digiti@amo il museo

Intervista agli studenti del Liceo Classico "Dante Alighieri" di Latina


di Caterina Pisu

La riuscita di un progetto museale non sempre dipende solo dalla sua qualità o dalla efficacia delle strategie di gestione. Ci sono altri elementi che ne determinano il valore e la durata del tempo, e uno di questi è indubbiamente la costruzione di un solido rapporto con le parti attive della propria comunità: le istituzioni locali, il settore produttivo, la scuola, le organizzazioni di sostegno sociale e di promozione culturale. Nel caso studio che qui vi presento, la scuola si è fatta partner attivo di un museo della propria città. Così nasce il progetto di alternanza scuola-lavoro “digiti@amo il museo”, da poco iniziato con la collaborazione degli studenti del Liceo Classico Statale “Dante Alighieri” di Latina, ai quali è stato chiesto di rendere social il Museo Civico “Duilio Cambellotti”, nella propria città, aumentandone in tal modo la visibilità e creando i presupposti per un dialogo interattivo con i cittadini e, in generale, con tutti i visitatori.



Il Museo Cambellotti di Latina è un museo importante, nato nel 2005 per custodire un primo nucleo di opere di Duilio Cambellotti, questo poliedrico artista - scultore, pittore, illustratore, ceramista e architetto - attivo tra la fine dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del secolo scorso. Nonostante la rilevanza delle sue collezioni, come tanti musei italiani, anche il Museo Cambellotti deve fare i conti con un problema di visibilità online; era necessario, pertanto, ricercare soluzioni che guardassero al web e, in particolare, alla comunicazione social.  Dopo la creazione del sito web, nel dicembre 2015, è arrivato il progetto “digiti@amo il museo”, in cui la novità è data soprattutto dal coinvolgimento, nell’operazione, degli studenti del Liceo Classico Statale “Dante Alighieri” di Latina. Il progetto è stato elaborato come parte del Piano Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF), con l’obiettivo di sviluppare competenze di cittadinanza attiva con carattere di orientamento ai fini del lavoro. 



Il Liceo "Dante Alighieri" è molto attivo: gli studenti hanno ideato e gestiscono anche il blog della scuola, intitolato "Il Classico Giornale"la pagina Facebook e l'account Twitter.

Ho rivolto alcune domande a Emanuela Macci e Aurora Rocco, due studentesse del Liceo “Dante Alighieri” (I D) cercando di capire, con il loro aiuto, il vero significato di un’esperienza sicuramente fuori dal comune.

La vostra collaborazione con il Museo Cambellotti consiste nella elaborazione di una strategia di promozione d’immagine e di miglioramento della comunicazione digitale attraverso i social media. Come vi siete preparati ad affrontare questo compito? Vi siete ispirati a esempi già collaudati nel settore della comunicazione museale?

Certamente, quando ci è stato presentato, questo progetto ci è sembrato molto difficile da realizzare, ma ci siamo presto ricreduti. Prima di iniziare, infatti, abbiamo seguito per una settimana delle lezioni teoriche ed abbiamo avuto degli incontri con dei tutor esterni. Già durante questa settimana abbiamo constatato quanto questo progetto fosse dinamico e pratico: più che lanciarsi in tradizionali e noiose lezioni, i tutor ci hanno fatto vedere esempi di musei, sia molto famosi a livello internazionale sia quelli locali poco conosciuti, dalla cui digitalizzazione abbiamo preso spunto per il nostro progetto.

- Come vi siete organizzati? Avete creato dei gruppi di lavoro? I vostri riferimenti sono stati gli insegnanti e i curatori del museo o anche specialisti esterni?

Prima di iniziare ufficialmente il progetto, abbiamo eseguito un test attitudinale in base al quale siamo stati inseriti in gruppi diversi. I gruppi sono quattro: il primo gruppo acquisisce le fonti necessarie direttamente nei musei, rese in seguito accessibili sui social network dal secondo e terzo gruppo, attivi presso il FabLab e Mixintime, rispettivamente uno spazio di condivisione e di lavoro e uno studio di produzione cinematografica per creazione di promo e video. Infine, il quarto gruppo si occupa della parte burocratico-amministrativa. Ci hanno seguito ed aiutato sia gli insegnanti che specialisti esterni: il prof. Vincenzo Scozzarella (direttore del Museo Cambellotti), gli avvocati Francesca Coluzzi e Gabriella Guglielmo, il prof. Nanni, la prof. Mandarano, il dott. Francesco Maglione, Francesco Timpone del Fablab Latina, i graphic designer Daria Giovannetti e Giulia Volino e Amilcare Milani, titolare di Mixintimegroup.

- Nel corso del progetto “digiti@amo il museo”, sicuramente avrete l’opportunità conoscere più da vicino il museo non solo dal punto di vista delle collezioni ma anche da quello della gestione; sarete già entrati in contatto, quindi, con il “dietro le quinte”, un aspetto che solitamente non è visibile al pubblico. Questo ha cambiato il vostro modo di vedere i musei?

Sì, decisamente! Quest'esperienza ha cambiato il nostro modo di visitare i musei. Per esempio, recentemente abbiamo fatto un viaggio d'istruzione e in ogni museo in cui siamo entrati ci è venuto naturale fare attenzione a come il museo fosse organizzato e ad eventuali errori logistici, oltre ad aver fatto caso alla loro presenza sui social network.

- Prima di questa esperienza, vi era mai venuta l’idea di visitare un museo di vostra spontanea volontà, senza esservi condotti dalla scuola o dalla famiglia?

Certamente!

- Secondo il vostro parere e in base all’esperienza che state acquisendo nello svolgimento del vostro progetto, che cosa può fare un museo per apparire più “interessante”, soprattutto agli occhi dei giovani?

Se fino a pochi anni fa la miglior pubblicità era il passaparola, ora sono certamente i social network. Se gestiti bene, questi nuovi mezzi di comunicazione sono in grado di portare visibilità in poco tempo a una straordinariamente ampia gamma di persone.  E poi ovviamente, insieme a una nuova ed efficace strategia di comunicazione, è necessario che i musei siano un punto di riferimento culturale dove i cittadini e i giovani possano assistere e partecipare a mostre, eventi, dibattiti, incontri, concerti, spettacoli ecc. Solo con una totale apertura (sia virtuale che reale) i musei possono essere luoghi di vivaci incontri culturali.

