’immagine e non il significato».
Il fatto che a prevalere siano
più l’apparenza, più il volume della partecipazione e meno il contenuto, mi è
stato in qualche modo dimostrato, in occasione della recente Social Media Week,
dalla community manager di un museo, la quale ad una mia osservazione riguardo
il fatto che le Invasioni Digitali non sono uno strumento di diffusione culturale
vero e proprio, replicò che “a loro
bastava veder entrare la gente nel museo”: ciò equivale a dichiarare che l’unico
scopo che si vuole perseguire è quello di “conteggiare” il numero di
visitatori. Sono convinta che questo pensiero non sia quello che
contraddistingue tutte le istituzioni museali che hanno aderito in questi anni
ad Invasioni Digitali, ma in ogni caso è indicativo che questa iniziativa abbia potuto generare in alcune persone un tale tipo di ragionamento, supportato dall'errato
concetto, troppo spesso avallato dai media, che sia più rilevante la
quantificazione degli ingressi piuttosto che la misurazione dell’efficacia
delle proposte culturali offerte dai musei. E’ fondamentale, allora, che i
musei assumano il ruolo di mediatori tra i fabbricanti della comunicazione
digitale e la società, ma per farlo non devono restare essi stessi imprigionati
dalle logiche del “Viral Style” e da ogni forma di estremismo
della comunicazione digitale; devono aprirsi, invece, a più ragionate e originali forme di
condivisione di contenuti e di partecipazione culturale, anche attraverso il Web
2.0.
La strategia comunicativa delle Invasioni Digitali
Inizialmente le Invasioni
Digitali avevano focalizzato molta della loro attenzione intorno al problema
del divieto di fotografare nei musei, poi superato dal Decreto Legge 31 maggio
2014, n. 83. Fu creato un manifesto che mise insieme diversi concetti relativi
al rapporto tra il museo e il visitatore, all’utilizzo dei social media per la
comunicazione culturale, alla libera circolazione delle idee ed altri ancora.
Ad una attenta lettura di tale manifesto si ha l’impressione che siano state
toccate troppo tematiche, talvolta in modo ripetitivo e anche slegate tra loro,
perfino contradditorie: per esempio si richiede alle istituzioni di essere “piattaforme aperte di divulgazione, scambio
e produzione di valore, in grado di consentire una comunicazione attiva con il
proprio pubblico”, il che implica anche avere un ruolo di coordinamento e
di controllo dei contenuti, e nello stesso tempo si reclamano “forme di conversazione e divulgazione del
patrimonio artistico non più autoritarie”, riducendo, quindi, il ruolo guida
dell’istituzione museale, determinato dalla sua autorevolezza scientifica e da
cui non si può prescindere. Non è riscontrabile alcuna elaborazione personale dei
concetti esposti nel manifesto, i quali vengono solo elencati ma non sviluppati
e commentati.
Ancora nel manifesto di Invasioni
Digitali non si chiarisce in che modo “Internet
sia in grado di innescare nuove modalità di gestione, conservazione, tutela,
comunicazione e valorizzazione delle nostre risorse”, come se Internet
fosse di per sé capace di produrre questi cambiamenti e più di quanto non abbia
fatto sessant’anni fa la televisione, per esempio, unificando culturalmente
l’Italia e combattendo l’analfabetismo. L’enfatizzazione della comunicazione Web
2.0 non è utile a dimostrarne l’efficacia in ambito culturale. In realtà, i
media - che siano di vecchia o di nuova generazione - sono validi solo in base
all’uso che se ne fa, come giustamente rilevano Pier Cesare Rivoltella e Chiara
Marazzi secondo i quali “non esistono
media di serie A e di serie B[2]”
in quanto la comunicazione dell’età digitale li include necessariamente tutti.
Sono in atto delle trasformazioni cui ci stiamo gradualmente abituando e che
vede i vecchi e nuovi media integrarsi al punto che si può parlare “di mediamorfosi, di remediation, di era
della complementarietà”[3].
