Una guida alle opportunità di lavoro, di
stage e di formazione nel mondo museale italiano ed estero.
MUSEI E LAVORO
Il museo democratico
Lo storico britannico David Fleming, direttore dei Musei Nazionali di Liverpool, ne ha parlato in occasione di un convegno svoltosi pochi giorni fa in Argentina.
Nei giorni scorsi mi è
capitato di leggere il resoconto della conferenza di David Fleming nell’ambito del convegno "Las
ideas detrás de los museos", svoltasi a Rosario, in Argentina, presso la Fundación Litoral, lo scorso 21
agosto. Ho deciso, quindi, di approfondire il suo pensiero per capire come è
nato il concetto di “museo democratico”.
David Fleming è uno degli
studiosi più dinamici ed efficienti del mondo museale britannico e
internazionale. Talmente bravo che, da quando ha assunto l’incarico di
direttore dei Musei Nazionali
di Liverpool nel 2001, il
numero dei visitatori si è quadruplicato, passando da circa 700.000 all'anno a
più di 3,2 milioni. I Musei Nazionali di Liverpool sono uno straordinario
complesso di gallerie e di musei molto innovativi, ben nove, tra i quali,
l’ultimo in ordine di apertura (2007) è l’International
Slavery Museum, situato presso l’Albert Dock insieme al Tate Liverpool, al Beatles Story Museum e al Maritime
Museum.
Che cosa c’è dietro gli
straordinari risultati di Fleming? Sicuramente un modo diverso di concepire il
museo. Secondo lo storico britannico, anche Disneyland ha successo perché il
suo progetto è incentrato sulle strategie più accattivanti per intrattenere il
pubblico, ma non possiamo dire che abbia finalità educative. I musei hanno un
ruolo differente perché possono dare alla gente qualcosa di più sostanziale del
puro divertimento. Ma attenzione: questo non significa essere noiosi,
altrimenti si fallirà. Bisogna pensare continuamente al modo per attrarre
un’ampia fascia di pubblico, dai 3 ai 93 anni. Una grande sfida che contiene
anche un alto rischio di commettere errori.
Quando qualcuno paragona
l’Albert Dock di Liverpool al Guggheneim di Bilbao, facendo riferimento a
quello che viene definito l’”effetto Bilbao”, lo studioso non è completamente
d’accordo, principalmente perché il Guggheneim di Bilbao, a suo parere, in
fondo è una meravigliosa opera di architettura con opere che provengono da New
York, ma non rappresenta proprio il concetto di museo della città. L’Albert
Dock, invece, è qualcosa di diverso: nel suo insieme il complesso è un museo della città, con la città,
per la città. Nello stesso tempo, però, raccomanda Fleming, bisogna anche
guardare oltre i confini della città, perché ogni cittadino britannico che paga
le tasse sta finanziando i musei di Liverpool, perciò – afferma – «prendiamo questa responsabilità seriamente».
«Il principale errore
che i musei possono commettere è non avere passione», ha detto lo storico
britannico David Fleming nell’ambito della conferenza argentina. In quella
circostanza lo studioso ha analizzato il concetto di museo democratico, un’idea che
Fleming ha sviluppato sin dalle sue prime esperienze nel mondo museale, a
partire dal 1981. Prima di affrontare l’argomento, però, è necessario
fare un passo indietro, ripercorrendo anche quella che è stata la formazione di
Fleming.
Il museo impresa sociale
Uno dei maestri di Fleming è stato l’americano Stephen Weil,
scomparso nel 2005, uno tra i museologi più importanti sullo scenario
internazionale, vice direttore dell’Hirshhorn
Museum dello Smithsonian and Sculpture Garden dal 1974 al 1995 e uno degli
ispiratori e dei promotori della creazione dell’International
Committee on Management di Icom. La principale teoria sui musei di Weil era
che non c’è un solo museo
uguale ad un altro (in
qualche occasione anche dalle pagine di questo blog abbiamo parlato di
“personalità” dei musei), eppure tutti i tipi di musei, o quasi tutti i tipi,
dovrebbero conformarsi ad un unico modello di comportamento. Questo modello,
descritto da Weil come “nuovo e potenzialmente dominante”, è il cosiddetto
modello di “impresa sociale”.
Il museo inteso come
impresa sociale potrebbe dunque «trarre
la sua legittimità da quello che fa, piuttosto che quello che è» - afferma Stephen Weil. Ma quando egli
evidenzia che questo museo dovrebbe,
soprattutto, «considerare le sue collezioni e le altre risorse come mezzi in
vista della realizzazione dei suoi obiettivi imprenditoriali, e non come fini a
se stessi», non propone che il fine dei musei sia la produttività
finanziaria, e infatti aggiunge che: «senza
valore sociale, il museo è nulla. È inutile e non merita l’interesse di alcuno
e tanto meno il supporto».
Weil voleva che i musei
esistessero per qualcuno, non
per qualcosa. In un suo saggio – ricorda Fleming – scrisse almeno sette
frasi in cui ricorreva la parola “sociale”: voleva "attivismo
sociale", "miglioramento sociale", "promozione
sociale", "servizio sociale", "sviluppo
sociale”, " cambiamento sociale ". Voleva un "risultato
sociale".
Fleming ha cercato di
sviluppare ulteriormente il modello di museo proposto da Weil. «Io sono uno
storico» - afferma - «ma ho sempre desiderato prendere i libri di storia
e farli essere parte della vita delle persone, per riportare la storia stessa
alla vita».
I quattro sotto-modelli
museali di David Fleming:
Partendo dal modello di
“museo impresa sociale” di Weil, Fleming ha elaborato dei “sotto-modelli”
attraverso i quali ha cercato non di proporre non uno schema rigido ma alcune
prassi attraverso le quali i musei possono realizzare importanti cambiamenti
sociali o raggiungere dei risultati in ambito sociale. I sotto-modelli sono
stati contrassegnati ciascuno con un nome che ne evidenzia le caratteristiche.
Essi sono: il museo "defibrillatore", il museo "psicologo
collettivo", il museo "portatore di libertà" e il museo
"scala per il paradiso".
Il museo “defibrillatore”
Rientrano in questa
categoria i musei che sono stati creati per rivitalizzare una zona dal punto di
vista economico. I benefici sociali, in questo caso, possono essere secondari e
accidentali, ma anche molto concreti. Di solito sono musei di nuova
progettazione; sono il prodotto di un'epoca in cui la rigenerazione economica è
un potente strumento dello stato o del governo della regione o della città. Tra
questi possiamo citare come esempio il Guggenheim
di Bilbao, un museo d’arte ospitato nello spettacolare edificio di Frank Gehry, fatto sorgere dal
nulla in una città industriale decaduta al fine di migliorare la sua immagine e
la sua attrattiva turistica. Musei defibrillatori come il Guggenheim ce ne sono
tanti e sparsi in varie parti del mondo. Fleming cita, nel suo Paese, l'Imperial War Museum North,
che ha contribuito a rigenerare la zona portuale di Trafford, e il Merseyside Maritime Museum, che
ha dato il via alla rigenerazione del centro storico di Liverpool e del
decaduto complesso dell’Albert Dock, nel 1980.
Il museo “psicologo
collettivo”
Il secondo sotto-modello è
il museo inteso come “psicologo collettivo”. Questo è un museo che ha un
rapporto speciale con la popolazione locale. Per alcuni questo è un cliché poco
realistico, ma di sicuro il museo può svolgere un compito prezioso nell’aiutare
la gente a riavere fiducia in se stessa, promuovendo il coinvolgimento e
l'attività della comunità, la costruzione di nuove competenze o il superamento
dell'isolamento sociale. Questo museo promuove l'identità locale e di solito si
tratta di un museo storico o etno-antropologico.
La storia ha un’importanza
maggiore di quello che si può credere: una società consapevole del suo passato
non può non avere fiducia nel suo futuro. La storia educa e ci influenza, e le
generazioni future ci giudicheranno proprio per come avremo esercitato il
compito di custodi del nostro passato.
