Questa disamina che illustra alcuni casi esteri e due casi italiani di progetti museali o di tipo museale con finalità sociali, è stata da me presentata al quarto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei ad Assisi, nel 2013. A questo link è possibile scaricare l'articolo in PDF.
All’interno
dell’apparato teorico sviluppato dall’
APM è considerato essenziale che i musei
instaurino un buon rapporto con la cittadinanza. Infatti, se i residenti
ignorano la propria cultura o se a una parte di essi è negato il diritto di
usufruirne - perché, per esempio, vivono dei disagi profondi, delle situazioni
di conflitto, di divisione o di esclusione sociale - il museo, che dovrebbe
riflettere l’immagine di quella comunità, ma che vive distante dai suoi
problemi, è, nella sostanza, un luogo che non è in grado di incidere
profondamente nella vita della società. «
Senza valore sociale il museo è
nulla» - affermava il museologo americano
Stephen Weil, teorico del
museo inteso come “impresa sociale”. Per Weil «
i musei devono esistere
per qualcuno, non per qualcosa»; ovvero, anche quei musei che producono risultati
significativi dal
punto di vista scientifico, se agiscono soltanto
nell’ambito di una ristretta comunità accademica o sempre per le stesse fasce
di pubblico, in pratica svolgono un lavoro incompleto, poiché il museo che
intende avere un ruolo più democratico nell’ambito della società, «
attira
una folla eterogenea, ha una programmazione varia e opera su diversi
livelli, è socialmente responsabile, coinvolge il pubblico, lo fa partecipare,
si basa sul dialogo, non ha paura del dibattito, della polemica, delle
opinioni, ma anzi le sollecita. Un museo democratico può lottare per la
giustizia e i diritti umani (2)» Non solo,
ma è lecito affermare che la
“personalità”
del museo si manifesta proprio nella sua capacità di rappresentare la comunità
cui appartiene. L’applicazione di modelli puramente accademici, infatti, rende
i musei tutti uguali e ripetitivi (3), ma un
museo che offre alla cittadinanza una ragione di identificazione e di
aggregazione sociale, assume una connotazione originale e non riproducibile dagli
altri musei, in quanto esso è l’espressione di quella sola e unica comunità.
I musei di
quartiere e i musei a forte vocazione sociale
In questa sede,
sono stati esaminati sia i “musei di quartiere” puri, cioè quelle istituzioni
che nascono con il preciso scopo di mettersi al servizio della collettività
(anche come estensione di musei di tipo tradizionale), sia quei musei che hanno
scoperto, solo nel corso del tempo, una “vocazione sociale”, includendo nella
propria attività, specifici progetti studiati per le fasce sociali a rischio di
esclusione. Questi musei stanno diventando sempre più numerosi e, in alcuni
casi, per esempio nel Regno Unito, sono stati decisamente incoraggiati dalle
istituzioni politiche ad intraprendere attività culturali rivolte ai problemi
sociali, sia per gli evidenti benefici prodotti dalla loro azione in seno alla
collettività sia per le ricadute positive che la coesione sociale determina
anche per il sistema istituzionale e politico locale e nazionale.
Dal punto di vista “geografico”,
sono stati presi in considerazione gli Stati Uniti, dove è nato il primo “museo
di quartiere”, il Regno Unito, il Paese che più di altri ha messo in atto
importanti politiche sociali mediante i musei, il Brasile, dove si è
recentemente affermata una nuova visione del museo che si sviluppa “dal basso”,
cioè per impulso della stessa popolazione; infine la Francia cui è associato un
esempio straordinario che riguarda uno dei più grandi musei del mondo, il
Louvre, il cui progetto "Au-delà des murs", rappresenta un’ottima
sperimentazione di attività di outreach di una istituzione museale.
Non è stata operata
una distinzione tra piccoli e grandi musei ma si è focalizzata l’attenzione
unicamente sulla creatività e sull’efficacia dei progetti di inclusione sociale
a prescindere, quindi, dalla grandezza o dalla rilevanza dell’istituzione
promotrice.
- I musei di quartiere
Il primo museo di
quartiere nasce negli Stati Uniti, negli anni Sessanta, grazie a
John Kinard,
il quale progettò e diresse, dal 1967 al 1989, l’
Anacostia Neighborhood Museum.