- Quale aspetto del progetto “digiti@amo il museo” vi sembra più entusiasmante?

Con questo progetto ci siamo avvicinati molto all'aspetto storico-artistico della nostra città. Adesso ne siamo consapevoli e il nostro intento è quello di diffondere quest'aspetto ai nostri concittadini: è una bella sfida, ma è anche entusiasmante e stimolante perché in un certo senso è come se ci venisse offerta la possibilità di cambiare qualcosa a Latina. E noi faremo del nostro meglio per non sprecarla.


Questo progetto, nel suo complesso, ha messo in evidenza quanto sia importante che i musei non si limitino ad accogliere le scolaresche in gita, ma che si instaurino seri progetti di collaborazione coordinata e continuativa con le scuole. Il museo può essere l’aula in più in cui gli studenti possono realizzare progetti e iniziative a carattere culturale e sociale, sperimentando e producendo nuove idee. Ci sono Paesi, come la Russia, in cui per tradizione alcuni musei possiedono delle scuole proprie, anche dei licei (si veda, al riguardo, la mia intervista a Vladimir Ilytch Tolstoj); in Italia basterebbe essere in grado di utilizzare l'affinità e la complementarietà tra le due istituzioni per la creazione di progetti reciprocamente vantaggiosi. Il caso del Liceo Classico “Dante Alighieri” di Latina è un esempio illuminante che si spera possa avere molti imitatori.


Il mondo visto attraverso i giocattoli: incontro con Franco Palmieri*


Pubblico qui un articolo molto interessante del museologo Riccardo Rosati, dedicato al museo storico-didattico di Roma, "La memoria giocosa". Si tratta di un museo privato dalla storia affascinante e che merita veramente di essere maggiormente conosciuto.
 

Un sabato, andando oltre la ormai improponibile via del Pigneto, siamo tornati in un luogo poco conosciuto di Roma: Il Museo – La Memoria Giocosa. Ricordevoli della interessante conversazione col suo Direttore, Franco Palmieri, abbiamo deciso di intervistarlo.

Un personaggio abbastanza atipico è Palmieri, apparentemente un anarchico, e come tutti quelli veri, con alcune simpatie a Destra. Egli ci ha proposto una lettura del mondo attraverso i giocattoli; un qualcosa che non avevamo mai sentito prima. Dopo uno smarrimento iniziale, siamo entrati nella dimensione dei balocchi, accompagnati dalla interpretazione di una persona che si è anche rivelata preparata ben oltre l'argomento “giocattoli”. Palmieri è, infatti, pure un fine americanista, con alle spalle due borse di studio alla Columbia University, una delle università facenti parte della “Ivy League”: gli unici atenei che contino davvero in America.

La sua personale teoria museologica è totalmente strutturata. Non c'è da stupirsi di ciò. In due ore, il termine “studiare” è ricorso spesso. Prima di  porgli qualche domanda, raccontiamo sinteticamente di questo prezioso, benché piccolo museo.

La Memoria Giocosa nasce nel 2000, seguendo una indicazione museale didattica che ha la sua origine nel Museum of the City of New York.     Esso ha sede in un loft di circa 300 mq, nell'area dei villini del Pigneto, fiorita nell'epoca futurista e sviluppatasi poi nel Barocchetto Romano ad opera degli architetti del Ventennio. Il museo propone il giocattolo inteso come veicolo di comunicazione culturale e di conoscenza della realtà. È il primo museo in Italia ispirato alla filosofia dell'educatore tedesco Friedrich Fröbel (1782 – 1852), ideatore dei giardini d’infanzia. Lungo un itinerario museale composto di oltre duecento piani espositivi, i giocattoli e i giochi costituiscono una sorta di percorso parallelo alla evoluzione storica e sociale delle epoche che i medesimi riproducono.
 
Caro Palmieri quello da lei diretto è un museo non certo grande, però che ha una sua importanza, è così?

Lo può ben dire! Non tanto per la vastità della collezione, ma per completezza, La Memoria Giocosa racchiude una testimonianza assai rara. L'Italia è piena di importanti collezioni di bambole e di giocattoli, ma solo noi non abbiamo “buchi” storici o tematici in quello che esponiamo. Tanto per intenderci, il famoso Museo del Giocattolo di Zagarolo, ospitato nella bella sede di Palazzo Rospigliosi, l'ho inizialmente allestito io, e il primo nucleo della raccolta nasce con dei pezzi che gli vendetti a suo tempo, poiché quelli erano dei doppioni che avevamo. Comunque, il mio museo possiede dei pezzi unici. È il caso dei pupazzi di latta presi dai protagonisti dei comics americani; oltre che da noi, li si trovano solo nelle collezioni statunitensi.
 
Come è stato pensato il Museo?

Abbiamo voluto raccontare il periodo che va sotto il nome di “modernariato”. Dunque, la raccolta abbraccia un lasso temporale che va dal 1835, periodo di sviluppo del motore a vapore a opera di George Stephenson, fino al 1963, anno in cui il Premio Nobel Giulio Natta sintetizza il Moplen, con l'inizio della diffusione della plastica.
 
E sulla collezione di giocattoli – si dice la più importante al mondo, con 30 mila pezzi – facente parte della raccolta dello svedese P. Pluntky, poi acquistata dal Comune di Roma da Leonardo Servadio? Nel 2005, l'ex-Sindaco Walter Veltroni la volle comprare per farne un museo a Villa Ada. Il prezzo pagato fu esorbitante: cinque milioni e quattrocentomila euro! Il progetto non andò in porto e con l'avvento di Alemanno questi giocattoli sparirono. Si è successivamente scoperto che il Comune sborsa da allora le rate del mutuo per l’acquisto della collezione, nonché le spese mensili per la custodia dei giochi, che dal magazzino del venditore non si sono mai mossi. Uno scandalo tutto italiano?
 
