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Museo Nacional del Prado - Vídeo institucional


Il Museo del Prado è uno dei musei più importanti del mondo. Vi sono esposte opere dei maggiori artisti, fra cui Goya, El Greco, Diego Velàsquez, Ribera, Murillo, Rembrandt, Rubens, Botticelli, Caravaggio e molti altri.
Il Museo fu fatto costruire da Carlo III ed è opera dell'architetto Juan de Villanueva. Divenne sede di collezioni d'arte a partire dal 1816, prendendo a modello il Louvre. 

L’evoluzione del ruolo sociale del museo: dai musei di quartiere ai musei socialmente impegnati

Immagine tratta da http://cleveland.wikia.com/wiki/Latino_Heritage_Museum

Questa disamina che illustra alcuni casi esteri e due casi italiani di progetti museali o di tipo museale con finalità sociali, è stata da me presentata al quarto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei ad Assisi, nel 2013. A questo link è possibile scaricare l'articolo in PDF.

All’interno dell’apparato teorico sviluppato dall’APM è considerato essenziale che i musei instaurino un buon rapporto con la cittadinanza. Infatti, se i residenti ignorano la propria cultura o se a una parte di essi è negato il diritto di usufruirne - perché, per esempio, vivono dei disagi profondi, delle situazioni di conflitto, di divisione o di esclusione sociale - il museo, che dovrebbe riflettere l’immagine di quella comunità, ma che vive distante dai suoi problemi, è, nella sostanza, un luogo che non è in grado di incidere profondamente nella vita della società. «Senza valore sociale il museo è nulla» - affermava il museologo americano Stephen Weil, teorico del museo inteso come “impresa sociale”. Per Weil «i musei devono esistere per qualcuno, non per qualcosa»; ovvero, anche quei musei che producono risultati significativi dal punto di vista scientifico, se agiscono soltanto nell’ambito di una ristretta comunità accademica o sempre per le stesse fasce di pubblico, in pratica svolgono un lavoro incompleto, poiché il museo che intende avere un ruolo più democratico nell’ambito della società, «attira una folla eterogenea, ha una programmazione varia e opera su diversi livelli, è socialmente responsabile, coinvolge il pubblico, lo fa partecipare, si basa sul dialogo, non ha paura del dibattito, della polemica, delle opinioni, ma anzi le sollecita. Un museo democratico può lottare per la giustizia e i diritti umani (2)» Non solo, ma è lecito affermare che la “personalità” del museo si manifesta proprio nella sua capacità di rappresentare la comunità cui appartiene. L’applicazione di modelli puramente accademici, infatti, rende i musei tutti uguali e ripetitivi (3), ma un museo che offre alla cittadinanza una ragione di identificazione e di aggregazione sociale, assume una connotazione originale e non riproducibile dagli altri musei, in quanto esso è l’espressione di quella sola e unica comunità.

I musei di quartiere e i musei a forte vocazione sociale


In questa sede, sono stati esaminati sia i “musei di quartiere” puri, cioè quelle istituzioni che nascono con il preciso scopo di mettersi al servizio della collettività (anche come estensione di musei di tipo tradizionale), sia quei musei che hanno scoperto, solo nel corso del tempo, una “vocazione sociale”, includendo nella propria attività, specifici progetti studiati per le fasce sociali a rischio di esclusione. Questi musei stanno diventando sempre più numerosi e, in alcuni casi, per esempio nel Regno Unito, sono stati decisamente incoraggiati dalle istituzioni politiche ad intraprendere attività culturali rivolte ai problemi sociali, sia per gli evidenti benefici prodotti dalla loro azione in seno alla collettività sia per le ricadute positive che la coesione sociale determina anche per il sistema istituzionale e politico locale e nazionale.

Dal punto di vista “geografico”, sono stati presi in considerazione gli Stati Uniti, dove è nato il primo “museo di quartiere”, il Regno Unito, il Paese che più di altri ha messo in atto importanti politiche sociali mediante i musei, il Brasile, dove si è recentemente affermata una nuova visione del museo che si sviluppa “dal basso”, cioè per impulso della stessa popolazione; infine la Francia cui è associato un esempio straordinario che riguarda uno dei più grandi musei del mondo, il Louvre, il cui progetto "Au-delà des murs", rappresenta un’ottima sperimentazione di attività di outreach di una istituzione museale.

Non è stata operata una distinzione tra piccoli e grandi musei ma si è focalizzata l’attenzione unicamente sulla creatività e sull’efficacia dei progetti di inclusione sociale a prescindere, quindi, dalla grandezza o dalla rilevanza dell’istituzione promotrice.   