Un esempio di museo di
questo tipo è il South Shields
Museum & Art Gallery, nel nord-est dell’Inghilterra. Fleming lo ha
diretto negli anni Novanta, quando South Shileds registrava il più alto tasso
di disoccupazione della Gran Bretagna occidentale, aveva problemi sociali di
vario tipo e una giunta comunale rissosa. Eppure il museo era un fenomeno
nazionale che riusciva ad attrarre più visitatori dei più importanti e ricchi
musei del nord-est e anche di altre zone. Come mai? Eppure era un museo senza
grandi pretese, con collezioni di importanza puramente locale, aree di visualizzazione
limitate, uno staff ridotto al minimo e bilanci trascurabili. L’unico pregio
era, forse, che possedeva il miglior sito che si possa immaginare, proprio
sulla via principale che attraversa il centro della città. Quello, però, che lo
distingueva dagli altri musei era il suo alto senso dell’accoglienza: il museo
era un luogo-rifugio dove trovare un po’ di comfort e divertimento o dove
acquistare qualche souvenir poco costoso; un posto dove lasciar correre i
bambini o semplicemente dove cercare di rifugiarsi dalla pioggia. La mostra più
popolare era stata “Muffin il mulo”! «Ma la mia fortuna» - racconta lo studioso
britannico - «è che c'era un potente, naturale senso di proprietà collettiva
che circondava il luogo. Può essere esagerato dire che il museo era il luogo
più importante della città, ma, di certo era il museo più attivo della Gran
Bretagna, fatto ancora più sorprendente se si pensa che era ubicato in quella
che molti osservatori sociali avrebbero definito una città senza speranza.
Credo che il museo abbia dato e dia ancora, spero, alla gente locale,
attraverso la sua sfacciata e accessibile rappresentazione della vita
ordinaria, qualcosa che può essere soddisfatto, forse anche qualcosa di cui
essere orgogliosi».
Bisogna puntualizzare che
quando si parla di “coinvolgimento” o di “partecipazione” della comunità alla
vita del museo, non si intende, per Fleming, che si debba consegnare la totale
responsabilità dei contenuti del museo alla nostra comunità locale, nel
tentativo di fare in modo che il museo abbia maggiore rilevanza e valore. «Credo
che questa tendenza sia troppo estrema» - afferma lo storico. É necessario,
invece, che il museo sia in grado di fornire un apporto importante in termini
di interpretazione della storia sociale. Si tratta, dopo tutto, di un ruolo per
il quale noi curatori siamo stati formati, mentre è improbabile che tutti i
membri della comunità possano avere lo stesso grado di competenza nella storia
locale.
Ciò nonostante, è
imperativo che si trovi il giusto equilibrio per garantire da un lato il
compito di interpretazione svolto dai professionisti del museo, dall’altro la
partecipazione del pubblico. Il modo migliore è trovare dei meccanismi che
utilizzino elementi che si riferiscono alla storia locale o che abbiano un
forte sapore locale, in modo che l'esperienza personale si intrecci con i
contenuti proposti dal museo. Come si può garantire un dialogo costante e
sempre vivo? Attraverso i mezzi di cui dispone il museo: per esempio
l’allestimento di mostre continue su argomenti sempre nuovi e differenti. E’
quello che si propone di mettere in atto Fleming nel nuovo Museo di
Liverpool: è importante essere in grado di coprire una vasta gamma di
argomenti nel corso di un anno, relativi sopratutto alla storia recente o alla
società contemporanea. Questo si intende quando si parla del museo come
“psicologo collettivo”, vicino ai problemi delle comunità e dei singoli
individui.
Il museo “portatore di
libertà”
Il terzo sotto-modello è
quello che Fleming definisce il museo “portatore di libertà”. E’ un museo che
si occupa di diritti umani, quindi strettamente collegato al secondo
sotto-modello, ma che, a differenza di questo, avrà spesso risonanza e
importanza internazionale.
E’ un museo arrabbiato,
perché la lotta contro l’ingiustizia permea il suo essere. Parla di
comprensione, di tolleranza, di rispetto e di riconciliazione, ma si propone
anche di reclutare, trasformare e rimodellare la consapevolezza del visitatore
sui principi di equità e di democraticità. Un esempio è l’International Slavery Museum di
Liverpool che si prefigge di
esplorare la storia e l'eredità derivata dal commercio transatlantico di
schiavi, fonte della ricchezza della Liverpool del passato.
Anche se questa è una
grande storia internazionale che Fleming si augura che possa avere ampia
risonanza, il museo non tralascia di affrontare anche le questioni locali, in
particolare il razzismo dei nostri giorni, che caratterizza la città. Questo è
un fatto curioso dato che Liverpool è stata una città multirazziale già 250
anni fa, quando le altre città britanniche erano, invece, del tutto
monoculturali. Ciò nonostante, la comunità nera di Liverpool, attualmente si
sente alienata, sottovalutata e assediata. Il Museo di Liverpool, allora, cerca
di mettere in discussione il razzismo e l'intolleranza, e lo fa cercando di
dare una nuova, potente voce alla comunità nera di Liverpool. La speranza è
quella di ottenere esiti sociali significativi, sfidando l'ignoranza e
l'incomprensione, e invitando la comunità locale a riflettere sulla propria
identità e sulla propria storia, e, non da ultimo, cercando di dimostrare, per
esempio, che senza la schiavitù transatlantica e la trasmutazione della musica
africana in America, non ci sarebbero stati i Beatles, i quattro ragazzi di
Liverpool che hanno cambiato la cultura popolare occidentale. Un argomento che
dovrebbe convincere anche i levercensi più ostinati!
Il museo “scala per il
paradiso”.
Il quarto e ultimo sotto-modello
proposto da Fleming è il museo inteso come “scala per il paradiso” (Stairway to
Heaven). Per lo studioso questo è il più prezioso ed emozionante di tutti. In
realtà, può essere qualsiasi tipo di museo, può interessare ogni disciplina,
ogni ambiente, ogni epoca. Avrà un forte richiamo soprattutto per i bambini,
anche i più piccoli, ma potrà funzionare e comunicare a molti livelli.
Questi livelli sono i
gradini di una scala che portano i visitatori da dove sono a qualche altra
parte. Il museo, quindi, è in grado di creare una trasformazione, un
cambiamento nel visitatore, e questo può accadere a chiunque, per quanto possa
essere colto e competente, anche se la trasformazione più magica resta quella
che si può attuare in un bambino.
L’esperienza di un giovane
visitatore è più legata al divertimento che all’apprendimento formale, ma
bisognerebbe fare in modo che la trasformazione operata dal museo prosegua,
poi, negli anni, così che, strato su strato, o gradino su gradino, si possano
acquisire tante esperienze culturali e formative più complesse, non solo
attraverso il museo ma, si spera, anche in tante altre occasioni che
formeranno, appunto, i gradini della scala.
E’ un museo, questo, che
punta molto sul fattore educativo e sulla capacità di far vivere delle
esperienze costruttive per la vita dei suoi visitatori. Ma un museo, come si è
detto, può esercitare la sua azione attraverso una varietà di strumenti, non
solo attraverso l’esposizione delle sue collezioni. Fleming ha sperimentato
anche un tipo di progetto educativo «a distanza», per raggiungere quelle
categorie di pubblico che più difficilmente entreranno in un museo. Tra queste,
per esempio, le famiglie a basso reddito, le comunità delle minoranze nere o di
immigrati, i disabili, gli adulti poco scolarizzati, con difficoltà di
apprendimento o con vari altri problemi, e gli anziani. Tutti sono stati
coinvolti in attività di vario tipo, perché la bellezza di un museo è proprio
la sua flessibilità e il fatto che possa adattarsi a tutti. Vi è un’infinità di
modi per accogliere le persone e per essere loro utili, «nessuno deve
pensare che lì non ci sia niente per lui» - afferma Fleming.
Il museo democratico
Tornando al concetto di
museo democratico, è necessario considerare che la democrazia non è affatto un
valore definitivamente acquisito nel mondo occidentale capitalistico. Secondo
alcuni, la nostra è ormai una società senza classi, ma evidentemente, afferma
Fleming, questa è l’opinione di chi non vive nelle case popolari di Liverpool o
di Manchester, di Leeds, Newcastle o Londra, i cui residenti potrebbero non
sottoscrivere con fiducia questa ottimistica visione.
E’ vero che dal 1960 le
differenze tra le classi sociali sono diventate meno nitide, ma in fondo, ama
dire ironicamente Fleming, «gli inglesi non sono molto democratici» e
così «la fragilità della democrazia britannica ha finito per investire anche
il settore museale».
«Quando, nel 1981, ho
iniziato la mia carriera» - ricorda - «ho sviluppato l’idea di museo
democratico a sostegno delle trasformazioni che stavano emancipando la classe
operaia. Ero molto ingenuo. Mi sono subito reso conto che stavo delirando
perché i musei, in realtà erano nati e si erano evoluti come luoghi per le
persone colte, alle quali non interessava l’educazione delle altre persone».
I musei britannici, in
effetti, sono stati fondati nel XIX secolo per celebrare le conquiste della
classe industriale. Sono nati, quindi, in una società dominata da una élite
colta, e la maggior parte della popolazione non ha avuto alcun coinvolgimento
nel loro processo di formazione. La maggior parte di questi musei era gestita
come un circolo privato, non a vantaggio della popolazione in generale.