Questo museo fu allestito in un cinema abbandonato, in un quartiere difficile e
pieno di contraddizioni, Anacostia, il ghetto nero situato nella parte
sud-occidentale di Washington.
Nella fase di
progettazione del futuro museo di quartiere, fu necessario coinvolgere da
subito tutti i rappresentanti della comunità: associazioni di vario tipo, da
quelle civiche a quelle religiose, comitati di giovani, di inquilini, della
polizia, ecc. Per molti mesi si svolsero incontri tra questi e lo staff del
museo, fino al giorno dell’inaugurazione, avvenuta nel settembre del 1967.
Questa è la data che segna un cambiamento epocale nel modo di concepire un
museo: non più soltanto una istituzione finalizzata a migliorare la conoscenza,
a promuove la ricerca e a conservare la memoria, ma finalmente anche una
organismo necessario per il presente e per il futuro delle comunità. Un
“orecchio in ascolto”, così Kinard definì l’Anacostia Neighborhood Museum. Egli
era convinto che servissero «musei concepiti per assumersi dei rischi, per
creare un ponte tra ricchi e poveri, tra individui istruiti e persone
illetterate, tra culture privilegiate e altre svantaggiate, tra grande arte e
arte popolare (4)». In questo nuovo modello di museo, ai curatori è
chiesto di fungere da mediatori e di interpretare i problemi della società
moderna alla luce degli insegnamenti che ci giungono dal passato. Kinard cerca anche
di capire le perplessità che possono sorgere nei professionisti museali che,
probabilmente, giudicheranno insensato che si chieda loro di occuparsi di
problemi che esulano dalle loro responsabilità e dalle loro specifiche
competenze (5). La soluzione, allora, è quella di creare un organismo
che affianchi il museo e che assuma la funzione di intermediario: il museo di
quartiere. Questo è non solo possibile, ma auspicabile, in quanto «dobbiamo
aspettarci molto di più dai nostri musei (6)», afferma Kinard. Il primo
museo di quartiere nasce, dunque, come estensione della Smithsonian
Institution. Quando la Smithsonian decise di fare questo passo, sapeva che si
stava per intraprendere un percorso fino ad allora inesplorato e, quindi, con
molte incognite. Si trattava di un museo che non si poteva permettere di
“appendere quadri ai muri” - secondo Kinard - né di esporre oggetti storici, a
meno che sia i primi che i secondi non avessero un legame con la realtà della
gente del quartiere, ovvero fossero oggetti con cui le persone potessero
identificarsi. Il compito del museo di quartiere dell’Anacostia Museum è stato
quello di parlare con la gente, analizzare i problemi insieme a loro,
raccogliere dati e, infine, creare una esposizione o un altro tipo di
iniziativa che rappresentasse davvero la gente. «Il museo deve essere
un’istituzione viva» - continua l’artefice del primo museo di quartiere - «deve
offrire alla gente del posto una sede in cui si accenda la voglia di
incontrarsi e parlare; deve prestare attenzione ai problemi urgenti; deve
incoraggiare le persone a dare il meglio di sé; deve promuovere attività che
hanno a che fare con le arti visive e
dello spettacolo; deve sollecitare interessi diversi, che vanno dalla lotta
contro l’alcolismo all’archeologia locale, dall’ornitologia alla pianificazione
urbana (7)».
L’Anacostia Museum è sopravvissuto nel tempo e ha creato, dal 1967 ad
oggi, una quantità incredibile di mostre, conferenze, attività didattiche,
iniziative varie, crescendo e trasformandosi insieme al quartiere che, nel
frattempo, ha cercato di migliorare la sua condizione iniziale e ora vede il
moltiplicarsi di gallerie, sale da concerti e luoghi di aggregazione.
Attualmente il Museo conta su uno staff di 19 professionisti, 25 volontari e 5
stagisti. Tra i suoi obiettivi, vi è anche quello di condividere la propria
esperienza museologica, attraverso consulenze, presentazioni e pubblicazioni.