- I musei di quartiere


Il primo museo di quartiere nasce negli Stati Uniti, negli anni Sessanta, grazie a John Kinard, il quale progettò e diresse, dal 1967 al 1989, l’Anacostia Neighborhood Museum. Questo museo fu allestito in un cinema abbandonato, in un quartiere difficile e pieno di contraddizioni, Anacostia, il ghetto nero situato nella parte sud-occidentale di Washington.

Nella fase di progettazione del futuro museo di quartiere, fu necessario coinvolgere da subito tutti i rappresentanti della comunità: associazioni di vario tipo, da quelle civiche a quelle religiose, comitati di giovani, di inquilini, della polizia, ecc. Per molti mesi si svolsero incontri tra questi e lo staff del museo, fino al giorno dell’inaugurazione, avvenuta nel settembre del 1967. Questa è la data che segna un cambiamento epocale nel modo di concepire un museo: non più soltanto una istituzione finalizzata a migliorare la conoscenza, a promuove la ricerca e a conservare la memoria, ma finalmente anche una organismo necessario per il presente e per il futuro delle comunità. Un “orecchio in ascolto”, così Kinard definì l’Anacostia Neighborhood Museum. Egli era convinto che servissero «musei concepiti per assumersi dei rischi, per creare un ponte tra ricchi e poveri, tra individui istruiti e persone illetterate, tra culture privilegiate e altre svantaggiate, tra grande arte e arte popolare (4)». In questo nuovo modello di museo, ai curatori è chiesto di fungere da mediatori e di interpretare i problemi della società moderna alla luce degli insegnamenti che ci giungono dal passato. Kinard cerca anche di capire le perplessità che possono sorgere nei professionisti museali che, probabilmente, giudicheranno insensato che si chieda loro di occuparsi di problemi che esulano dalle loro responsabilità e dalle loro specifiche competenze (5). La soluzione, allora, è quella di creare un organismo che affianchi il museo e che assuma la funzione di intermediario: il museo di quartiere. Questo è non solo possibile, ma auspicabile, in quanto «dobbiamo aspettarci molto di più dai nostri musei (6)», afferma Kinard. Il primo museo di quartiere nasce, dunque, come estensione della Smithsonian Institution. Quando la Smithsonian decise di fare questo passo, sapeva che si stava per intraprendere un percorso fino ad allora inesplorato e, quindi, con molte incognite. Si trattava di un museo che non si poteva permettere di “appendere quadri ai muri” - secondo Kinard - né di esporre oggetti storici, a meno che sia i primi che i secondi non avessero un legame con la realtà della gente del quartiere, ovvero fossero oggetti con cui le persone potessero identificarsi. Il compito del museo di quartiere dell’Anacostia Museum è stato quello di parlare con la gente, analizzare i problemi insieme a loro, raccogliere dati e, infine, creare una esposizione o un altro tipo di iniziativa che rappresentasse davvero la gente. «Il museo deve essere un’istituzione viva» - continua l’artefice del primo museo di quartiere - «deve offrire alla gente del posto una sede in cui si accenda la voglia di incontrarsi e parlare; deve prestare attenzione ai problemi urgenti; deve incoraggiare le persone a dare il meglio di sé; deve promuovere attività che hanno a che fare  con le arti visive e dello spettacolo; deve sollecitare interessi diversi, che vanno dalla lotta contro l’alcolismo all’archeologia locale, dall’ornitologia alla pianificazione urbana (7)».

L’Anacostia Museum è sopravvissuto nel tempo e ha creato, dal 1967 ad oggi, una quantità incredibile di mostre, conferenze, attività didattiche, iniziative varie, crescendo e trasformandosi insieme al quartiere che, nel frattempo, ha cercato di migliorare la sua condizione iniziale e ora vede il moltiplicarsi di gallerie, sale da concerti e luoghi di aggregazione. Attualmente il Museo conta su uno staff di 19 professionisti, 25 volontari e 5 stagisti. Tra i suoi obiettivi, vi è anche quello di condividere la propria esperienza museologica, attraverso consulenze, presentazioni e pubblicazioni.