La classe operaia ha visto
un cambiamento in meglio durante i sei governi del Partito laburista, tra il
1918 e il 1974, anche grazie alla crescita dell'influenza del movimento
sindacale. Ma quando, successivamente, il governo di Margaret Thatcher ha
accentuato i divari sociali e ha determinato l’annullamento dei sindacati, la
situazione è nuovamente peggiorata. In quella circostanza i musei non sono
stati in grado di svolgere la loro azione sociale perché non hanno colto i
disagi e le nuove necessità delle classi lavoratrici che, gradualmente,
perdevano i loro diritti. I musei hanno tradito, in tal modo, i principi su cui
si fonda il museo democratico.
Attualmente, sempre in
riferimento allo scenario britannico, la disoccupazione si è ridotta nuovamente negli anni '90 e nei primi anni del 21° secolo. La situazione
sociale e politica è in evoluzione ma è sempre più difficile parlare delle
classi lavoratrici e dei loro problemi, anche se usiamo abitualmente il termine
“cultura popolare” che a tutti gli effetti ha soppiantato il termine “cultura
della classe operaia”, mentre in pratica significa la stessa cosa.
Il cambiamento, secondo
Fleming, deve allora venire dalla creazione di un nuovo modello di museo
popolare che riesca ad attrarre un pubblico che sia il più vasto possibile. Ma
questa trasformazione non può essere attuata se la gestione dei musei è ancora
affidata ad «una élite che non accetta che il mondo abbia gusti diversi e
che esige solo un silenzio reverenziale dinanzi alla cultura».
Chi dirige un museo,
invece, dovrebbe chiedersi innanzitutto che cosa contiene e in che modo una
istituzione culturale come il museo possa diffondere tali contenuti tra la
gente.
Un museo democratico «attira
una folla eterogenea, ha una programmazione varia e opera su diversi livelli, è
socialmente responsabile, coinvolge il pubblico, lo fa partecipare, si basa sul
dialogo, non ha paura del dibattito, della polemica, delle opinioni, ma anzi le
sollecita. Un museo democratico può lottare per la giustizia e i diritti umani».
Fleming puntualizza che un
museo democratico, tuttavia, «non è contro gli accademici e gli intellettuali:
anzi, esso esige che gli accademici e gli intellettuali abbiamo buone
collezioni e possano svolgere ricerche eccellenti» perché questo va a vantaggio
di tutti. Come esempio lo storico inglese cita il Museo delle mine antiuomo di Pnhom
Pehm, in Cambogia, «un luogo che educa sulla storia e sulle conseguenze
della guerra in quel paese, come potrebbe fare qualsiasi altra istituzione del
suo genere, ma che dà anche un alloggio ai bambini che sono stati vittime di
conflitti e assiste coloro che hanno subito amputazioni (durante la guerra
civile che ha insanguinato il regime dei Khmer rossi). Questo museo non è solo
uno spazio espositivo ma è anche un luogo di guarigione per i corpi, i cuori e
le menti».
Fleming è convinto che i
musei possono influenzare la vita delle persone, ma, proprio perché sono
investiti di questo importante compito, «se falliscono, tradiscono la
società».
E’ un concetto, questo,
che dovrebbero tenere a mente alcuni decisori delle amministrazioni locali
italiane che in questi ultimi mesi sembrano voler vedere nei musei soltanto un
patrimonio immobiliare da sfruttare o da “mettere a reddito”, per usare
un’espressione diventata di moda in ambito culturale, dimenticandosi che i
musei sono molto di più e che sono un valore soprattutto in misura di ciò che
riescono a fare per la società.
«La magia di un museo»
- afferma Fleming - «è saper attrarre adulti e bambini con gli stessi
strumenti, il che non significa riempire i musei di computer o coprirne le
pareti con testi che nessuno leggerà». E’ anche importante essere
realistici e capire che la gente riceve tante sollecitazioni, da altre
istituzioni, dai media, dalle proprie esperienze o dalle altre persone. Perciò
non bisogna neppure caricare il museo di un eccesso di aspettative. La cosa più
importante è che il museo sia intelligentemente integrato nel suo ambiente
sociale, in modo che sia in grado di svolgere il proprio ruolo pienamente. Il termine
“collaborazione” forse ultimamente troppo abusato, comincia ad avere un
significato se è collocato in questo campo d'azione.
Un museo socialmente
sostenibile – secondo la teoria proposta dallo storico britannico - dovrà
lanciare un messaggio inequivocabile e chiaro che faccia capire che il pubblico
è al primo posto in ogni sua azione e che non si giustificherà alcuna
esclusione. Questo si ottiene con la passione, l'impegno e il coraggio (forse
anche con l’ostinazione e l’intransigenza), e si può raggiungere con la messa a
punto di sistemi, strutture, standard, e con un’adeguata gestione del rischio.
Non può prescindere, inoltre, dal lavoro di squadra e da un approccio
multidisciplinare.
In
definitiva, il museo democratico deve essere condotto da iconoclasti che
cercheranno di rovesciare lo status quo, superando il conservatorismo e le
vecchie mentalità. La direzione di un museo socialmente responsabile formerà
uno staff adeguato che, con i propri atteggiamenti e comportamenti, mostri un
genuino rispetto per il pubblico e per tutte le sue diversificazioni. Si
cercherà di comprenderne gli interessi, le aspirazioni e i gusti per orientare
su queste le proprie offerte culturali. La missione del museo dovrà essere
orientata verso l'esterno, a «guardare le stelle, invece di guardarsi
l'ombelico!» - sintetizza efficacemente Fleming, che aggiunge: «non
servono grandi budget per attirare il pubblico, ma occorre soprattutto essere
sensibili e creativi. La passione non costa niente».
LONDRA: OPEN CULTURE 2013
Ricercatori e
professionisti GLAM uniti per realizzare la piena partecipazione del pubblico
alla cultura
Lo scorso luglio si è svolto a Londra il convegno OpenCulture
2013, un evento che si svolge annualmente e che è incentrato prevalentemente
su temi come la partecipazione collettiva alla cultura, la partecipazione
attraverso gli strumenti digitali e il management culturale.
Quest’anno l’argomento su cui si è discusso è stato: “Pratiche partecipative: come possono i
ricercatori universitari e i professionisti GLAM migliorare la partecipazione
del pubblico alla cultura?”, dove GLAM è l’acronimo di Galleries, Libraries,
Archives and Museums.
Una corretta pratica partecipativa, si legge nella pagina
web di Historyworks (una società, partner dell’evento, impegnata nel
colmare il divario tra conoscenza e impegno pubblico), dovrebbe permettere al pubblico di modificare
o di creare da zero il materiale culturale. Ciò richiede che vi siano queste tre condizioni indispensabili: la condivisione delle conoscenze, la creatività
e gli strumenti che consentono di realizzare tutto ciò. Le collezioni
presenti nelle nostre GLAMS sono gli elementi culturali su cui lavorare: un
ricco, sedimentato accumulo di milioni di oggetti, ciascuno dei quali è “alla
disperata ricerca” di una nuova generazione cui donare nuove storie.
Come possono collaborare i ricercatori universitari e i professionisti
GLAM per favorire il loro impegno pubblico ed essere partner attivi nel
raggiungimento di questo obiettivo, cioè la partecipazione del pubblico ai
progetti culturali?
Indiscutibilmente molte competenze si possono trovare all’interno
delle università, soprattutto nell’ambito della ricerca sociale, necessaria per
identificare le varie categorie di pubblico e per capire il modo migliore per
coinvolgere il pubblico chiave, in particolare quello meno affezionato alle
GLAM.
I professionisti GLAM - oltre ad essere i depositari e i
principali esperti delle loro collezioni – possiedono la formazione e l’esperienza
necessaria per comprendere come sviluppare le forme di apprendimento più
appropriate per le diverse fasce di età - ma anche per fidelizzare la propria comunità
di riferimento per esempio attraverso progetti che includano “ricercatori volontari”.
E in questo i professionisti GLAM hanno una maggiore facilità a reperire
ricercatori “ad altezza d'uomo", esterni alle istituzioni, ed anche a trovare
connessioni tra gli oggetti e le narrazioni con la ricerca dei non esperti.
Questi tre elementi - la conoscenza culturale, le competenze
nella ricerca sociale e la capacità di coinvolgimento - se sommati possono
diventare molto efficaci per il coinvolgimento del pubblico. Si potranno così
affrontare sfide uniche e - grazie alla collaborazione tra i professionisti -
si potranno anche migliorare le modalità di svolgimento di tutte queste attività
nel loro complesso.
I primi passi sono già stati fatti con la creazione dello
spazio web "Supporting
Practice in Participation" cui tutti possono contribuire con l’inserimento
di nuovi contenuti, progetti e idee.