Sembrerebbe. Una delle tante trovate di Veltroni, il quale ha avuto la fortuna di avere al suo fianco un uomo della competenza di Gianni Borgna, che è stato un amico del mio museo. Non posso però dire molto su questo fatto, se non che si tratta sì di una raccolta davvero imponente, con numerosi pezzi antichi; tuttavia, anche questa è incompleta, non coprendo tutte le epoche. È fondamentale chiarire che per garantire la funzione didattica dei musei dei giocattoli avere 1 o 1000 pezzi non fa la differenza: mettere assieme decine di oggetti tutti uguali è una mania. È sufficiente un giocattolo per raccontare quello che è utile spiegare.  
 
Il suo museo è chiaramente visitato dalle scolaresche, che ci può dire in merito?

Io farei una piccola accusa al sistema scolastico italiano, con docenti che vogliono soltanto gli oggetti esposti, privi di un racconto. Se vai ai Vaticani e non hai studiato prima, cosa impari? Tutti parlano di “didattica museale”, ma quasi nessuno ci capisce qualcosa. È fondamentale contestualizzare. Il Museo deve essere una “narrazione universale”, e quello dei giocattoli è il museo didattico per antonomasia, diverso da  quello che io chiamo: “museo espositivo”. Con il primo, apprendi al momento della visita. Nel caso del secondo, se non hai cultura, serve a poco.
 
Come sempre la scuola ha dei problemi?

Mi limito a ciò che mi riguarda, i musei. Ritengo che la scuola abbia “subito” il Museo, non dandogli suggerimenti utili, né lo ha mai motivato. Si portano gli studenti in giro come dei branchi. Non ci si sofferma a guardare, così da capire cosa si stia osservando. Un giocattolo racconta la vita autentica della sua epoca, non la imita, né scimmiotta, sia chiaro. Esso è una testimonianza di mode e culture. Parliamo di un mondo che racconta un mondo. Fondamentale è, inoltre, il discorso sui materiali con cui sono fatti i giocattoli. In sintesi, io questo spiego ai visitatori, grandi e piccoli, che ci vengono a trovare.
 
Il giocattolo è un fatto nostalgico o una realtà educativa?

Ma che nostalgico, è educazione allo stato puro. La nostalgia riguarda i collezionisti – categoria di cui non faccio parte – che sono dei maniaci monotematici. Un museo del giocattolo è una sorta di iperuranio platonico, un mondo delle idee.
 
Allora, non è solo “roba per bambini”?

È per tutti. E non si confonda la produzione dei giocattoli, con ciò che essi testimoniano. Purtroppo, oggi i “modelli” si sono esauriti, tutto è stato rappresentato attraverso i giocattoli. Questa è la ragione per la quale l'esposizione qui si ferma al 1963. Alla plastica è stata destinata la serialità degli oggetti, di cose già fatte con altri materiali in precedenza.
 
Quindi, è stata una scelta “antimoderna” il non continuare a raccogliere pezzi appartenenti a periodi più vicini a noi?

Assolutamente no. Tematica, solo ed esclusivamente tematica. La mia è stata la predilezione per una determinata epoca, il modernariato, e non il rifiuto di un'altra. 
 
Quante cose si scoprono attraverso lo studio dei giocattoli. Qualche altra curiosità?

Ce ne sarebbero di infinite. Per quanto concerne l'Italia, abbiamo grandi collezioni sparse sul nostro territorio, ma non una importante storia “produttiva”. Il giocattolo, quasi nessuno lo sa, nasce in Germania. Successivamente, si è diffuso in Inghilterra, Francia e Stati Uniti. Da noi, l'industria in questo campo è nata durante il fascismo, copiando quello che si faceva proprio in Germania.
 
A proposito di America? Che ci dice di Barbie, alla quale sono state dedicate varie mostre ultimamente? Icona negativa come pensano taluni?

Per nulla. La Barbie rappresenta la donna liberata, ha una sua vita, la macchina, una casa di proprietà, un lavoro. Chi ha un problema con questa bambola ha una visione del mondo femminile problematica.
 
Ci viene da pensare che gli insegnanti e i genitori possano rimanere  sorpresi e, di conseguenza, messi in difficoltà dalla sua lettura dei giocattoli, dove tutta la storia umana moderna è presente.

I docenti che accompagnano i ragazzi al Museo vengono “preparati”. Ovvero, si informano prima sulle mie idee e si comportano in modo collaborativo. In generale, le persone poco capiscono del senso di questo luogo. È il giocattolo il vero testimone del passato, altro che le foto! I musei sono in sostanza tutti uguali, la differenza sta nel progetto culturale che ne sta alla base. I giocattoli obbediscono alla realtà. Visitando questo museo non si fugge dal mondo; al contrario, lo si comprende un pochino meglio.

Riccardo Rosati
 
* Un sentito ringraziamento ad Annarita Mavelli per il suo prezioso aiuto nella supervisione di questo scritto.

Riccardo Rosati: "Museologia e Tradizione"

Segnalo con piacere il nuovo libro dell'amico Riccardo Rosati, "Museologia e Tradizione", edito da Solfanelli. Buona lettura!
 
 

I musei e i non visitatori

Oggi vorrei iniziare a riportare qui, sulle pagine del mio blog, alcuni stralci di un saggio molto importante, una pietra miliare in ambito museologico, intitolato "Si contano i visitatori o sono i visitatori che contano?". L'autrice è Eilean Hooper-Greenhill, docente presso il Department of Museum Studies dell'Università di Leicester. In questa prima parte si parla di come un museo può migliorare il proprio rapporto con il pubblico, iniziando ad analizzare non il pubblico effettivo, ma le ragioni per le quali il "pubblico potenziale" non frequenta il museo. Per capirlo, dice La Hooper-Greenhill, "bisogna uscire dalle quattro mura del museo".
 
Il saggio è tratto dal volume "L'industria del museo. Nuovi contenuti, gestione, consumo di massa", a cura di Robert Lumley, edito da Costa & Nolan nel 2005 (versione originale edita nel 1988 da Routledge con il titolo "The Museum Time Machine").
 