E’ vero, inoltre, che l’accesso ad
Internet ci regala più semplici e immediati strumenti di espressione
individuale, ma forse non si sottolinea abbastanza che ci sono ancora limitazioni
al suo uso, identificabili in ragioni di tipo economico, culturale, anagrafico
o sociale, come pure ci sono posizioni ideologiche che determinano il rifiuto
dell’uso dei social network. Chi si occupa di strategie di comunicazione,
pertanto, deve considerare il contesto digitale con adeguato equilibrio, senza
esaltarlo ma senza trascurarlo, perché “non essere connessi” non significa “non
esistere” e dunque bisogna porsi l’obiettivo di raggiungere anche chi si trova al
di fuori del mondo digitale.
Quando, invece, nel manifesto di Invasioni
Digitali si legge: “Crediamo che internet
ed i social media siano una grande opportunità per la comunicazione culturale,
un modo per coinvolgere nuovi soggetti, abbattere ogni tipo di barriere, e
favorire ulteriormente la creazione, la condivisione, la diffusione e
valorizzazione del nostro patrimonio artistico” si descrive in modo
semplicistico una situazione che presenta, come già detto, aspetti molto più
complessi.
La strategia principale di
Invasioni Digitali può essere equiparata, allora, piuttosto alla messa in atto
di un Brand Identification System in cui principalmente si enfatizza la
partecipazione all’evento e nel contempo si cerca di dare all’insieme il valore
di un “movimento di pensiero” ma senza alcun tipo di ricerca teorica. I
partecipanti sono considerati sempre come un corpo unitario, senza mettere in
risalto le specifiche personalità e individualità che lo compongono: non è il
messaggio dei singoli partecipanti a prevalere, ma il “brand”, quasi come se si
trattasse di “marketing virale”. Tenendo ancora presente il confronto con le
strategie del marketing pubblicitario, si nota, per esempio, un grande utilizzo
di slogan (“We love this game”, “Veniamo in pace”, ecc.,) che, unitamente alla costante
esposizione del logo Invasione Digitale, hanno lo scopo di favorire il brand engagement. Inoltre, nelle linee
guida per i partecipanti di Invasioni Digitali si raccomanda di seguire alcune
azioni prestabilite: non mi riferisco alle regole pratiche che sono necessarie
in qualsiasi tipo di manifestazione che comporti una procedura di adesione da
parte del pubblico, ma alla richiesta di svolgere precise azioni nel corso dei
propri eventi, producendo, in tal modo, un eccesso di massificazione e una
diminuzione dello spazio riservato alla creatività dei singoli. Si chiede, infatti,
di utilizzare il cartello “Invasione compiuta” in cui deve campeggiare il logo
di Invasioni Digitali e, in aggiunta, di stampare, sempre dal sito di Invasioni
Digitali, una “maschera” predeterminata, che gli Invasori dovranno indossare o
comunque mostrare nei propri selfie. Queste richieste contribuiscono a
“spersonalizzare” le iniziative, aumentando il valore del “brand” a scapito dei
messaggi che i promotori e i partecipanti dei singoli eventi avrebbero potuto essi
stessi veicolare in modo più originale e soggettivo. L’idea della maschera mi
pare, a questo proposito, quanto mai emblematica: una maschera, il simbolo
delle Invasioni Digitali, si sovrappone al volto dell’”Invasore” e al monumento
stesso, occupando una posizione preminente rispetto all’uno e all’altro.
Avendo voluto sperimentare le prime due Invasioni Digitali, posso affermare con cognizione di causa che la sensazione avuta è stata quella di essermi trasformata in uno strumento al servizio di un movimento che mi lasciava poco spazio per agire con modalità mie proprie. Fotografarsi con un cartello in mano recante il logo dell’organizzazione non è propriamente un’azione esaltante dal punto di vista intellettuale.