Un esempio più recente di museo che nasce in funzione e con l’apporto
diretto della propria comunità, è il
Museu de Favela (MUF), fondato, nel 2008,
dagli abitanti delle favelas di Peacock, Pavãozinho e Cantagalo, a Rio de
Janeiro. Sono solo alcune delle 700 favelas della città brasiliana, le quali
non sono identificabili solo con fenomeni di criminalità e narcotraffico ma
rappresentano anche un terreno culturale molto fertile. Negli ultimi anni si
stanno attuando le cosiddette politiche di “pacificazione”, non sempre, però,
così positive per i residenti, soprattutto per la speculazione edilizia che sta
accompagnando la preparazione dei prossimi grandi eventi sportivi, Mondiali di
calcio e Olimpiadi, che in alcuni casi conducono all’espropriazione di intere
zone per la costruzione di impianti sportivi, e al conseguente allontanamento
dei favelados. Il Museu de Favela, dunque, rappresenta una grande opportunità
di riscatto e di visibilità per gli abitanti di queste periferie. Esso è
diventato anche un mezzo di sviluppo economico locale per i residenti, grazie
agli introiti derivanti dalle visite e dalla vendita di prodotti dell’artigianato
locale. Il patrimonio culturale di questo museo sono, in pratica, i circa
ventimila abitanti di queste zone marginali della città. L’antropologo
brasiliano
Mario Chagas ritiene che «
il più grande patrimonio del museo sia il
suo pubblico», ma in questo caso, pubblico e curatori formano un’unica entità
sociale, formata da artisti, musicisti, artigiani, fotografi, giornalisti,
professionisti, semplici residenti senza specifiche specializzazioni, ciascuno
portatore di nuove risorse per la sopravvivenza del museo. L’impegno assunto
dai fondatori è lavorare per il miglioramento della memoria culturale
collettiva, il rafforzamento del carattere della comunità, la creazione di una
visione comune del futuro che conduca ad una trasformazione delle condizioni di
vita dei quartieri poveri.
- I musei a
vocazione sociale
Se i musei sono, per loro natura, istituzioni socialmente
responsabili, in quanto custodiscono il patrimonio comune e lo rendono
leggibile, è solo in tempi recenti che si è rafforzata la convinzione che la
responsabilità sociale del museo debba superare i confini convenzionali e
trovare nuove forme di applicazione. Tale aspirazione è il frutto di una sempre
più intensa ricerca sul pubblico. Per svolgere al meglio il proprio lavoro, i
curatori hanno avuto bisogno di studiare ciò che interessa e che più motiva i
visitatori ad affezionarsi a un museo. Tali indagini hanno anche tentato di
identificare i potenziali visitatori, cioè coloro che non penserebbero mai, per
vari motivi, di entrare in un museo, studiando le strategie più adeguate per
attrarli, sulla base del principio che ogni individuo deve beneficiare dei
musei, non solo alcuni privilegiati. Così facendo, i musei hanno imparato ad
essere più democratici, meno elitari, più aperti (8). Da istituzioni
concentrate quasi esclusivamente sulla cura delle collezioni, quali erano, si
sono trasformati in istituzioni per le quali non solo il pubblico inteso in
senso tradizionale, ma tutta la collettività - visitatori e non visitatori -
assume un’importanza centrale. Questo passaggio produce un modello di museo
inteso come “impresa sociale”, ovvero - per usare ancora le parole di Stephen
Weil - un museo che trae «la sua legittimità
da quello che fa, piuttosto che da quello che è». In qualche modo l’originario
ruolo sociale del museo, cioè quello di custodire la storia e di rendere
consapevole la società del suo passato, non è mutato, ma ha assunto un
carattere più funzionale. Si possono citare vari esempi di musei “a vocazione
sociale”. Tre di questi sono esemplificativi delle varie forme in cui tale
ruolo può essere svolto: si tratta di due musei inglesi, il Museum of London e
l’Holbourne Museum di Bath, e del più importante museo di Francia, il Louvre.
- Museum of London, Holbourn Museum, Louvre
Se negli Stati Uniti il primo museo di quartiere nasce, come appena
descritto, per rispondere ad una precisa esigenza di integrazione dei neri
americani, vittime di una forte discriminazione (insieme ai nativi americani e
ai latino-americani) che li escludeva dalla vita sociale e culturale del Paese
e che li sottorappresentava, di conseguenza, anche nei musei, nel Regno Unito,
invece, la “vocazione sociale” dei musei si afferma a seguito della forte crisi
che ne colpisce l’identità nel corso degli anni Settanta, al punto che Margaret
Thatcher li definì “istituzioni inutili” (9) ed evidentemente costose
per la società. Era necessario, dunque, trovare una giustificazione alla
propria esistenza: non più solo contenitori di oggetti da conservare, studiare
ed esporre, ma realtà più vicine alla gente e in grado di interpretarne i bisogni
e le aspirazioni. Per questa ragione i musei britannici - che stavano vivendo
il loro momento più buio, in un periodo storico caratterizzato da grandi
contestazioni e dalla messa in discussione di molte certezze - si sono trovati
nella condizione migliore per accogliere di buon grado l’invito del governo ad
estendere il proprio campo d’interesse alle problematiche sociali. Tali
pratiche sono proseguite nel tempo e tutt’ora i musei del Regno Unito sono
all’avanguardia sia nella messa in pratica di progetti di inclusione sociale
sia nello teorizzazione di nuovi modelli di gestione museale, più aperti alla
partecipazione della comunità.