"Per molti di coloro che lavorano nei musei, i visitatori sono solo cifre senza volto, piedi da contare mentre oltrepassano la soglia, un male inevitabile dal momento che un museo è, per definizione, un luogo pubblico. E' raro che un museo sappia chi sono i suoi visitatori e perché ci vengono, anche se i direttori sono sempre pronti a snocciolare grandi quantità di "dati sulle presenze". La parola d'ordine sembra essere quantità e non qualità, e nel valutare l'opera svolta da un museo sembra quasi che il peso corporeo delle persone che lo frequentano sia più importante della qualità dell'esperienza che ne ricavano.
Generalmente per visitatori si intendono coloro che vengono a vedere gli oggetti esposti, e solo raramente viene elaborata un'interpretazione più approfondita del concetto di gruppi di utenza. (...)
 
Difficilmente la politica delle comunicazioni di un museo viene elaborata sulla base di una conoscenza dell'utenza complessiva derivata da apposite ricerche. Il museo molto spesso non ha alcun programma in proposito né provvede a definire obiettivi specifici relativi alle strutture predisposte per i visitatori effettivi, per quelli potenziali e per il pubblico più in generale. (...)
 
E' ormai evidente che finora i conservatori dei musei hanno agito sulla base della propria visione del mondo, presumendo che i visitatori condividessero i valori, i criteri e gli interessi intellettuali che li avevano guidati nella scelta e nella presentazione del materiale ed anche, cosa ancor più importante, nella selezione e nell'acquisto degli oggetti. (...)
 
Raramente nel decidere le attività da svolgere si è tenuto conto della necessità, dei desideri o delle opinioni del pubblico. (...)
 
Le indagini sui visitatori dei musei forniscono informazioni soltanto sulle persone che al museo ci vanno. Un museo in cui si registra un calo nel numero di ingressi e che si precipita a fare un sondaggio in realtà si muove nella direzione sbagliata: un'indagine sui visitatori, per quanto approfondita, non potrà mai rivelare le opinioni di coloro che al museo non ci vanno; fornirà dei dati su chi ci va, e se si confrontano tali dati con gli studi sulla popolazione locale, si chiariranno certe lacune, ma per ottenere un quadro più veritiero del perché gli ingressi stanno calando, o meglio, per sapere cosa pensa del museo la gente, è necessario fare uno studio completo della popolazione e intervistare sia quelli che al museo ci vanno sia quelli che non ci mettono piede, e cioè bisogna uscire dalle quattro mura del museo.  
 
(prima parte)

La vera funzione dei musei


Il grande saccheggio

Vent’anni di contrasto al traffico illecito di reperti archeologici e una straordinaria scoperta


Da sinistra: Maurizio Pellegrini, Fabio Isman e Alessandro Barelli
Venerdì 22 aprile, presso l’Auditorium della Fondazione Carivit di Viterbo, a Valle Faul, ho avuto il piacere di assistere alla conferenza dell’archeologo Maurizio Pellegrini, funzionario della Soprintendenza Archeologia Lazio ed Etruria Meridionale (già Soprintendenza per i Beni archeologici dell’Etruria Meridionale prima della Riforma Franceschini) e del giornalista e scrittore Fabio Isman (autore del libro “I predatori dell’arte perduta”). 
L’occasione, nell’ambito del ciclo di incontri “Etruscans – Gli Etruschi mai visti” (organizzato dall’Associazione Historia di Alessandro Barelli), ha permesso di ricordare vent’anni di attività di contrasto al traffico illecito di reperti archeologici che l’Ufficio Sequestri della Soprintendenza ha condotto con grande dedizione e con straordinaria efficacia, ma spesso rimanendo nell’ombra, come dimostra lo scarso riscontro avuto dal punto di vista mediatico, e, mi permetto di dire, anche il tiepido plauso che i protagonisti diretti di questa battaglia contro i trafficanti d’arte hanno ricevuto anche dalle Istituzioni (si può leggere in questo blog un’intervista a Daniela Rizzo e a Maurizio Pellegrini, condotta dalla sottoscritta, nel 2013, per il mensile Archeo News). Eppure i risultati sono stati, quelli sì, sotto i riflettori del mondo: è sufficiente ricordare la restituzione all’Italia del Cratere di Eufronio, scavato illecitamente, venduto ed esposto fin dal 1972 presso il Metropolitan Museum di New York; oppure l’Afrodite di Morgantina, restituita dal Paul Getty Museum di Malibu che l’aveva ottenuta nel 1986 da Robin Symes per la cifra di 18 milioni di dollari, solo per citare due dei casi più clamorosi.

Robin Symes, il più grande trafficante inglese


Proprio su Robin Symes si è focalizzato l’intervento di Fabio Isman, grande conoscitore delle vicende di traffico clandestino internazionale che negli ultimi cinquant’anni ha privato il nostro Paese di almeno un milione e mezzo di reperti, secondo la stima effettuata dall’Università di Princeton; “una vera e propria razzia” – ha sottolineato Fabio Isman. I pochi reperti restituiti hanno un valore superiore ai due miliardi di euro e questo dato rivela l’entità di un commercio dalle cifre stratosferiche e quindi, proprio per questo motivo, molto difficile da combattere completamente, tanto più che in questo traffico non si sono tirate indietro neppure le più famose case d’asta. Robin Symes, nativo del quartiere londinese di Chelsea, era un antiquario che è considerato uno dei più grandi trafficanti d’arte, soprattutto alla luce dei più recenti recuperi. La fine dei suoi affari è dovuta ad una circostanza avversa, legata alla morte accidentale del compagno Christo Michaelides, nel 1999. Quando la sua famiglia intraprese un’azione legale contro Symes, rivendicando l’eredità di Michaelides, l’antiquario mentì riguardo l’entità del patrimonio e dunque fu condannato a due anni di reclusione per l’impostura e per l’oltraggio alla corte (e quindi non per il reato di ricettazione e vendita di opere d’arte). Le vicende giudiziarie che hanno portato Symes al fallimento hanno anche rivelato l’enorme attività di ricettazione e di vendita dei reperti archeologici, trafugati per buona parte dall’Italia. Presso il suo magazzino di stoccaggio in Svizzera, lo scorso gennaio le autorità italiane hanno rinvenuto ben 45 casse colme di reperti dall’Etruria e dall’Italia meridionale, per un valore di circa 9 milioni di euro. Molti di questi oggetti - stiamo parlando di migliaia di reperti – provenivano da un edificio templare, localizzato probabilmente a Cerveteri; si tratta di numerosi frammenti di lastre architettoniche policrome o con rilievi, databili tra la metà e la fine del VI sec. a. C., la cui entità dimostra chiaramente che il santuario è stato totalmente razziato dai clandestini. E’ uno dei rinvenimenti archeologici più importanti degli ultimi decenni.
E’ stato anche dimostrato che Symes aveva sicuramente rapporti d’affari con l’italiano Giacomo Medici e con l’americano Robert E. Hecht, entrambi famigerati trafficanti d’arte che hanno rifornito numerosi musei in tutto il mondo e in particolare il Paul Getty Museum. La stessa ex curatrice del museo americano, a riprova degli stretti rapporti con i faccendieri internazionali, aveva acquistato una villa su un’isola greca proprio per mezzo di Symes.