A tal fine è possibile
scrivere al Project Manager Helen Weinstein, via historyworks@gmail.com
La professione museale: che cosa è cambiato e che cosa ci riserverà il futuro
Una guida alle opportunità di lavoro in Italia e all'estero, alla luce delle novità che stanno trasformando il settore dei musei
Il libro è appena stato pubblicato con il servizio ilmiolibro.kataweb.it e presto sarà disponibile anche nelle Librerie Feltrinelli. Qui è possibile visionare la scheda del libro e leggerne le prime pagine.
Come descritto nella prefazione del Prof. Giancarlo Dall'Ara, non ci si è proposti, certamente, di creare la «“formula magica” in grado di
risolvere gli ormai cronici problemi occupazionali che affliggono il mondo dei
beni culturali», ma si è cercato, innanzitutto, di analizzare le trasformazioni che, negli ultimi anni, hanno interessato il mondo museale, in particolar modo a seguito dello sviluppo di Internet
e del Web 2.0, ed anche in virtù di
una nuova apertura del settore verso attività di tipo sociale finalizzate al coinvolgimento di varie categorie di utenti e al superamento delle problematiche che affliggono la società moderna.
L'analisi è partita, obbligatoriamente, dalla Carta nazionale delle professioni museali per poi descrivere i numerosi profili professionali che sono nati, per esempio, nell'ambito del Marketing, della Comunicazione e, come si è già accennato, del Web 2.0, e che sono diventati importanti anche per il settore dei musei.
Si è cercato, inoltre, di dare un taglio pratico alla pubblicazione per agevolare la ricerca di lavoro di chi insegue opportunità sia in Italia che all'estero: sono state inserite 138 schede e link di enti di formazione, società, aziende, musei e associazioni italiane e straniere, che ci si propone di ampliare nelle prossime edizioni.
Alle aziende e ai musei italiani nei cui siti web è data la possibilità di inviare i propri curricula, sono state dedicate ventuno pagine.
Questo libro è la prima pubblicazione realizzata per l'Associazione Nazionale Piccoli Musei, cui saranno devoluti interamente i proventi delle vendite per la realizzazione degli scopi indicati nello statuto, in special modo per lo svolgimento delle attività di studio, di ricerca, di divulgazione e per l'organizzazione dei convegni nazionali annuali.
Dieci tesi sui piccoli musei e…un invito al Ministro della Cultura, Massimo Bray
Quelle che espongo qui, di seguito, sono dieci tesi elaborate dal Prof. Giancarlo Dall'Ara, fondatore e presidente dell'Associazione Nazionale Piccoli Musei, riguardo gli obiettivi che ci poniamo come associazione e che suggeriamo alle Istituzioni di prendere in considerazione affinché il nostro più vasto patrimonio museale, costituito da centinaia e centinaia di musei di piccole e medie dimensioni sia adeguatamente valorizzato e sia messo in condizione di essere il propulsore culturale ed economico per il benessere delle nostre comunità e per lo sviluppo dei nostri territori.
Fonte: http://www.piccolimusei.com, sito ufficiale dell'APM
1. Il 90% dei
musei italiani è di piccola e piccolissima dimensione…
2. …eppure le
norme sono sempre concepite a misura dei musei di grande dimensione. E’ stato
creato un “museo astratto” che in realtà non c’è.
3. Perciò, a
causa di queste norme, per il Ministero e le Regioni, la metà dei musei
italiani non esiste.
4. Il problema
dei musei italiani non è la promozione o la pubblicità, ma la gestione. In
particolare occorre pensare a competenze e modelli gestionali diversi da quelli
attuali e che siano più adatti alla piccola dimensione..
5. Il
volontariato può fare molto per i musei, ma va incentivato e formato.
6. Piccola
dimensione non significa solo disporre di spazi limitati, ma poter allacciare
legami più stretti con il territorio e la comunità locale. Quindi la “piccola
dimensione” è un “grande valore” da promuovere!
7. L’11 e il
12 novembre ad Assisi si incontrano i piccoli musei italiani per discutere
tutti questi temi. Il Ministero non ha ancora partecipato ai nostri Convegni.
Ministro Bray, perché non viene a sentirci?
8. Se verrà,
si accorgerà che il ruolo dei Piccoli Musei è fondamentale, che i musei non
sono fatalmente destinati a chiudere, e che anzi il loro sviluppo è possibile…
9. …se verrà,
si accorgerà che talvolta le Istituzioni non sanno aiutare i musei a nascere e
a crescere, e non di rado addirittura complicano la loro esistenza…
10. …se verrà,
si accorgerà che tra i musei italiani ce ne sono molti che hanno idee,
competenze e progettualità nuove, finalizzate al loro sviluppo e a quello dei
territori in cui sono ubicati.
Prof. Giancarlo Dall’Ara
Presidente
dell’Associazione Nazionale Piccoli MuseiStrategie di accoglienza nei musei
Quando chi gestisce un museo vuole capire se questo è abbastanza accogliente per i visitatori, non può non coinvolgere tutto il personale che lavora nel museo, perché è questo che contribuisce in maniera determinante a rendere l'ambiente più o meno accogliente.
Nel manuale dell'Icom "Comment gérer un musée", Vicky Woollard suggerisce questo esercizio: innanzitutto pensiamo a quando ci è capitato di avere personalmente una buona esperienza di accoglienza. Dove è successo? In una banca? In un aereo? In un albergo? In un treno? In un negozio? Perché ci siamo sentiti soddisfatti? Siamo stati accolti con un sorriso? Abbiamo ricevuto informazioni soddisfacenti? Il luogo era pulito e ben tenuto?
Dopo aver compiuto questa riflessione, chiediamoci, allora, che tipo di esperienza vorremmo che vivessero i visitatori del nostro museo.
Quindi, invitiamo ciascun dipendente a dare il suo contributo per la creazione di due liste in cui indicare da una parte le cose che rendono mediocre la qualità del servizio, dall'altra quelle che la rendono buona.
Godetevi la discussione - continua la Woolard - finché non arriverete a concordare i dieci criteri positivi in base ai quali imposterete le nuove norme del museo, questa volta approvate da tutti e quindi sicuramente più efficaci.
Urban experience: un “gioco” che rinnova il concetto di turismo
di Caterina Pisu
In questo post non si parla
espressamente di musei, ma di innovazione culturale e valorizzazione dei
territori, un tema che non può non interessare da vicino anche chi si occupa di
musei.
Ieri, infatti, grazie all’amica Laura Patara, ho avuto la fortuna di partecipare ad un esperimento
molto interessante, l’Experience Lab, un brainstorming
(letteralmente “tempesta di cervelli”, tecnica molto usata nel settore
pubblicitario) rivolto alle imprese culturali che a luglio troveranno sede nel
nuovo Incubatore ICult di Viterbo, e organizzato da Urban Experience e BIC
Lazio.
L’attività laboratoriale proposta
è stato il walk show di esplorazione urbana, una passeggiata
multimediale nel centro storico viterbese, in cui ci siamo avvalsi dell’uso di twitter
(#urbexp #biclazio) per raccogliere gli spunti che sono emersi nel corso del “brainstorming”
itinerante.
“Anima” dell’esperienza è stato Carlo Infante, presidente di
un’associazione di promozione sociale che ha attivato il social network urbanexperience. Infante, oltre ad
essere giornalista, esperto di teatro, nuovi media e di tecnologie per
l’apprendimento, è stato anche l’ideatore del concetto di Performing
Media, creato per definire l’interazione sociale e culturale con i nuovi
media interattivi. L’idea è promuovere l’uso creativo della città, “per reinventare lo spazio pubblico tra web e
territorio”.
Hanno preso parte all’Experience
Lab tutti soggetti attivi, in varie forme, nell’ambito imprenditoriale,
turistico, culturale, insieme alla sottoscritta che ha rappresentato
l’Associazione Nazionale Piccoli Musei.
L’Experience Lab ha anticipato ciò
che ci si proporrà di fare con la prossima inaugurazione dell’Incubatore ICult, auspicando che questa
nuova realtà possa essere anche l’”acceleratore” di un processo teso ad
aggregare gli imprenditori che vogliono investire nel territorio viterbese. E
non si tratta solo di business, «perché
vale la pena investire intelligenze ed energie nel territorio e trovare il modo
di far “giocare” i turisti, anzi, i “viaggiatori”» - per usare le parole di
Carlo Infante.
L’incubatore sarà ospitato nell’ex
mattatoio di Viterbo e - fa notare Infante” -
«i mattatoi posti in area urbana sono i luoghi che, non solo in Italia, ma in tutta Europa, per primi
sono stati dismessi e riadattati per altri usi, soprattutto culturali. Hanno
sempre fatto parte, cioè, di progetti di rigenerazione urbana associata alla
progettazione culturale».