- Museum of London
- lavorare con i giovani
Il
Museum of London è da anni impegnato in progetti di inclusione
sociale rivolti ai giovani, agli adulti, soprattutto ai disoccupati di lunga
durata, e ad altre categorie sociali deboli. In questi progetti, i soggetti
coinvolti non svolgono attività didattiche o ricreative ma collaborano
fattivamente al miglioramento dei servizi offerti dal museo, per esempio
producendo podcasts audio e video, di ausilio ai visitatori del museo nella
comprensione dei percorsi espositivi inerenti le fasi più antiche della storia
di Londra.
Nel caso dei giovani, è stato creato un team di ragazzi londinesi, tra
i 16 e i 21 anni, che hanno svolto la funzione di “consulenti” del museo per la
creazione di progetti, mostre ed eventi per i loro coetanei (10). Il
progetto, denominato “Junction”, è iniziato nel 2010 e i ragazzi hanno preso
parte a tutte le fasi della sua creazione, compresa la cura delle esposizioni e
l’organizzazione degli eventi pubblici: una partecipazione, dunque, a 360°. In
questo modo i giovani hanno vissuto l’opportunità unica di impegnarsi per il
funzionamento del museo e soprattutto di esprimere la loro opinione e la loro
personale visione di giovani londinesi, influendo sulle decisioni dei curatori
e dei responsabili del Museo.
Le attività con i giovani, invitati dal Museum of London come
volontari, sono costantemente riproposte e la partecipazione è aperta a
chiunque ne faccia richiesta.
- Holbourn Museum -
restituire un posto nella società ai senzatetto
L’
Holbourn Museum è un museo d’arte situato a Bath, nel sud
dell’Inghilterra, rinomata cittadina turistica per la quale i senzatetto erano
un vero problema sociale. Ora, invece, il museo svolge da sei anni un programma
di attività con i senzatetto, nell’ambito del progetto “Homeless artists” che
prevede un incontro settimanale con persone che vivono un disagio sociale, alle
quali, con la guida di artisti professionisti, è data la possibilità di
esprimere la propria vena artistica e di conoscere in modo più approfondito
l’arte pittorica e le sue tecniche. In tal modo essi non sono più “persone
invisibili” ma riescono a mostrare al resto della comunità che esistono,
mettendo in luce i problemi di cui sono vittime. I lavori artistici vengono
esposti nel museo e in varie altre manifestazioni organizzate nella città di
Bath. Ma non solo, grazie all’idea di un ex studente della locale università,
Luke Tregidgo, i senzatetto, adeguatamente formati, sono impiegati come guide
turistiche. Si è così cercato di risolvere un grave problema sociale,
sfruttando da una parte il valore dell’arte e l’efficacia dell’espressione
artistica individuale, dall’altra la maggiore risorsa della cittadina, il
turismo.