Lo scoop. L’insperata ricostruzione di un contesto archeologico depredato: il corredo della tomba apula di Ascoli Satriano


Nel corso della conferenza, Maurizio Pellegrini ha reso nota una sua importantissima scoperta: la ricostruzione, dopo la vendita e il successivo recupero, di quello che si suppone possa essere l’intero corredo tombale di una tomba da Ascoli Satriano, scavata clandestinamente.
Uno dei danni maggiori prodotti dagli scavi clandestini è, ovviamente, la perdita della connessione tra l’oggetto riportato alla luce e il proprio contesto di provenienza. E’ praticamente impossibile, tranne nel caso in cui gli stessi tombaroli abbiano documentato il recupero e ne abbiano informato successivamente gli inquirenti, riuscire a ricostruire un corredo tombale per intero. Per questa ragione, la scoperta di Maurizio Pellegrini assume una rilevanza straordinaria.
Per ripercorrere le varie fasi dell’indagine è necessario risalire ai tempi del processo contro la curatrice del Getty, Marion True, e contro Robert Emanuel Hecht, aperto presso il Tribunale di Roma. In quella circostanza si acquisì una nota riservata scritta da Arthur Houghton - curatore del Getty prima della True - il quale, scrivendo alla direttrice associata del museo, Deborah Gribbon, faceva riferimento ad un articolo scientifico in cui venivano menzionate alcune opere marmoree – in particolare il trapezophoros, la lekanis - che erano state poco tempo prima acquisite dal museo americano e che il trafficante d’arte Giacomo Medici aveva dichiarato provenire da una stessa tomba “non lontano da Taranto”, un contesto che includeva anche “un discreto numero di vasi del Pittore di Dario”.
Recentemente queste opere - che nel 1985 erano state vendute al Getty, per la cifra di 500 mila dollari, dal collezionista di New York, Maurice Tempelsman[*] - sono rientrate in Italia.
Successivamente, nel corso delle loro investigazioni, Daniela Rizzo e Maurizio Pellegrini notarono un gruppo di 21 vasi apuli esposti nel Staatliche Museen di Berlino, tutti provenienti da una stessa tomba e, tra questi, due crateri apuli a figure rosse erano attribuibili al Pittore di Dario. Bisogna sottolineare che questi reperti furono acquistati tutti insieme dal museo tedesco, nel 1984, da una famiglia svizzera che ne era proprietaria all’incirca dal 1970, come attestato da due testimoni di cui una di loro, tale Fiorella Cottier Angeli, era una restauratrice, funzionaria delle dogane elvetiche del Porto Franco e collaboratrice del trafficante Giacomo Medici! L’altro testimone, invece, era Jacques Chamay, direttore del Museo di Ginevra più volte implicato in indagini della magistratura italiana, che giurò d’aver scoperto egli stesso i reperti in questione.

Le Polaroid con lo stesso numero di imballo dei vasi apuli e dei marmi di Ascoli Satriano

Le indagini della Rizzo e di Pellegrini stabilirono, invece, che 4 dei 21 vasi apuli erano rintracciabili nelle polaroid dell’archivio Medici; due vasi appaiono ancora in frammenti, prima del restauro, ma – particolare importante -  le polaroid in cui sono stati immortalati recano un identico numero di serie (00057703532) e facevano parte di una confezione di polaroid "300 Istant Film" da 20 scatti. Maurizio Pellegrini, quindi, ricordando il documento confidenziale del Getty dove il trafficante informava che il trapezophoros e la lekanis provenivano da una tomba "non lontano da Taranto, che includeva un certo numero di vasi del Pittore di Dario”,  scopre che altre sei polaroid con l’identico numero di serie, mostrano il trapezophoros in pezzi e la lekanis, ancora ricoperti di terra, fotografati nel bagagliaio di un auto, subito dopo lo scavo clandestino: ciò significa che i vasi apuli e i reperti marmorei provengono sicuramente dalla stessa importante tomba apula della seconda metà del IV sec. a. C. I primi sono attualmente ancora esposti nel Staatliche Museen di Berlino, mentre il trapezophoros, la lekanis, cui si aggiunge la statua di Apollo (proveniente sempre da Ascoli Satriano ma da un altro contesto) sono stati restituiti dal Getty Museum ed ora sono esposti ad Ascoli Satriano.

I marmi restituiti all'Italia dal P. Getty Museum, esposti ad Ascoli Satriano

A ciò si aggiunge un’altra ipotesi suggestiva, sebbene ancora da verificare. Al Pittore di Dario e allo stesso ambito culturale sono attribuiti anche un altro gruppo di vasi, tutti acquistati dai musei americani tra il 1984 e il 1991 e già restituiti allo Stato italiano: un’anfora a figure rosse decorata con la scena della morte di Atreo, venduta da Hecht al Museum of Fine Arts di Boston; la pelike apula a figure rosse decorata con il ritorno di Andromeda venduta al Getty Museum; la loutrophoros apula a figure rosse decorata con Niobe in lutto, venduta al Princeton University Museum of Art; un cratere a volute apulo a figure rosse venduto al Cleveland Museum of Art; un dinos apulo a figure rosse con Ercole e Busiride venduto al Metropolitan Museum of Art di New York. Potrebbero appartenere anch’essi alla stessa tomba di Ascoli Satriano cui provengono gli altri reperti? Questa seconda ipotesi, al momento, salvo altre scoperte o rivelazioni degli stessi trafficanti d’arte, potrà essere confermata solo da ulteriori analisi. Tuttavia è già un risultato clamoroso l’essere riusciti a ricostruire, forse interamente o forse solo parzialmente, il contesto dei vasi apuli e dei reperti marmorei da Ascoli Satriano, venduti separatamente in Germania e negli Stati Uniti, subito dopo lo scavo clandestino. Per una volta si è riusciti non solo a ottenere la restituzione di parte dei reperti, ma anche a recuperare dei dati preziosi ai fini della ricerca storica e archeologica.