Un esempio più recente di museo che nasce in funzione e con l’apporto diretto della propria comunità, è il Museu de Favela (MUF), fondato, nel 2008, dagli abitanti delle favelas di Peacock, Pavãozinho e Cantagalo, a Rio de Janeiro. Sono solo alcune delle 700 favelas della città brasiliana, le quali non sono identificabili solo con fenomeni di criminalità e narcotraffico ma rappresentano anche un terreno culturale molto fertile. Negli ultimi anni si stanno attuando le cosiddette politiche di “pacificazione”, non sempre, però, così positive per i residenti, soprattutto per la speculazione edilizia che sta accompagnando la preparazione dei prossimi grandi eventi sportivi, Mondiali di calcio e Olimpiadi, che in alcuni casi conducono all’espropriazione di intere zone per la costruzione di impianti sportivi, e al conseguente allontanamento dei favelados. Il Museu de Favela, dunque, rappresenta una grande opportunità di riscatto e di visibilità per gli abitanti di queste periferie. Esso è diventato anche un mezzo di sviluppo economico locale per i residenti, grazie agli introiti derivanti dalle visite e dalla vendita di prodotti dell’artigianato locale. Il patrimonio culturale di questo museo sono, in pratica, i circa ventimila abitanti di queste zone marginali della città. L’antropologo brasiliano Mario Chagas ritiene che «il più grande patrimonio del museo sia il suo pubblico», ma in questo caso, pubblico e curatori formano un’unica entità sociale, formata da artisti, musicisti, artigiani, fotografi, giornalisti, professionisti, semplici residenti senza specifiche specializzazioni, ciascuno portatore di nuove risorse per la sopravvivenza del museo. L’impegno assunto dai fondatori è lavorare per il miglioramento della memoria culturale collettiva, il rafforzamento del carattere della comunità, la creazione di una visione comune del futuro che conduca ad una trasformazione delle condizioni di vita dei quartieri poveri.

- I musei a vocazione sociale

Se i musei sono, per loro natura, istituzioni socialmente responsabili, in quanto custodiscono il patrimonio comune e lo rendono leggibile, è solo in tempi recenti che si è rafforzata la convinzione che la responsabilità sociale del museo debba superare i confini convenzionali e trovare nuove forme di applicazione. Tale aspirazione è il frutto di una sempre più intensa ricerca sul pubblico. Per svolgere al meglio il proprio lavoro, i curatori hanno avuto bisogno di studiare ciò che interessa e che più motiva i visitatori ad affezionarsi a un museo. Tali indagini hanno anche tentato di identificare i potenziali visitatori, cioè coloro che non penserebbero mai, per vari motivi, di entrare in un museo, studiando le strategie più adeguate per attrarli, sulla base del principio che ogni individuo deve beneficiare dei musei, non solo alcuni privilegiati. Così facendo, i musei hanno imparato ad essere più democratici, meno elitari, più aperti (8). Da istituzioni concentrate quasi esclusivamente sulla cura delle collezioni, quali erano, si sono trasformati in istituzioni per le quali non solo il pubblico inteso in senso tradizionale, ma tutta la collettività - visitatori e non visitatori - assume un’importanza centrale. Questo passaggio produce un modello di museo inteso come “impresa sociale”, ovvero - per usare ancora le parole di Stephen Weil - un museo che trae «la sua   legittimità da quello che fa, piuttosto che da quello che è». In qualche modo l’originario ruolo sociale del museo, cioè quello di custodire la storia e di rendere consapevole la società del suo passato, non è mutato, ma ha assunto un carattere più funzionale. Si possono citare vari esempi di musei “a vocazione sociale”. Tre di questi sono esemplificativi delle varie forme in cui tale ruolo può essere svolto: si tratta di due musei inglesi, il Museum of London e l’Holbourne Museum di Bath, e del più importante museo di Francia, il Louvre.

- Museum of London, Holbourn Museum, Louvre


Se negli Stati Uniti il primo museo di quartiere nasce, come appena descritto, per rispondere ad una precisa esigenza di integrazione dei neri americani, vittime di una forte discriminazione (insieme ai nativi americani e ai latino-americani) che li escludeva dalla vita sociale e culturale del Paese e che li sottorappresentava, di conseguenza, anche nei musei, nel Regno Unito, invece, la “vocazione sociale” dei musei si afferma a seguito della forte crisi che ne colpisce l’identità nel corso degli anni Settanta, al punto che Margaret Thatcher li definì “istituzioni inutili” (9) ed evidentemente costose per la società. Era necessario, dunque, trovare una giustificazione alla propria esistenza: non più solo contenitori di oggetti da conservare, studiare ed esporre, ma realtà più vicine alla gente e in grado di interpretarne i bisogni e le aspirazioni. Per questa ragione i musei britannici - che stavano vivendo il loro momento più buio, in un periodo storico caratterizzato da grandi contestazioni e dalla messa in discussione di molte certezze - si sono trovati nella condizione migliore per accogliere di buon grado l’invito del governo ad estendere il proprio campo d’interesse alle problematiche sociali. Tali pratiche sono proseguite nel tempo e tutt’ora i musei del Regno Unito sono all’avanguardia sia nella messa in pratica di progetti di inclusione sociale sia nello teorizzazione di nuovi modelli di gestione museale, più aperti alla partecipazione della comunità.