- Il Louvre fuori
dal Louvre
L’ultimo esempio è quello del
Louvre. Anche questo museo, che potrebbe
vivere solo del suo imponente patrimonio storico e artistico, ha cercato
l’impegno sociale e lo ha concretizzato attraverso il coinvolgimento dei
detenuti del carcere parigino di Poissy (11). In questo caso,
l’attenzione si è concentrata non sulle fasce sociali più deboli della comunità
di riferimento, ma su una realtà che solitamente è percepita come separata da
essa, senza alcun tipo di legame con il resto della cittadinanza se non quello
mediato dai contatti con le associazioni filantropiche della città. Il rapporto
del Louvre con le carceri risale già al 2007: fino ad oggi sono state
organizzate più di 120 attività cui hanno preso parte professionisti del
settore culturale e gruppi di detenuti. Nel 2011 è stato realizzato il progetto
"
Au-delà des murs", che ha rafforzato l'impegno del Louvre per le
attività sociali e culturali nelle carceri. L’iniziativa è consistita nella
riproduzione di ventisei opere del museo parigino da parte di un gruppo di
detenuti, scelti non per le loro capacità artistiche ma per la forte
motivazione interiore che hanno dimostrato. Ogni detenuto che ha preso parte al
progetto ha scelto autonomamente il proprio modo di contribuire alla
realizzazione della mostra, dedicandosi alla pittura, alla progettazione
grafica o ai testi. La mostra ha avuto la supervisione dello scrittore Luc
Lang, membro della Maison des écrivains et de la littérature, e
dell'architetto-scenografo Philippe Maffre (che aveva già collaborato con il
Louvre e che in questa occasione ha realizzato lo storyboard della mostra), i
quali hanno lavorato al progetto a stretto contatto con il gruppo di detenuti,
con il personale del carcere e con quello del Louvre. Per circa sei mesi il
cortile dell'istituto penitenziario ha ospitato l'esposizione delle
riproduzioni realizzate dai detenuti mentre il Louvre esponeva, nello stesso
tempo, una "mostra-specchio" con le copie delle stesse opere. Il
cortile è stato scelto come spazio espositivo non perché non si disponesse di
altre soluzioni, ma perché, in questo modo, tutti i detenuti, ogni giorno,
avrebbero potuto osservare quelle opere. L'iniziativa ha suscitato grande
emozione non solo nell'ambito della comunità carceraria e dello staff di
curatori e collaboratori del Louvre, ma anche dell'intera cittadinanza parigina. Per ora il Louvre resta l'unico
museo ad aver trasformato i detenuti non solo in artisti ma anche in curatori.
I musei di
quartiere in Italia: due casi studio
Le esperienze europee ed extra-europee finora descritte dimostrano che
la sostenibilità, intesa in senso sociale, cioè la creazione di relazioni con
le proprie comunità, è una pratica che richiede tempo per svilupparsi e la
fiducia non può essere acquisita nello spazio di poche ore. E’ molto facile che
i risultati raggiunti svaniscano se i progetti non fanno parte
dell’impostazione mentale di un'organizzazione museale e, quindi, se non
trovano terreno fertile, dedizione costante e impegno da parte dei responsabili
dei musei.
In Italia, in generale, l’attenzione per il sociale si sviluppa
soprattutto nell’ambito dell’arte contemporanea, finora il settore più avanzato
nella ricerca di proposte innovative che utilizzano l’arte per la
riqualificazione degli spazi urbani (12). Si tratta, però, in molti
casi, non di istituzioni culturali radicate nel territorio che svolgono
politiche culturali inclusive in modo continuativo, ovvero come prassi
ordinaria integrata nella programmazione culturale regolare, ma, più spesso, di
un fatto occasionale, di un “evento”, come viene rilevato anche nel Rapporto di
ricerca della Fondazione Cariplo del 2009, Periferie, cultura e inclusione
sociale (13), oppure di operazioni di ordine forse più “estetico” che
effettivamente funzionali alla soluzione dei problemi sociali.
Gli esempi italiani qui esaminati riguardano due casi studio di grande
interesse, entrambi unici per le modalità di svolgimento e per gli obiettivi
che si sono posti. Il primo riguarda la sperimentazione di un “museo di
quartiere temporaneo”, avvenuta a San Giuliano Milanese, in provincia di
Milano; il secondo si riferisce alle iniziative dell’associazione culturale
100% Periferia, con sede a Roma ma operante anche in altre città, sia in Italia
che all’estero, tese alla riqualificazione degli spazi urbani periferici
attraverso l’arte contemporanea ed altre forme di espressione artistica, e alla
creazione di progetti partecipativi che intrecciano il linguaggio degli artisti
con quello degli abitanti dei quartieri.
1) Museo temporaneo
di quartiere di San Giuliano Milanese
La sperimentazione fu effettuata tra l’aprile e il luglio del 2009,
nell’ambito del progetto “
Foresta nascosta”, ideato dall’architetto Matteo
Balduzzi, dal sociologo e sinologo Daniele Cologna e dal ricercatore esperto di
welfare Stefano Laffi, promosso dalla Provincia di Milano e dal Comune di San
Giuliano Milanese (14).