Ma forse è inevitabile che anche
nel settore culturale prendano forma tali fenomeni considerando che Erich Fromm,
già quarant’anni fa profetizzava una società uniformata e dominata dai modelli
della comunicazione pubblicitaria[4].
Il rischio, però, è che si perda “il
senso profondo di ciò che facciamo dal momento che non siamo propriamente noi a
farlo; il nostro agire non è espressione della nostra autentica personalità ma
è determinato dai dettami della massa a cui “dobbiamo” prestare ascolto e a cui
dobbiamo sacrificarci essendovi continuamente esposti[5]”.
Fino a due anni fa, eravamo
ancora in una fase in cui le istituzioni museali si mostravano in buona parte
diffidenti e poco propense ad utilizzare i mezzi di comunicazione digitale, in
particolare i social network; dopo la prima edizione della Museum Week[6],
nel marzo 2014, si è assistito ad un incremento considerevole di account
istituzionali dei musei, per cui ora siamo entrati in una seconda fase in cui sembra
prevalere l’entusiasmo per un nuovo modo di rapportarsi con il pubblico. Questo
può essere sicuramente un fatto positivo ma l’impressione è che si stia
formando un’immagine distorta della missione del museo che sembra debba
costruire la sua “modernizzazione” solo con il concorso di queste nuove forme
di comunicazione, mentre il vero museo moderno è soprattutto quello che sa
riconoscere i bisogni della propria comunità, che è in grado di analizzare le
problematiche dei tempi attuali e che sa offrire un luogo di scambio e di
dialogo a ciascuno, senza alcun tipo di
barriera.
L’auspicio è che si giunga a
coniugare in modo corretto ed equilibrato l’uso degli strumenti della
comunicazione digitale con i principi dettati dalla nostra coscienza
umanistica, quella che “funge da
sentinella, richiamo, segnale, bussola di orientamento, guida, custode del
nostro vero essere, della nostra natura umana universale e della soggettività
del nostro Io[7]”.
[1]
In un post del 30 aprile 2015 del mio blog Museums Newspaper, citai UrbanExperience come esempio eccellente ed evoluto di disseminazione partecipata
della cultura utilizzando gli strumenti del Web 2.0
[2]
Rivoltella P. C., Marazzi C., “Le
professioni della media education”, Roma 2001, p. 22
[3]
Totaro A., “Dinamiche di interrelazione
tra blogosfera e mediasfera” in C.I.R.S.D.I.G, Centro Interuniversitario
per le ricerche sulla Sociologia del Diritto e delle Istituzioni Giuridiche,
Quaderni della Sezione: Diritto e Comunicazioni Sociali, Working Paper n. 29, Dipartimento
di Economia, Statistica, Matematica e Sociologia “Pareto”, Facoltà di Scienze
Politiche, Università di Messina, 2008, p. 5
[4]
Cerracchio C., “La manipolazione. Bernays
e gli psicomarchettari”, Società & Psiche, 9 novembre 2012, http://www.psicologiaradio.it/2012/11/09/la-manipolazione-delle-masse-bernays-e-gli-psicomarchettari/
[5]
Lattanzi P., “La società malata.
L’umanesimo di Erich Fromm tra Marx e Freud”, e-book, 2015, p. 137
[6]
La Museum Week è stata lanciata la prima volta nel marzo del 2014 da dodici
musei nazionali francesi in collaborazione con Twitter France. In seguito
l’iniziativa social si è diffusa su scala europea, con la partecipazione di
svariati musei non solo europei. L’obiettivo dell’evento è quello di accedere attraverso
Twitter a contenuti culturali proposti dai musei per poi interagire con i
curatori.
[7]
Risari G., “Coscienza umanistica,
identità, ‘produttività’ e biofilia” in Erich Fromm, Publication of the
International Erich Fromm Society, Italian-English conference “Death and the
Love for Life in Psychoanalysis. In Memoriam Romano Biancoli“ on June 5-6,
Ravenna 2010
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