- Museum of London - lavorare con i giovani


Il Museum of London è da anni impegnato in progetti di inclusione sociale rivolti ai giovani, agli adulti, soprattutto ai disoccupati di lunga durata, e ad altre categorie sociali deboli. In questi progetti, i soggetti coinvolti non svolgono attività didattiche o ricreative ma collaborano fattivamente al miglioramento dei servizi offerti dal museo, per esempio producendo podcasts audio e video, di ausilio ai visitatori del museo nella comprensione dei percorsi espositivi inerenti le fasi più antiche della storia di Londra.

Nel caso dei giovani, è stato creato un team di ragazzi londinesi, tra i 16 e i 21 anni, che hanno svolto la funzione di “consulenti” del museo per la creazione di progetti, mostre ed eventi per i loro coetanei (10). Il progetto, denominato “Junction”, è iniziato nel 2010 e i ragazzi hanno preso parte a tutte le fasi della sua creazione, compresa la cura delle esposizioni e l’organizzazione degli eventi pubblici: una partecipazione, dunque, a 360°. In questo modo i giovani hanno vissuto l’opportunità unica di impegnarsi per il funzionamento del museo e soprattutto di esprimere la loro opinione e la loro personale visione di giovani londinesi, influendo sulle decisioni dei curatori e dei responsabili del Museo.
Le attività con i giovani, invitati dal Museum of London come volontari, sono costantemente riproposte e la partecipazione è aperta a chiunque ne faccia richiesta.

- Holbourn Museum - restituire un posto nella società ai senzatetto


L’Holbourn Museum è un museo d’arte situato a Bath, nel sud dell’Inghilterra, rinomata cittadina turistica per la quale i senzatetto erano un vero problema sociale. Ora, invece, il museo svolge da sei anni un programma di attività con i senzatetto, nell’ambito del progetto “Homeless artists” che prevede un incontro settimanale con persone che vivono un disagio sociale, alle quali, con la guida di artisti professionisti, è data la possibilità di esprimere la propria vena artistica e di conoscere in modo più approfondito l’arte pittorica e le sue tecniche. In tal modo essi non sono più “persone invisibili” ma riescono a mostrare al resto della comunità che esistono, mettendo in luce i problemi di cui sono vittime. I lavori artistici vengono esposti nel museo e in varie altre manifestazioni organizzate nella città di Bath. Ma non solo, grazie all’idea di un ex studente della locale università, Luke Tregidgo, i senzatetto, adeguatamente formati, sono impiegati come guide turistiche. Si è così cercato di risolvere un grave problema sociale, sfruttando da una parte il valore dell’arte e l’efficacia dell’espressione artistica individuale, dall’altra la maggiore risorsa della cittadina, il turismo.

- Il Louvre fuori dal Louvre


L’ultimo esempio è quello del Louvre. Anche questo museo, che potrebbe vivere solo del suo imponente patrimonio storico e artistico, ha cercato l’impegno sociale e lo ha concretizzato attraverso il coinvolgimento dei detenuti del carcere parigino di Poissy (11). In questo caso, l’attenzione si è concentrata non sulle fasce sociali più deboli della comunità di riferimento, ma su una realtà che solitamente è percepita come separata da essa, senza alcun tipo di legame con il resto della cittadinanza se non quello mediato dai contatti con le associazioni filantropiche della città. Il rapporto del Louvre con le carceri risale già al 2007: fino ad oggi sono state organizzate più di 120 attività cui hanno preso parte professionisti del settore culturale e gruppi di detenuti. Nel 2011 è stato realizzato il progetto "Au-delà des murs", che ha rafforzato l'impegno del Louvre per le attività sociali e culturali nelle carceri. L’iniziativa è consistita nella riproduzione di ventisei opere del museo parigino da parte di un gruppo di detenuti, scelti non per le loro capacità artistiche ma per la forte motivazione interiore che hanno dimostrato. Ogni detenuto che ha preso parte al progetto ha scelto autonomamente il proprio modo di contribuire alla realizzazione della mostra, dedicandosi alla pittura, alla progettazione grafica o ai testi. La mostra ha avuto la supervisione dello scrittore Luc Lang, membro della Maison des écrivains et de la littérature, e dell'architetto-scenografo Philippe Maffre (che aveva già collaborato con il Louvre e che in questa occasione ha realizzato lo storyboard della mostra), i quali hanno lavorato al progetto a stretto contatto con il gruppo di detenuti, con il personale del carcere e con quello del Louvre. Per circa sei mesi il cortile dell'istituto penitenziario ha ospitato l'esposizione delle riproduzioni realizzate dai detenuti mentre il Louvre esponeva, nello stesso tempo, una "mostra-specchio" con le copie delle stesse opere. Il cortile è stato scelto come spazio espositivo non perché non si disponesse di altre soluzioni, ma perché, in questo modo, tutti i detenuti, ogni giorno, avrebbero potuto osservare quelle opere. L'iniziativa ha suscitato grande emozione non solo nell'ambito della comunità carceraria e dello staff di curatori e collaboratori del Louvre, ma anche dell'intera cittadinanza parigina. Per ora il Louvre resta l'unico museo ad aver trasformato i detenuti non solo in artisti ma anche in curatori.