In quella occasione, all’interno di due container fu allestita
un’esposizione di “storie” e di fotografie fornite dagli stessi abitanti dei
quartieri di San Giuliano Milanese, città caratterizzata da varie ondate di
immigrazione che hanno interessato la zona nel corso degli anni. Ciascuno dei
cinque quartieri della città, coinvolti nel progetto, ha rappresentato,
attraverso i racconti dei suoi residenti, un cinquantennio di sviluppo della
città: dall’inurbamento dei contadini e dalla prima immigrazione dal sud negli
anni ’50, passando per la più massiccia immigrazione dal sud degli inizi degli
anni ’60, in coincidenza con il boom urbanistico, fino alla creazione delle
zone residenziali negli anni ’70 e degli agglomerati di edilizia popolare
negli anni ’80. Infine, l’ultima fase, quella dei nuovi immigrati
stranieri e dei grandi complessi residenziali a schiera degli anni Novanta e
Duemila, destinati alle classi sociali medio-alte.
La gestione del progetto fu affidata ai ragazzi di San Giuliano, di
età compresa fra i 16 e i 24 anni, i quali svolsero la funzione di
“raccoglitori” delle storie degli abitanti dei vari quartieri. I giovani ricevettero,
per l’occasione, una specifica formazione ed anche un piccolo rimborso
economico. I compiti svolti consistettero nell’apertura dei container
espositivi, nell’incontro con gli abitanti e quindi nella raccolta di
interviste e fotografie, nella trascrizione e nell’archiviazione del materiale
ottenuto.
Anche i container ebbero, ciascuno, una loro specifica funzione: il
container rosa, denominato Bar delle storie, fu il luogo d’incontro e di
discussione degli abitanti con i ragazzi, cioè il luogo in cui le storie furono
raccontate e registrate. Nel retro venne predisposto un piccolo ufficio
attrezzato di apparecchiature per la registrazione, l’archiviazione e la
trascrizione dei materiali, e infine per la digitalizzazione delle fotografie.
Il secondo container, invece, costituì lo spazio espositivo vero e
proprio, il cui colore venne modificato a seconda del quartiere in cui fu
posizionato. Vi furono esposte, a rotazione, le storie degli abitanti e le loro
fotografie di famiglia, “una sorta di installazione collettiva in progress”.
Il progetto è descritto nel sito ufficiale
http://www.forestanascosta.net/. All’esposizione seguì anche la pubblicazione
di un catalogo, un “inserto speciale” dal titolo “Foresta nascosta”, venduto in
edicola con i due giornali partner del progetto, Il cittadino e La Gazzetta del
Sud Milano, stampato in oltre 20.000 copie.
2) 100% Periferia
L’organizzazione
100% Periferia nasce con l’intento di portare l’arte
in spazi atipici, al di fuori delle consuete superfici museali, grazie ad una
rete di collaborazioni tra artisti, associazioni, scuole, biblioteche, musei ed
altre istituzioni. Le proposte culturali sono fondate principalmente sulla
condivisione e, dove possibile, sulla partecipazione attiva delle persone del
luogo, in particolar modo dei ragazzi, al processo organizzativo e creativo. Il
“nomadismo culturale” o l’”Arte in movimento” che caratterizzano l’azione di 100%
Periferia si esprime, per esempio, nella costituzione di gallerie mobili.
Tra le varie iniziative promosse in questi anni dall’associazione,
tutte di grande interesse, è stata scelta, come caso studio, la manifestazione
denominata “Cielo condiviso”, realizzata quest’anno, dal 20 al 25 ottobre, in
collaborazione con il MAAM, Museo dell'Altro e dell'Altrove di Metropoliz_città
meticcia (Roma, via Prenestina), La Bottega dei Mondi Impossibili, Cooperativa
Ermes, e con il patrocinio di Roma Capitale.
“
Cielo condiviso” è una rassegna d’arte partecipata allestita nel
campo Rom di Via Salone, a Roma. Un gruppo di artisti di ogni genere e di
studiosi (poeti, musicisti, fotografi, teatranti, curatori d’arte e astronomi)
hanno coinvolto i residenti del campo per vivere attività comuni progettate
intorno all’idea-guida del cielo e della sua orizzontalità, espressione di
relazioni più eque tra le persone, in cui non contano più i ruoli individuali.