Durante il walk show ci siamo avvalsi di un sistema radio che ci ha permesso
di rimanere connessi tra noi, muovendoci
in modo più libero rispetto alle visite guidate tradizionali che costringono a
rimanere sempre uniti gli uni agli altri, ascoltando l’unica voce della guida.
In questo caso, invece, era anche possibile allontanarsi, continuando, però, ad
ascoltare le conversazioni tra Infante e i vari partecipanti, osservando le peculiarità di uno dei borghi
più belli d’Italia, ma così poco valorizzato. Attraverso il collegamento radio abbiamo
ascoltato anche alcuni repertori audio, trasmessi mediante un tablet, che hanno
arricchito l’esperienza sensoriale.
Il percorso si è snodato per le
vie della Viterbo medievale, a cominciare dal Duomo per poi raggiungere il
quartiere medievale con una breve visita al piccolo Museo del Sodalizio dei
Facchini di S. Rosa. Si è cercato di andare oltre la classica visita che
illustra le radici storiche di una città, entrando in un’ottica diversa, cogliendo
spunti che potranno contribuire alla futura rigenerazione urbana.
Il metodo usato, quello di “camminare, osservare e dialogare”,
cambia l’approccio del brainstorming propriamente detto: in questo caso non eravamo seduti intorno a un tavolo a discutere e a confrontarci. «Siamo
come uno sciame di api che raccolgono informazioni e poi le diffondono sui
social networks» - è l’interpretazione proposta da Carlo Infante.
Nel pomeriggio, al termine dell’experience lab abbiamo accolto il pubblico per
il walk show finale dal titolo: “La terra che dice. Ascoltando il genius loci
etrusco lungo la via Francigena”, evento inserito nel programma del FestivalCollective
Project Via Francigena 2013 promosso dall’Associazione Europea delle Vie
Francigene e Civita. In pratica, abbiamo ripetuto lo stesso percorso della
mattina, ma questa volta coinvolgendo anche i nuovi partecipanti.
Che cosa è emerso da questa
esperienza? Innanzitutto che dobbiamo imparare qualcosa dal territorio. Si è
detto che Viterbo è una città poco valorizzata, così come lo è tutto il
territorio della Tuscia. Ma il “caso Viterbo” può essere esteso a tutta
l’Italia perché sono tante le situazioni simili. Si può parlare, piuttosto, di
un “caso Italia”. E’ importante, allora, riuscire a coniugare la progettazione
culturale con l’innovazione. La cultura, infatti, non è più circoscritta solo
alle “belle arti”; per cultura oggi si intende tutto ciò che caratterizza un
territorio e lo rende unico, comprendendo nel concetto la sua capacità di
produrre innovazione e creatività, ma anche quella di saper trasmettere la
propria “eredità” alle generazioni future. Cultural
heritage vuol dire letteralmente “eredità culturale”, anche se noi traduciamo
questo termine come “patrimonio culturale”, perdendo, forse, il senso più
esatto dell’espressione inglese.
Alla luce di quanto è emerso
dalla nostra riflessione, abbiamo concluso, o meglio ancora, abbiamo rafforzato
la convinzione che una delle vie di salvezza dell’Italia - forse “la via di
salvezza” - è la valorizzazione del territorio.
Tutta l’energia spesa per trasformare le città in smart-cities, cioè in ambienti urbani che impiegano tecnologie capaci
di migliorare la qualità della vita, non può non essere indirizzata principalmente verso questo
obiettivo.
Non a caso, accanto al PIL, che indica il valore totale
dei beni e servizi prodotti in un Paese e che quindi può
esprimere il benessere di una nazione, ora è considerato ugualmente importante
anche il BES (benessere eco-sostenibile), un indicatore che è in grado di
andare oltre il PIL. Che c’entra con il territorio? Moltissimo, dato che la
valutazione del BES considera
ben 12 campi che comprendono, tra gli altri, oltre al benessere
economico, all’istruzione, alla formazione, al benessere soggettivo, alla
salute e ai tempi di vita, anche l’ambiente, la qualità dei servizi, il lavoro,
le relazioni sociali, la ricerca e l’innovazione, il paesaggio e il patrimonio
culturale.
Questa esperienza ci ha anche
aiutato a capire che l’Italia è un luogo “da attraversare" e che bisognerebbe “combinare” i
percorsi in modo coerente (per esempio la via francigena con il corridoio
bizantino che collegava Roma con Ravenna). Ma non solo, abbiamo potuto
focalizzare che uno dei maggiori vantaggi che ha l’Italia è la biodiversità,
che ha reso estremamente diverso un territorio dall’altro. Dunque, bisogna cogliere
le peculiarità e saperle narrare.
Gli incontri della nostra Urban Experience viterbese
Durante la nostra esperienza, abbiamo
avuto occasione di conoscerci tra noi durante il briefing che ha preceduto l'Urban Experience e nel corso del walk show. Personalmente sono stata colpita in modo
particolare da tre di loro, senza nulla togliere a tutti gli altri, e che descriverò, di
seguito, nell’ordine in cui li ho conosciuti:
Alessandro Pichardo: alla ricerca
della tomba perduta
Il primo di cui voglio raccontare
è Alberto Pichardo, archeologo
spagnolo che si sta occupando di un progetto di internazionale che include, tra
gli altri obiettivi, la ricerca della sepoltura di Papa Alessandro IV (1199-1261),
il pontefice che trasferì da Roma a Viterbo la curia pontificia. La tomba fu
nascosta per impedire che le spoglie del Pontefice fossero depredate; dai documenti
risulta sepolto sotto il duomo di Viterbo, ma nessuno ha mai ritrovato il luogo
esatto, per cui per secoli è rimasto il “mistero” irrisolto di Viterbo.
La tecnica usata nella ricerca
condotta da Pichardo si basa sulla generazione di onde soniche, registrate da
una serie di sensori disposti seguendo un tracciato geometrico, i quali permettono
di misurare il tempo impiegato dalle onde durante il loro passaggio all’interno
dei materiali. Poiché la velocità di propagazione delle onde elastiche è in
relazione alle proprietà elastiche del materiale stesso, questo consente di
scoprire la presenza di cavità o di strutture particolari che si differenziano
dai materiali circostanti. Oltre a questa tecnologia saranno usati anche altri
strumenti, come potenti metal detector e sistemi di esplorazione robotizzati e
telecamere a fibre ottiche per le ricognizioni endoscopiche da utilizzare negli
spazi di difficile accesso.
Alberto Pichardo davanti all'effigie di Papa Alessandro IV, posta all'interno del Duomo di Viterbo |
Alberto Pichardo e un geofisico collocano gli elettrodi ai piedi della scalinata del Duomo |
Ma la ricerca della sepoltura di
Papa Alessandro IV non è, come abbiamo già accennato, l’unico obiettivo. Il
progetto si propone anche di studiare le strutture archeologiche sottostanti il
Colle del Duomo, dove dovrebbero trovarsi i resti dell’originario sito etrusco;
individuare altre cavità antropiche come cunicoli, cisterne, gallerie, cripte,
sepolture, ecc. ecc.; studiare la geologia e la stratigrafia del Colle del
Duomo; studiare e mappare le condizioni di potenziale instabilità degli edifici
situati sul Colle del Duomo, su cui per anni fu operativo l’Ospedale di
Viterbo, e dove attualmente sono ubicati il Seminario e la sede vescovile.
Intanto è notizia di pochi giorni fa che Alberto Angela realizzerà un
documentario sulle ricerche condotte da Pichardo nell’ambito del progetto
internazionale “Alessandro IV”.
La Viterbo sotterranea di Sergio Cesarini:
Il secondo personaggio di Viterbo
che ho incontrato durante la nostra Urban Experience è Sergio Cesarini, giornalista e direttore
di “Viterbo sotterranea”, un percorso di origine etrusca che si snoda
nelle viscere del quartiere medievale di San Pellegrino. Si tratta di un
patrimonio storico della città di Viterbo che Cesarini ha valorizzato
rendendolo fruibile al pubblico. Per ora sono percorribili un centinaio di
metri disposti su due livelli, a tre e ad otto metri di profondità, dove sono
visibili anche i resti di alcuni “butti” medievali, ma presto (probabilmente in
concomitanza con la Festa di S. Rosa, a settembre) si aprirà un altro tratto che
includerà alcuni spazi adibiti a laboratori didattici, soprattutto a beneficio
delle scuole. Altri progetti stanno per essere realizzati da Cesarini anche
nella provincia viterbese – e di cui spero di poter raccontare a breve - a
dimostrazione che con le buone idee, la capacità e l’entusiasmo, si possono
raggiungere obiettivi importanti che portano benefici alla comunità in termini
di sviluppo e di occupazione.