Il video della conferenza è stato curato da Mauro Galeotti. 




[*] Maurice Tempelsman, affarista belga-americano e mercante di diamanti, è noto in Italia per essere stato a lungo il compagno di Jacqueline Kennedy Onassis, ex First Lady degli Stati Uniti.

Petizione per la ratifica della Convenzione quadro sul valore del patrimonio culturale per la società

Vi invito a firmare questa petizione in cui si chiede al Ministro per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo, Dario Franceschini, di farsi promotore presso il Governo e presso il Parlamento affinché si giunga al più presto alla ratifica della Convenzione quadro sul valore del patrimonio culturale per la società, aperta alla firma a Faro (Portogallo) nel 2005 e firmata anche dall'Italia il 27 febbraio 2013. Nelle petizione si evidenzia che "il Trattato mette i cittadini e le comunità al centro di ogni politica in materia di patrimonio culturale e rappresenta oggi la risposta più forte, chiara ed efficace ai processi di inclusione sociale in atto in Europa e nel mondo. È uno strumento fondamentale per una effettiva integrazione culturale" e che "l’Italia, pur avendo sottoscritto la convenzione nel 2013, non l'ha ancora ratificata". Si afferma, quindi, la necessità di giungere al più presto alla ratifica anche da parte del nostro Paese, perché "i territori, i cittadini, il patrimonio culturale, i professionisti, le istituzioni preposte alla tutela non possono aspettare altro tempo".
Firmiamo tutti! 
Per firmare la petizione:
https://www.change.org/p/petizione-per-la-ratifica-della-convenzione-di-faro

#MuseumWeek 2016: dialogare con musei vicini e lontani


Si è conclusa da una settimana la MuseumWeek 2016 e i risultati di quest’ultima edizione dimostrano che l’evento sta diventando di anno in anno una straordinaria occasione d’incontro e di confronto soprattutto tra i professionisti museali e gli analisti del settore. I dati statistici rilevati durante la settimana di svolgimento della MuseumWeek sono eccezionali: 3.500 i musei partecipanti da 75 paesi nel mondo (di cui 355 musei italiani), 664 mila i tweet con hashtag #museumweek, visti 294 milioni di volte. Un traguardo notevole se si considera che lo scorso anno a partecipare erano in 2800 e che i musei italiani erano 259, numero peraltro quadruplicato rispetto al 2014.

Ogni giorno della settimana (dal 28 marzo al 3 aprile) è stato contraddistinto da un hashtag diverso corrispondente ad un tema da seguire: l’hashtag che ha raccolto il maggior numero di commenti è #LoveMW (domenica 3 aprile) con un totale di 22.5k post pubblicati su Twitter. Al secondo posto c’è #ZoomMW (sabato 2 aprile).
Ben cinque i musei presenti nella top ten mondiale dei musei più attivi durante la #MuseumWeek: l’account dell'area archeologica di Massaciuccoli romana(@MassaciuccoliRo), il Museo Corona Arrubia (@Coronarrubia), il Museo Bergallo (@museobergallo), il Museo Tattile di Varese (@museotattile_VA) e il Museo Archeologico del Distretto Minerario Rio nell'Elba (@MuseoRioElba).

In Italia, oltre agli account già presenti nella classifica mondiale, gli altri musei più attivi sono stati il Museo Archeologico di Cagliari (@MuseoArcheoCa), l’Ufficio Beni Archeologici della Provincia Autonoma di Trento (@BeniArcheo), Musei in Comune Roma (@museiincomune), il Museo della Navigazione nelle Acque Interne (@MuseoPiroga), il Museo del Setificio Monti (@Museo_Setificio), Trasimeno Lake (@TrasimenoLake) e il Museo e Pinacoteca Civica Palazzo Mazzetti (@PalazzoMazzetti).

Al di là di questi dati, l’aspetto più importante è sicuramente il coinvolgimento di un così elevato numero di musei nel mondo e, in particolare, in Italia. 

MuseumWeek non è una gara, non è una vetrina per i musei che vi partecipano, sebbene non si possa negare che la visibilità guadagnata sia un grande vantaggio, ma è soprattutto un dialogo. 

Personalmente considero di fondamentale importanza insistere su questo aspetto perché nei giorni scorsi ho avuto occasione di leggere critiche soprattutto nei confronti di musei più piccoli che spesso hanno maggiori difficoltà ad organizzarsi ed anche a produrre contenuti con maggiore frequenza rispetto ai grandi musei. 


Dovrebbe essere chiaro che un piccolo/medio museo non può vantare la collezione del Louvre né avere il suo repertorio fotografico, ma se i dati statistici servono a qualcosa, sicuramente sono utili per dimostrare che le competenze, l’entusiasmo e il desiderio di comunicare non sono mancati nemmeno a quei musei italiani che, pur potendo contare su pochi mezzi e risorse, abbiamo poi visto affiancare il British Museum, il Louvre, il Prado e l’Hermitage nella classifica mondiale dei musei più attivi. 