Un collegamento creativo con le stelle ha permesso al cielo di
avvicinarsi al campo, posandosi su uno schermo bianco di proiezione, in un
incontro condiviso.
La partecipazione dei Rom è avvenuta per esempio attraverso il racconto
di alcune donne anziane, le quali hanno collaborato anche alla creazione di una
particolare mappa celeste realizzata con le stoffe donate dalle stesse donne
Rom e con le fotografie del cielo realizzate dagli abitanti del campo. Altri
laboratori sono stati apprestati per i bambini Rom, dedicati, per esempio, allo
studio dei fenomeni celesti o alla realizzazione di oggetti narranti. Un
astrofisico e un astronomo hanno invitato i partecipanti a conoscere il cielo,
attivando workshop volti a far interagire le persone con le stelle e a
conoscere i principi dell’astronomia spiegati in modo semplice e immediato,
aiutando ad intraprendere in modo autonomo l’osservazione del cielo. Il
progetto di 100% Periferia è di grande interesse soprattutto per la “minoranza”
che è stata coinvolta, quella dei Rom (15), i cui rapporti con il resto
della cittadinanza sono spesso conflittuali e impediscono la reciproca
conoscenza delle rispettive culture e tradizioni, e l’incontro su valori
comuni. “Cielo condiviso” è il terzo evento artistico-relazionale organizzato
dall’associazione romana presso il campo Rom di via di Salone. Precedentemente
era stato realizzato il progetto “Quadrato nomade”, con l’artista Lisa Wade,
presentato tra la fine di febbraio ed i primi di marzo 2012 al Palazzo delle
Esposizioni di Roma. Al secondo progetto artistico, realizzato nell’aprile del
2013, avevano collaborato Paolo W. Tamburella in collaborazione con l’artigiano
Rom Svenko Husovic.
Appendice: linee
guida per la creazione di un museo di quartiere
Dai casi studio appena esaminati, si evidenzia che i musei di
quartiere sono una delle migliori soluzioni per rivitalizzare culturalmente le
zone periferiche urbane. In generale, si tende a preservare - a volte
ottimamente, altre volte non nel migliore dei modi - i centri storici, i
piccoli borghi e i loro territori, ma non si riserva altrettanta attenzione ai
quartieri delle città, che pure hanno una loro storia e una personalità
distinta che merita di essere preservata. E in effetti gli esempi appena illustrati
sono tra i pochi realizzati nel nostro Paese. Perché, invece, non considerare i
quartieri urbani come una parte importante della nostra cultura, anziché
coglierne soltanto gli aspetti negativi, spesso legati al degrado e alla
criminalità? Ecco, dunque, alcuni suggerimenti per realizzare un museo di
quartiere (16):
- creare un gruppo di lavoro formato da alcuni abitanti del quartiere
che svolgeranno il ruolo di curatori del museo;
- individuare un locale o un edificio inutilizzato che ospiterà il
museo di quartiere;
- progettare una mostra permanente incentrata sulla storia del
quartiere, creata attraverso le narrazioni degli abitanti, le fotografie, gli
oggetti. In questa fase è importante pubblicizzare molto l’iniziativa, per
esempio distribuendo dei volantini con le indicazioni per contribuire con le
proprie storie o con la documentazione che gli abitanti desiderano donare al
museo;
- progettare mostre temporanee a rotazione che raccontino l’attualità
del quartiere;
- dare vita ad un “muro dei sogni”, cioè uno spazio, continuamente
aggiornato, in cui ogni abitante del quartiere possa esprimere un sogno, una
speranza;
- realizzare uno spazio riservato ai talenti degli abitanti del
quartiere: abilità manuali o intellettuali, letterarie, artigianali, musicali,
artistiche, ecc.;
- creare un punto vendita di “souvenir” del museo, oggetti creati
artigianalmente dai residenti del quartiere.
Un museo di questo tipo - che può anche essere definito “collettivo” -
rappresenta una risorsa importante per il quartiere che lo ha concepito, in
quanto, oltre a rimuovere quei sentimenti di insofferenza e di frustrazione che
spesso accompagnano la vita degli abitanti delle periferie più “difficili”,
possono creare anche sviluppo, solidarietà sociale ed una nuova qualità della
vita.