Renato Petroselli: l’imprenditore
filosofo
Tra le persone che ho conosciuto durante l’Urban
Experience, mi ha particolarmente colpito Renato
Petroselli, un viterbese che ha saputo “reinventarsi” imprenditore
turistico/culturale dopo aver lasciato la professione che, negli anni Settanta,
lo portò ad essere il primo operatore
televisivo di Televiterbo e tra i primi ad utilizzare la tecnica dello storyboard nella pubblicità.
Nel suo racconto, sollecitato dalle domande
di Carlo Infante che gli chiedeva quale fosse il rapporto dei viterbesi con la
propria città, mi ha colpita la sua frase “prima
di promuovere, bisogna conoscere”, cioè bisogna essere consapevoli del
valore di ciò che cerchiamo di promuovere. E questo è un concetto che
appartiene anche alle teorie promosse dall’Associazione Nazionale Piccoli Musei. Se i residenti non sono i primi ad essere coscienti della ricchezza del proprio
territorio, che cosa potranno trasmettere ai turisti di passaggio?
E’
fondamentale, allora, lavorare prima all’interno della comunità e poi dare
impulso al territorio, perché solo così si riuscirà a mettere in relazione chi
è depositario della conoscenza, o meglio, chi “possiede la memoria storica del luogo” con chi vuole apprendere, a
cominciare dalle nuove generazioni che a loro volta dovranno diventare
testimoni e divulgatori della propria eredità culturale.
Leggi anche: http://museumsnewspaper.blogspot.it/2015/04/libere-riflessioni-sulle-invasioni.html
Leggi anche: http://museumsnewspaper.blogspot.it/2015/04/libere-riflessioni-sulle-invasioni.html
TUTTI I BOTTONI DEL MONDO
Intervista a Giorgio Gallavotti, fondatore e direttore del Museo del Bottone di Santarcangelo di Romagna
Intervista
realizzata da Caterina Pisu
I bottoni hanno sempre
avuto un fascino particolare su di me, fin da quando ero bambina, quasi quanto
le palline colorate degli alberi di Natale. D’altra parte i bottoni sono sempre
stati i giocattoli dei bambini di tante passate generazioni, quando la fantasia
non era ancora stata rimossa dal frastuono alienante dei videogiochi. Pertanto,
quando ho iniziato la mia collaborazione con l’Associazione Nazionale Piccoli
Musei, circa due anni fa, è stata una piacevole sorpresa scoprire che tra i
nostri soci più attivi vi è il direttore del Museo del Bottone di Santarcangelo
di Romagna, Giorgio Gallavotti. Ho fatto la sua conoscenza ad Amalfi, lo scorso novembre, in occasione del terzo convegno nazionale dei Piccoli Musei, dove
Gallavotti - che è intervenuto ad ogni nostro convegno, fin dalla prima
edizione - era presente insieme alla gentilissima signora Giulia. Mi ha colpita
la sua affabilità, quei modi così educati e perbene che ricordano i tempi di
una volta. Deve esserci uno stile che accomuna coloro che nella loro vita si
occupano o si sono occupati di bottoni, perché il mio pensiero corre subito ad
un ugualmente distinto signore di Viterbo (la città dove vivo), proprietario di
un’antica merceria in piazza delle Erbe, che è una delle persone più garbate
che io conosca. Anche Giorgio Gallavotti ha venduto bottoni nel negozio
paterno, aperto nel lontano 1929. Nel 2002 ha cessato l’attività commerciale e
ha potuto dedicarsi a tempo pieno al suo progetto: il Museo del Bottone. L’idea
di un museo comincia a concretizzarsi nel corso degli anni Ottanta, ma quello
che possiamo definire il “concept”, cioè il soggetto del nucleo narrativo del
museo, ha avuto una definizione più graduale ed è nata dagli studi che
Gallavotti ha dedicato, in tanti anni, alla storia del bottone. I magazzini del
negozio paterno potevano contare su una collezione di circa 8.500 bottoni che
abbraccia quasi tutta la storia del Novecento, pertanto l’idea è stata quella
di raccontare la storia attraverso i bottoni. I bottoni, come le tendenze della
moda, sono cambiati nel corso degli anni e possono parlarci dei mutamenti della
società, delle rivoluzioni delle tradizioni e dei costumi, ed anche delle
singole storie delle persone. E in effetti il museo può essere “letto”
attraverso vari percorsi di visita che spaziano dalla storia delle due guerre
mondiali alle dittature del Novecento, dall’emancipazione femminile alle
Olimpiadi, ed altri ancora che ricordano le tappe più importanti della nostra
storia e della storia mondiale, come il boom economico degli anni ’50, la crisi
degli anni di piombo, la fine della guerra fredda. Non mancano bottoni che
parlano anche di periodi più antichi che risalgono fino al 1600- 1700-1800.
Tutto l’allestimento è stato creato con infinita pazienza dallo stesso
Gallavotti, che ha cucito i bottoni sui pannelli e li ha incorniciati per il museo
definitivo che è stato aperto nel 2008.
Il museo attira
moltissimi visitatori (sta per raggiungere i 200.000 ingressi dalla sua
apertura, non pochi per un piccolo museo) e bisogna anche dire che è uno dei
pochi musei privati ad ingresso gratuito. Forse proprio per questo è diventato
innanzitutto uno dei musei più cari ai cittadini di Santarcangelo di Romagna,
che ne sono giustamente orgogliosi.
Ma come mai un piccolo
museo come il Museo del Bottone riesce ad attirare tanto interesse intorno a
sé? Il merito deve essere attributo alle sue collezioni? All’allestimento? Alla
capacità di accogliere i visitatori? Probabilmente da tutte queste cose insieme,
unite ad un’ottima capacità comunicativa che vede il museo al passo con i
tempi, presente sul web con un sito ufficiale, un blog, e con un’intensa attività
anche sui social networks. Questa è una strategia che funziona e un modello dal
quale dovrebbero trarre insegnamento tanti professionisti museali che sono
molto meno sensibili sia all’arte dell’accoglienza che a quella della
comunicazione. Ma, come afferma Giancarlo Dall’Ara, fondatore dell’Associazione
Nazionale Piccoli Musei, ogni museo ha anche una sua personalità che è definita
da un insieme di fattori e dalle precise scelte di chi lo amministra. E allora,
per cercare di capire qual è la personalità del Museo del Bottone, ho
intervistato il suo creatore e direttore, Giorgio Gallavotti, che oltre a
dirigere il Museo è anche, come già accennato, un profondo conoscitore della storia dei bottoni (è
autore del volume “Bottoni. Arte, moda, costume, società, seduzione, storia”, Editore Pazzini). Dall’intervista
sono emerse una sensibilità e una consapevolezza della pratica professionale
del museologo che a volte non riscontriamo in coloro che sono specializzati
nella materia.
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Giorgio Gallavotti |
- Giorgio, che cosa c’è
della tua famiglia e, in particolare, dell’eredità morale di tuo padre, in
questo museo?
L’eredità
morale che mio padre mi ha lasciato è impagabile: “l’onestà e il rispetto di tutti”.
Questi, in quei tempi, erano i principi cardine di ogni persona, e mio padre, nato
nel 1901, mi ha trasmesso quei valori col suo esempio e col suo comportamento
nella vita di tutti i giorni. Vicesindaco di Santarcangelo nei primi anni Cinquanta,
non ha mai preso una lira per lo svolgimento delle sue funzioni. Se doveva recarsi
fuori dal comune, adoperava i mezzi pubblici e se li pagava di tasca propria.
Soprattutto
non dimenticherò mai il suo esempio sul lavoro. Dopo la seconda guerra mondiale,
con la ripresa delle attività, mio padre è andato a Milano, alla prima fiera
campionaria del dopoguerra. Ha comperato dei matassoni di filo di vari colori da 500 metri per
cucire a mano e a macchina. Bisognava fare delle spolette da 100 metri, che era
la misura delle confezioni standard, avvolgendo il filo su dei cartoncini
arrotolati. In questo modo le sarte, o chi aveva bisogno del filo per cucire, poteva
avere la quantità che occorreva dato che le confezioni standard di fabbrica non
si trovavano più o erano nascoste per il mercato nero. La misura doveva
essere precisamente di 100 metri, perché se qualcuno avesse avuto voglia di
controllare e fosse risultato un metro in meno, sarebbe stato un grande
disonore per la famiglia e per il negozio. Nonostante tutto, alla fine ebbe la
beffa dello Stato: dovette pagare i profitti di guerra.