Se la MuseumWeek può essere considerata un dialogo - o meglio ancora, un insieme di dialoghi - allora è ragionevole immaginare che in una manifestazione che è durata dalle 6 alle 10 ore giornaliere, se non di più, durante l’arco di un’intera settimana, il registro formale abbia dovuto ogni tanto cedere il passo a quello colloquiale. 
Se nei dialoghi sono sortiti dei “buongiorno” o “buonanotte” ai colleghi dei musei co-partecipanti e ai propri followers, o qualche frase rimarcante l’entusiasmo di essere parte di una grande manifestazione, questo non dovrebbe essere disapprovato, ma visto, piuttosto, come l’espressione di un coinvolgimento reale e appassionato. Sarebbe ingiusto, però, non vedere il grande lavoro che i musei italiani hanno compiuto durante la MuseumWeek, twittando contenuti di grande interesse. 
E’ stato molto bello leggere i dialoghi, osservare la formazione di piccole “reti” e di collegamenti sia con realtà vicine che con quelle più lontane. Ciascuno ha cercato di trovare un modo di essere nella MuseumWeek nel modo più adatto alle proprie esigenze, al tipo di istituzione, ai risultati che si è cercato di ottenere. 


Se ad un osservatore esterno la MuseumWeek è sembrata caotica è perché non ha recepito che questo tipo di manifestazione non si può vivere da “osservatori” ma solo da partecipanti. Non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di un evento mondiale che coinvolge milioni di voci, ma lo scopo della MuseumWeek, lo ripeto, non è la produzione collettiva di un contenuto, ma piuttosto la creazione di dialoghi basati sui contenuti, sullo scambio di opinioni e sul confronto, a beneficio prima di tutto del settore dei musei e della categoria dei professionisti museali che, senza alcun dubbio, da questa manifestazione hanno ottenuto un rafforzamento del senso di appartenenza alla categoria. Mi è sembrato ottimo anche il dialogo con i followers e con gli analisti del settore che hanno partecipato all’evento. Non ci si può aspettare che al di fuori di questo ambito ci possa essere una partecipazione di massa. Mi sembra improbabile che questo possa avvenire e quindi si dovrebbe anche smettere di ripetere ogni anno che è mancata la partecipazione del pubblico. Non è questo il tipo di manifestazione che può catturare una platea di non specialisti, prima di tutto per la sua durata: nessuno che non sia professionalmente coinvolto avrebbe la costanza di seguire un evento lungo un’intera settimana per molte ore al giorno. Inoltre Twitter è considerato ancora un social network di nicchia che, tra l’altro, è in continuo calo e ultimamente gli accessi sono scesi del 28%. E’ normale che non si riesca a intercettare il “cittadino medio” che probabilmente preferisce altre piattaforme social.

E’ necessario, piuttosto, utilizzare tutte le potenzialità della MuseumWeek per creare reti virtuali tra i musei, così come è avvenuto soprattutto a partire dalla scorsa edizione, migliorando notevolmente la comunicazione, un settore che solo fino a tre anni fa ci vedeva tra i musei meno attivi d’Europa. Ora possiamo con orgoglio dimostrare che la situazione è decisamente cambiata!

La cultura iper connessa: un articolo di Valentina Vacca

Museo digitale e fruizione culturale collettiva. Il dibattito con gli addetti ai lavori.


Ipermoderno, iperreale, iper connesso, iper social. E’ un dominio imponente e inarrestabile quello messo in atto dal prefissoiper durante questi tempi contemporanei, ed è proprio quest’ultimo l'assioma dal quale partire per trattare la tematica del Museo 3.0 e, al contempo, degli incalzanti progetti del Mibact improntati sulla creazione del Museo digitale. Poteva forse la cultura d'oggigiorno -e pertanto tutto il sistema museale- non essere forse integrato entro l'orbita commemorativa dell'iper? .....................................................................

Dal Museo del Bardo il coraggio di combattere contro terrorismo e oscurantismo

Foto Britaly Post
Mentre in queste ore dobbiamo ancora una volta piangere le vittime di un nuovo, gravissimo attentato in Belgio che ci ricorda che la lotta contro il terrorismo è sempre aperta e che non si potrà abbassare la guardia ancora per molti anni, solo pochi giorni fa, in Tunisia, è avvenuta la commemorazione della strage al Museo Nazionale del Bardo, accaduta lo scorso anno, il 18 marzo 2015. In quella circostanza la reazione fu immediata e dopo appena due settimane il museo aveva già riaperto le sue porte, cercando di raccogliere tutte le forze possibili per superare la paura e ricominciare. Forse per questo oggi il Bardo è diventato un simbolo della lotta contro il terrorismo e il radicalismo religioso. Quel giorno di marzo l'attacco fu terrificante: due terroristi entrarono nel museo e iniziarono la caccia ai turisti. Alcuni dei visitatori che erano nelle sale riuscirono a nascondersi, altri no: rimasero uccisi in ventidue. La Tunisia non è stata risparmiata dagli attacchi terroristici; ne ha sofferto e ne soffre ancora, perché la sua economia si basa in buona parte sul settore del turismo. Il Museo Nazionale del Bardo è una vera istituzione, un punto di riferimento per la cultura tunisina e, nonostante il calo del numero di visitatori, non si è voluto spegnere. Forse perché questo museo è una testimonianza della storia multiculturale della Tunisia, dato che conserva ed espone opere pagane, cristiane, islamiche e anche giudaiche, e questo rende l'identità del museo veramente unica. La Tunisia è un paese con una naturale vocazione alla mediazione, posta al crocevia di culture e religioni, tra Africa, Medio Oriente ed Europa. Così, nonostante gli attacchi terroristici al Bardo e, qualche mese più tardi, quelli sulla spiaggia di Sousse, si è voluta mantenere viva l'idea di una cultura libera contro l'oscurantismo religioso, facendo proprio del Museo Nazionale del Bardo un baluardo contro ogni forma di radicalizzazione. Durante tutto l'anno nel museo si susseguono molti eventi artistici e culturali su questo tema. Invece di essere indebolita, la convinzione che la vera cultura può trionfare sull'estremismo è stata invece rafforzata. Fino ad oggi sono state numerose anche le visite da parte di politici e personalità della cultura provenienti da tutto il mondo. Un'associazione tunisina ha realizzato un mosaico murale che rappresenta le 22 persone cadute sotto i colpi dei kalashnikov dei terroristi.
Il museo porta ancora i segni della strage, con le tracce dei proiettili sui muri, ma la vita, e con essa la lotta contro il male, continuano.