1 Relazione
presentata in occasione del Quarto Convegno Nazionale dell’Associazione
Nazionale Piccoli Musei (APM), Assisi, Palazzo dei Priori, Sala della
Conciliazione, 11-12 novembre 2013, organizzato dall’APM in collaborazione con
il Centro Internazionale di Studi sul Turismo (CST) di Assisi.
2 D. Fleming, The
democratic museum, Liverpool MA Conference, 6 October 2008
3 G. Pinna,
Fondamenti teorici per un museo di storia naturale, Milano 1997, p.11
4 J. Kinard,
Intermediari tra il museo e la comunità, in Il nuovo museo, a cura di C.
Ribaldi, Milano 2005, p. 66
8 David Fleming,
Museums and social responsibility, Icom News n°1, 2011, p. 9
9 Nell’articolo
intitolato “Museums for the people”, pubblicato su
http://www.spiked-online.com/site/article/10827/, la Appleton si chiedeva
perché l’inclusione sociale fosse diventata una delle finalità perseguite dai
musei britannici, in realtà non per una spinta venuta dall’interno del settore
museale, ma a seguito di una indicazione del governo. Il motivo era il
tentativo di far apparire i musei non più come “istituzioni inutili”, tenute in
vita da élite ideologiche, tendenti ad escludere le masse (secondo i pensatori
di sinistra), ma come organizzazioni molto più vicine alla realtà e attente ai
bisogni della società. V. C. Pisu, Musei liberi e non politicizzati: la realtà
britannica, in Museums Newspaper,
http://museumsnewspaper.blogspot.it/2013/05/musei-liberi-e-non-politicizzati-la.html
10 Il progetto,
denominato “Junction” ha avuto il suo momento culminante nella mostra
“Londinium”, in occasione dei Giochi olimpici del 2012. V. C. Pisu, Il museo
sta con i giovani, ArcheNews, Anno VIII, N° C, Agenzia Magna Graecia, p. 3
11 Iniziative
simili, rivolte alle realtà delle carceri, sono state realizzate anche nel
nostro Paese. Un caso studio è citato nel Rapporto di ricerca della Fondazione
Cariplo del 2009, Periferie, cultura e inclusione sociale, a cura di Simona
Bodo, Cristina Da Milano, Silvia Mascheroni, p. 55 e sgg.: si tratta di una
collaborazione tra la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo e la
Casa Circondariale di Bergamo per la realizzazione dei progetti “Zona Franca
11– Arte d’evasione” (2006-2007) e “Zona Franca – Gate” (2007-2008). In un
altro caso, la collaborazione si è svolta tra il Museo Nazionale del Cinema, il
CGM - Centro per la Giustizia Minorile del Piemonte e della Valle d’Aosta e la
Città di Torino, ed ha portato alla creazione del progetto “Mediante”
(2006-2007).
12 Le Stazioni
dell’Arte di Napoli, per esempio, sono state realizzate lungo il percorso delle
Linee 1 e 6 della Metropolitana. Il progetto, promosso dall’amministrazione
comunale con il coordinamento artistico di Achille Bonito Oliva, comprende
circa duecento opere scelte tra cento prestigiosi autori contemporanei, e
costituisce, pertanto, uno degli esempi più importanti di museo decentrato e
distribuito sull’intera area urbana. V. il sito ufficiale della Metropolitana
di Napoli:
13 Periferie,
cultura e inclusione sociale, n.1, 2009, cit., p. 7
14 Ringrazio, per
le utili informazioni fornitemi, il Dott. Valerio Esposti, attualmente
Portavoce dell’Amministrazione Comunale di San Giuliano Milanese, che all’epoca
del progetto “Foresta nascosta” faceva parte dell’Ufficio Cultura dello stesso
Comune.
15 Il nome Rom è
stato assunto in occasione del 1° Congresso Mondiale dei Rom, nel 1971, a
Orpington - Chelsfield, nei pressi di Londra. Il significato di questo nome è
“uomo” o “popolo degli uomini”, e include tutti i gruppi etnici presenti nel
mondo (Sinti, Manouches, Kalderash, Lovara, Romanìchéls, Vlax, Domari, Nawar,
ecc.). Il giorno in cui si è svolto il congresso, l'8 aprile, è divenuto la
giornata internazionale dei Rom. V. http://idearom.jimdo.com/cultura/, sito
dell’associazione Idea Rom Onlus di Torino, formata da donne Rom.