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Giacomo, padre di Giorgio Gallavotti, ritratto nella sua merceria |
- Che
cos’erano i profitti di guerra?
Finita la
guerra e con la ripresa dell’economia, chi aveva la merce da vendere,
generalmente ne approfittava per venderla molto più cara e magari sottobanco
per guadagnare di più. Questo aveva fatto fiorire il mercato nero con la
realizzazione di profitti ricavati in maniera non lecita. Lo Stato, allora, pretese
una tassa forfettaria su questi introiti da tutti, sia da quelli che erano
stati onesti che da quelli che non lo erano stati. Questi erano i cosiddetti
“profitti di guerra”.
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La merceria dei Gallavotti negli anni Sessanta |
![]() |
Il negozio nel 1970 |
- Che parte hanno avuto
i tuoi famigliari in questo progetto?
Nello
svolgimento della loro attività di merceria, i miei genitori hanno conservato
sempre tutte le rimanenze in un magazzino, soprattutto i bottoni che, formando
molte giacenze, hanno costituito il nucleo originario della collezione del
Museo.
La
cosa più importante è che i miei genitori hanno sempre avuto fiducia in me. Già
ventenne mi hanno dato la possibilità di gestire il negozio assieme a loro
lasciandomi la responsabilità per quanto riguardava gli assortimenti. La cosa
che mi piaceva di più era comperare i bottoni: sceglievo i più all’avanguardia nella moda e
anche i più costosi. Il bello è che avevano successo e il nostro negozio era
sempre pieno di sarte.
La
mia famiglia all’inizio mi lasciava fare e non mi ha mai ostacolato nella progettazione
del Museo. Dopo la prima mostra, nel 1991, visto il successo, hanno capito che
facevo sul serio. Pian piano sono diventati solidali e mio genero ha anche
creato il primo sito internet del Museo. Ora mia moglie, che odiava la storia e
i bottoni, è diventata una brava guida molto apprezzata dai visitatori. Nei
momenti di necessità, quando ci sono raduni e feste al Museo, e abbiamo
necessità di più personale, anche mia figlia si attiva e spesso prepara il
buffet e lo serve.
- Qual è stato il
complimento ricevuto da un visitatore che ti ha fatto più piacere?
Con
200.000 visitatori i complimenti sono tantissimi e tutti graditi. Sono il cibo
dell’animo. Per non fare torto a nessuno ne cito uno di un visitatore
particolare. Per me è stato dolcissimo e mi ha fatto scendere una lacrima: «Caro nonno il tuo museo è molto bello. La tua parola non è una parola
ma una storia lunghissima».
Allora la mia
nipotina aveva 8 anni.
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File di bottoni in vendita nella merceria di famiglia, chiusa nel 2002. |
- Se tu avessi a
disposizione ingenti risorse, pari a quelle dei più grandi musei del mondo,
cambieresti qualcosa nel tuo museo o pensi che nulla dovrebbe essere
modificato?
Troppo
bello avere ingenti risorse. L’unica cosa che non cambierei è il luogo dove ora
si trova il Museo, un posto strategico per il Museo ma soprattutto per il
turismo santarcangiolese.
Preciso
che l’allestimento attuale è molto soddisfacente e anche pratico per i
visitatori. Ma…cercherei di comperare od affittare il locale vuoto sopra il
Museo; di ricavare uno spazio per la sezione dei materiali, della biblioteca e
una sala per le conferenze per svolgervi anche le lezioni agli alunni delle
scuole e per la formazione dei giovani che in futuro saranno il personale
qualificato che gestirà il Museo.
Se
potessi disporre di personale altamente qualificato nel Museo, avrei più tempo
per scrivere e per le mie ricerche sul mondo dei bottoni; potrei aumentare i
contatti con le scuole e così potrei portare il Museo nelle aule attraverso le
mie visite nelle scuole; potrei soddisfare più spesso le richieste di
conferenze.
Rifarei
tutto l’allestimento della sezione curiosità dal mondo, creando spazi più ampi fra
i quadri e migliorando la disposizione cronologica che abbraccia l’arco di
tempo 1600-1700-1800; inoltre disporrei luci mirate sui pezzi più pregiati e farei
creare un dvd su di essi che potrebbe essere visionato in uno spazio apposito
del Museo.
Rimodernerei la zona gift shop e book shop, dove sono
disponibili due libri di cui sono l’autore, quadri di bottoni, bottoni,
cartoline, manifesti ecc. ecc., che ci
permettono di sopravvivere. Tutto il materiale in vendita riguarda il Museo.
![]() |
Visitatori affollano l'ingresso del Museo del Bottone |
- Chi è, per te, una
persona che varca la soglia del tuo museo?
Le
persone che entrano nel Museo per me all’inizio sono tutte uguali, ma tutte
diseguali.
Ognuna
ha le sue caratteristiche, la sua cultura, il suo modo di vedere le cose, ma soprattutto quasi tutti non pensano
che dietro ad un bottone vi possa essere tanta storia, arte e cultura. Ognuno
ha la sua visione, che è quella della sua intelligenza, della sua cultura e
della sua sensibilità, e allora qui
comincia la sfida. Innanzitutto, cerco di capire che tipo di persona ho davanti
a me. Mi adeguo ai suoi desideri, al modo in cui preferisce svolgere la visita:
ascoltando, osservando con attenzione e ascoltando con interesse i riferimenti
alla storia, all’arte ecc. ecc.; oppure svolgendo la visita in modo meno
impegnativo e più ludico. Interagendo con tatto e descrizione, riesco quasi
sempre a meravigliarlo sul grande contenuto culturale che rappresenta il Museo
del Bottone, ma anche su quanta strada ha fatto nel mondo. Così quando esce è
soddisfatto di averlo visitato, mi rivolge tanti complimenti e spesso scrive una dedica sul libro delle
firme. Questo visitatore diventerà una fonte di pubblicità con il passaparola.
- Parliamo, ora, delle
tue strategie di comunicazione. Sei molto attivo sia nel tuo blog, http://ibottonialmuseo.blogspot.it/,
che sulla tua pagina Facebook. Che cosa significa, per te, essere comunicativo
sul web? Riuscire a mantenere viva l’attenzione nei confronti del museo? Cercare
di attrarre un maggior numero di visitatori? Mantenere i contatti con chi ha
già visitato il museo? Migliorare l’informazione sul museo o che cos’altro?
La
risposta a queste domande può essere solo una: il contatto è la cosa più
importante nella vita. La vita è la vita degli uomini con gli uomini,
non con le cose. Nelle relazioni ciò che conta è l’incontro. Mantenendo viva l’attenzione sul
Museo si possono attrarre nuovi visitatori. E’ necessario rendere continuamente
disponibili le informazioni sulle attività e sulle conquiste del Museo. E’
importante mantenere i contatti con i visitatori. Ma c’è anche un altro
aspetto: proprio il fatto di aver
mantenuto continuamente viva l’informazione con i comunicati stampa attraverso
i mass media, ha fatto sì che il Museo fosse conosciuto non
solo in Italia ma anche nel resto del mondo. Questo ha portato sviluppi
positivi per il Museo. Un esempio: nel 2010 Elena Chahanova giornalista accreditata
a Radio Nazionale Bulgaria in Italia, ha parlato del Museo del Bottone. Da quel momento abbiamo sempre
mantenuto i contatti attraverso internet e questo ha fatto si che ne abbia
parlato ancora, alla vigilia di Natale del 2012.
- Che cosa attrae, in
particolare, i bambini e giovani che visitano il tuo museo? Hai ideato
strumenti adatti a questa fascia di utenti per facilitare e rendere più
coinvolgente la loro visita al museo?
I
bambini, furbi ed intelligenti, sono una fonte di gioia. Spesso prima parlo con
loro e li porto a vedere i quadri che a
loro piacciono, per esempio Biancaneve e i sette nani, Pinocchio e un quadro
particolare dove vi sono bottoni degli anni Ottanta che rappresentano case,
conigli, gelati, farfalle ecc. ecc. Di solito io indico loro un oggetto ma
dicendo il nome sbagliato. Loro mi correggono subito e ridono; allora io,
imperterrito, sbaglio tutti i nomi e loro si divertono un mondo. Alla fine
regalo loro bottoncini di varie forme, soprattutto a forma di cappellino, di
pallone, di coccinella, di mela o a forma di cuore. Quando, poi, incomincio a
parlare coi genitori, anche loro seguono
tutto il percorso stando molto attenti e io continuo a sollecitare la loro
attenzione.