Foto: Repubblica.it



Fonte: RTL (Cécile De Sèze)

Un blogtour per raccontare il Lago di Bolsena

Se Laura Patara mi coinvolge in una esperienza di conoscenza del territorio, posso essere certa che sarà qualcosa di speciale perché lei non è una tour operator come ce ne sono tanti. Lei va oltre le cose ovvie e scontate, è una "cercatrice di storie". Lo ha dimostrato, negli ultimi anni, in varie occasioni, facendoci conoscere iniziative culturali particolari, piccole produzioni locali che superano l'aspetto commerciale per cercare di mantenere in vita - talvolta per ricreare dopo l'oblio dei secoli - metodi di coltivazione e di produzione antichi. 

Lo scorso sabato 5 marzo, a distanza di alcuni mesi dal primo blogtour dedicato all'olio d'oliva della Tuscia, sono stata invitata a prendere parte al blogtour Dagli Etruschi ai Farnese in doppia veste, sia come blogger (http://museumsnewspaper.blogspot.it/http://archaeologicaljournalism.blogspot.it/, https://trevignanoromano.wordpress.com/)  sia come direttrice del Museo della Navigazione nelle Acque Interne di Capodimonte, sul Lago di Bolsena


Una delle tappe del tour, infatti, era proprio questo piccolo ma importante museo, nato nel 2010 per custodire un prezioso reperto: la piroga monossila dell'età del bronzo rinvenuta presso l'Isola Bisentina, a Punta Calcino, nelle acque antistanti la cittadina di Capodimonte. 


Ho raccontato ai presenti che per il museo è stata scelta una impostazione museografica particolare che ha preferito non imporre da subito al visitatore una serie di informazioni sulla piroga, sul suo rinvenimento, sul contesto ambientale e cronologico, ecc. ecc., in modo che la visita possa essere gestita dal visitatore stesso in base alle proprie esigenze. Chi vorrà vivere solo l'aspetto emozionale, dato dall'incontro con un reperto così suggestivo per l'immaginario collettivo, potrà farlo. Chi sentirà il bisogno di continuare ad approfondire, potrà accedere ad ulteriori informazioni grazie alle schede di sala che sono a disposizione dei visitatori per la lettura. 



Spero di riuscire in tempi brevi a rendere nuovamente fruibile la mediateca dove sarà possibile accedere anche al materiale video in dotazione al museo, tutto incentrato sul tema della navigazione in Italia centrale (vedi, per esempio, il documentario "L'ultimo mastro d'ascia").



La piroga di Punta Calcino custodita nel Museo della Navigazione nelle Acque Interne di Capodimonte (VT), presso il Lago di Bolsena

La seconda tappa del blogtour è stato il Museo del Costume Farnesiano di Gradoli. Tutto il gruppo, composto dai blogger Francesca Pontani (Tusciatimes), Vincenzo Allegrezza (AllegrezzadiOliodiOliva), Paola Romi e Antonia Falcone (Professione Archeologo), Geraldine Meyer, (Discovery Tuscia), Sandra Morlupi (Quarto Spazio Tour Operator), Francesca Mazzara Toto (direttrice d'albergo) e Norma Hengstenberg (guida turistica), sfidando la pioggia e le rigide temperature, si è trasferito a Gradoli, sulla sponda settentrionale del Lago di Bolsena.



Qui, dopo un breve saluto del Sindaco, Luigi Buzi, siamo stati accolti dal vicesindaco Rosanna Ceccarelli e dal direttore del museo, Fulvio Ricci che ci ha illustrato tutti i segreti di questo splendido allestimento e della cornice che lo accoglie, il Palazzo Farnese, dove è ubicato anche il Comune di Gradoli.





Splendidi i costumi, riprodotti sulla base dei dipinti e delle stampe dell'epoca, che spaziano dagli abiti aristocratici a quelli popolari e a quelli ecclesiastici. Il periodo cronologico d'interesse è quello tra XV e XVII secolo. La collezione è molto ben illustrata e l'allestimento presenta anche delle ceramiche, rinvenute in un butto all'interno del Palazzo Farnese, alcuni strumenti per la lavorazione della lana e un bellissimo telaio del 1800. 

Foto di gruppo a Palazzo Farnese
Dopo questa entusiasmante visita, siamo tornati a Capodimonte dove ci attendeva il nostro momento di degustazione e di shopping! Laura ci ha portato in campagna, presso La Bella Verde, in località Palazzetta, Via Verentana 47, km 17. Qui ogni sabato mattina si svolge la vendita diretta di prodotti locali biologici, come lo straordinario pane prodotto con una qualità di grano antica, il Gentil Rosso, che era largamente usato in Italia agli inizi del '900 ma poi fu sostituito, intorno agli anni '30, con altri tipi di grano, più produttivi e quindi più adatti alla coltivazione intensiva. Il Gentil Rosso, quindi, ci riporta al sapore del pane di altri tempi e vi posso assicurare che la differenza è notevole. Provare per credere! Si tratta, inoltre, di un grano a basso contenuto di glutine e che non richiede trattamenti chimici. Vantaggi non da poco! Altrettanto buona la caciottina, semplice o al timo, ottenuta con caglio vegetale (cardo selvatico). E poi la ricotta, lo yogurt, il miele, il polline, i dolci, l'olio extravergine d'oliva, ecc. 
Penso che questo posto diventerà meta di altre mie personali escursioni nella campagna di Capodimonte!

Dopo questo piacevole intermezzo, tutti insieme abbiamo invaso la casa di Laura, nel centro storico di Capodimonte, per un pranzo a base di prodotti locali! Per me l'esperienza purtroppo ha avuto termine qui, ma i colleghi blogger hanno proseguito nel pomeriggio con la visita ad una monumentale tomba etrusca di VII/VI sec. a. C. in località Maccarino, San Lorenzo Nuovo, accompagnati da Luigi Catena (vedi il post della collega archeologa e blogger Francesca Pontani su Archeotime). Per scoprire i racconti degli altri blogger partecipanti basta seguire Tuscia in Rete! Il racconto si è svolto anche in diretta sui principali social network, utilizzando gli hashtag #DiscoverTuscia e #TusciaStories.


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