I
giovani o i ragazzini di 14-16 anni che vengono a visitare il museo, di solito
sono coppie di “morosini” (fidanzati,
NdR). All’inizio sono sempre timidi e premurosi, poi nel corso della visita
perdono la timidezza e apprezzano tantissimo le storie dei bottoni. Spesso
racconto loro le storie della seduzione e della provocazione che hanno come
protagonisti i bottoni, e loro si accorgono di ascoltare quelle cose che
provano realmente quando sono da soli. In omaggio offro loro fiori, bottoni
Swarovski e cuoricini, che sono sempre graditissimi, e alla fine sul libro
delle presenze scrivono frasi come: «qui
si entra come in una favola e non viene mai la voglia di uscire…».
![]() |
Bottoni esposti nel Museo |
- Quali sono i Paesi da
cui provengono maggiormente i visitatori stranieri? Si tratta di visite
programmate o casuali?
In
assoluto il Museo del Bottone è visitato dai turisti tedeschi che sono, per l’80%, gruppi prenotati accompagnati dalla loro guida.
Quest’anno,
dal 3 marzo 2013, il movimento dei tedeschi è stato di 100-150 presenze al
giorno per quattro giorni alla
settimana. Nella classifica seguono i francesi, i russi, i belgi, inglesi e gli
statunitensi. Meno numerosi, invece, i visitatori provenienti dai paesi ex
Urss, Norvegia, Olanda, Spagna, Canada, Argentina, Brasile, Cina, Giappone, sud
est asiatico e stati africani.
Sul
libro delle firme le nazioni straniere
conteggiate sono 120, provenienti da tutti i cinque continenti del Mondo. Il 50%
dei francesi e dei russi arrivano in gruppi prenotati, accompagnati dalla loro
guida. Altri giungono in piccoli gruppi autonomi e altri ancora, questo è
importante, accompagnati da ex visitatori o amici e parenti. Il bottone come
incontro fra le varie culture del mondo!
- Nel tuo museo in che
modo metti in pratica i principi dell’accoglienza di cui tanto discutiamo nei
nostri convegni dell’Associazione Nazionale Piccoli Musei?
Credo
in parte di aver già risposto a questa domanda. E’ l’attenzione per i desideri
della gente, accoglierli come quando arriva a casa un amico. La scalinata davanti
al Museo è piena di manifesti sul Museo stesso. L’ampia porta a vetri è sempre
aperta e da fuori si può intravedere l’esposizione: questo incuriosisce la
gente che si chiede cosa potrà mai dire un bottone. L’ingresso gratuito è
scritto ben visibile sulla bacheca esterna.
La
guida, che ha il cartellino di riconoscimento come guida volontaria, accoglie
il visitatore con un buon giorno, un sorriso ed una battuta spiritosa che mettono
subito a proprio agio i visitatori, informando anche che si può fotografie. La
guida, poi, costruisce un percorso comunicativo che emoziona il visitatore
con riferimenti al territorio
e alla realtà culturale che ospita il Museo. Non lo sollecitiamo assolutamente a comperare libri,
cartoline, bottoni ecc. ecc. sebbene la visita comprenda anche lo spazio
allestito per l’acquisto di libri e souvenir. L’unica cosa che chiediamo è la
firma di presenza per le statistiche.
Vi
sono a disposizione, gratuitamente, fogli illustrativi che raccontano il Museo,
cartoline con orari e foto del museo, brochures
complete di tutte le informazioni utili. Spesso alle signore e signorine
riservo omaggi di bottoni particolari.
- Il tuo impegno è stato
ed è supportato dalle istituzioni?
Pur
avendone a disposizione, non mi hanno mai voluto concedere un locale. Sotto
l’aspetto economico, dal maggio 2008 – primo giorno di apertura del Museo - al 31
dicembre 2012, le Istituzioni hanno contribuito al pagamento dell’affitto del
locale per 5 mesi l’anno, ma quest’anno ancora non si sa che cosa succederà a causa della crisi e del
sindaco dimissionario. Per il resto…la parola è d’argento ma il silenzio è d’oro!
- Se tu dovessi creare
uno slogan per il tuo museo, così di getto, che frase ti verrebbe in mente?
«Un inno alla storia e all’arte», frase
lasciata sul libro delle firme da un professore di storia della Università di
Treviso, dopo una chiacchierata di due ore e mezzo, in un giorno di luglio, con
31 gradi di temperatura (la gente era tutta al mare), e che entrando aveva
detto: «cosa può mai dire un bottone?»
La
seconda opzione: «Il bottone, la memoria
della storia».
- Grazie, Giorgio, per
avermi concesso questa bellissima e coinvolgente intervista.
Ringrazio
te, Caterina, per avermi fatto delle domande particolari che mi hanno permesso
di scrivere sulla mia famiglia, ma soprattutto su mio padre a cui ho dedicato
il mio primo libro del Museo. E’ un onore per il Museo del Bottone essere stato
scelto per il tuo blog.
Permettimi,
in conclusione, di fare dei ringraziamenti. In cinque anni di attività fissa il
Museo ha raggiunto traguardi inimmaginabili per il numero delle visite, ben 200.000,
ed è riuscito a farsi conoscere nel contesto nazionale e internazionale. Mi sento in dovere di rivolgere un ringraziamento
particolare a tutti coloro cui debbo questo successo: ai soci dell’Associazione “Amici del Museo del
Bottone”, all’Associazione “La Scatola
dei Bottoni” e al suo presidente Sig.ra Lorena Ghinelli, che con i loro consigli e le loro osservazioni
hanno dato un’impronta particolare alla conduzione del Museo.
Ringrazio
anche Claudia Protti che cura il
blog “I bottoni al Museo”; le professoresse Ilaria Picardi e Chiara Marziani, per i contatti con l’Università della Moda di Rimini e per la creazione della pagina Facebook; il Prof. Giancarlo Dall’Ara, Presidente dell’Associazione Nazionale dei Piccoli Musei, che ha fatto del Museo dei Bottoni
un’icona dei piccoli musei, portandola ad esempio in giro per l’Italia; la Pro Loco di Santarcangelo, con cui vi è un’ottima
collaborazione; infine, le tante laureate che hanno svolto le loro tesi di
laurea sul Museo del Bottone.
Ringrazio
alcuni di coloro che hanno portato il
Museo in giro per il mondo: la giornalista bulgara di Radio Nazionale Bulgaria, Elena
Chahanova, che ha raccontato il Museo attraverso le antenne di radio nazionale; la giornalista cinese Pingsha Tian, che ha scritto sul Global Times di Pechino; la guida russa
Yuri, che porta tantissimi turisti. Un
grazie anche agli sconosciuti per il loro passaparola
Infine
un particolare ringraziamento di cuore è per Caterina, per il suo impegno e
dedizione per la conservazione del mondo della memoria. Grazie.
___________________________________________
Il
Museo del Bottone si trova a Santarcangelo di Romagna, in provincia di Rimini.
Via
Della Costa, 11
Tel.
0541624270
Sito
web: http://www.bottoni-museo.it/
Aperto tutti i giorni
dalle 10-12 15-18 orario invernale 10-12 16-18.30 21-23.30 orario estivo
Ingresso gratuito come
la guida interna.
Offerta facoltativa per
l'associazione no profit “La Scatola dei Bottoni” che cura la visibilità del
Museo del Bottone.
____________________________________________
I racconti dei bottoni
Il Museo del Bottone ispira un libro di racconti di Silvio Biondi e Amedeo Blasi
di Caterina Pisu

I bottoni sono i protagonisti di una raccolta di nove racconti un po' surreali, divertenti, talvolta irriverenti, scritti da Silvio Biondi e Amedeo Blasi, due autori diversi per formazione e per professione, ma che insieme hanno saputo dare vita ai bottoni, immaginando "che i bottoni potessero parlare" - citando i due stessi scrittori - facendoli diventare piccoli "maestri di saggezza". Leggendo le pagine di questo volumetto mi sono affezionata ai singoli protagonisti: dal bottone papalino dell'"indeciso" e ambizioso Generale Zucchi al bottone di Papa Sisto V; dal bottone viterbese, ignorantello e anche un po' infame, ai bottoni rifugiati sul pianeta "Futuro Della Terra"; dal bottone del prete che vola sulla luna al bottone del ciabattino che diventa primo ministro e viene ucciso a causa del suo "brutto vizio" di fare del bene ai poveri. Per finire con il filo e bottone che litigano tra loro ma poi si accorgono di non poter fare a meno l'uno dell'altro, e con il "bottone volante" di Giorgio Gallavotti, che ci porta alle lontane origini del bottone.
Da oggi in poi guarderò i bottoni con maggior rispetto perché in fondo è vero: loro, più o meno saldamente attaccati ai nostri abiti, sono i testimoni della nostra vita e chissà quante cose possono raccontare di ciascuno di noi!
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