I musei di quartiere in Italia: due casi studio 


Le esperienze europee ed extra-europee finora descritte dimostrano che la sostenibilità, intesa in senso sociale, cioè la creazione di relazioni con le proprie comunità, è una pratica che richiede tempo per svilupparsi e la fiducia non può essere acquisita nello spazio di poche ore. E’ molto facile che i risultati raggiunti svaniscano se i progetti non fanno parte dell’impostazione mentale di un'organizzazione museale e, quindi, se non trovano terreno fertile, dedizione costante e impegno da parte dei responsabili dei musei.

In Italia, in generale, l’attenzione per il sociale si sviluppa soprattutto nell’ambito dell’arte contemporanea, finora il settore più avanzato nella ricerca di proposte innovative che utilizzano l’arte per la riqualificazione degli spazi urbani (12). Si tratta, però, in molti casi, non di istituzioni culturali radicate nel territorio che svolgono politiche culturali inclusive in modo continuativo, ovvero come prassi ordinaria integrata nella programmazione culturale regolare, ma, più spesso, di un fatto occasionale, di un “evento”, come viene rilevato anche nel Rapporto di ricerca della Fondazione Cariplo del 2009, Periferie, cultura e inclusione sociale (13), oppure di operazioni di ordine forse più “estetico” che effettivamente funzionali alla soluzione dei problemi sociali.

Gli esempi italiani qui esaminati riguardano due casi studio di grande interesse, entrambi unici per le modalità di svolgimento e per gli obiettivi che si sono posti. Il primo riguarda la sperimentazione di un “museo di quartiere temporaneo”, avvenuta a San Giuliano Milanese, in provincia di Milano; il secondo si riferisce alle iniziative dell’associazione culturale 100% Periferia, con sede a Roma ma operante anche in altre città, sia in Italia che all’estero, tese alla riqualificazione degli spazi urbani periferici attraverso l’arte contemporanea ed altre forme di espressione artistica, e alla creazione di progetti partecipativi che intrecciano il linguaggio degli artisti con quello degli abitanti dei quartieri.

1) Museo temporaneo di quartiere di San Giuliano Milanese


La sperimentazione fu effettuata tra l’aprile e il luglio del 2009, nell’ambito del progetto “Foresta nascosta”, ideato dall’architetto Matteo Balduzzi, dal sociologo e sinologo Daniele Cologna e dal ricercatore esperto di welfare Stefano Laffi, promosso dalla Provincia di Milano e dal Comune di San Giuliano Milanese (14).

In quella occasione, all’interno di due container fu allestita un’esposizione di “storie” e di fotografie fornite dagli stessi abitanti dei quartieri di San Giuliano Milanese, città caratterizzata da varie ondate di immigrazione che hanno interessato la zona nel corso degli anni. Ciascuno dei cinque quartieri della città, coinvolti nel progetto, ha rappresentato, attraverso i racconti dei suoi residenti, un cinquantennio di sviluppo della città: dall’inurbamento dei contadini e dalla prima immigrazione dal sud negli anni ’50, passando per la più massiccia immigrazione dal sud degli inizi degli anni ’60, in coincidenza con il boom urbanistico, fino alla creazione delle zone residenziali negli anni ’70 e degli agglomerati di edilizia popolare
negli anni ’80. Infine, l’ultima fase, quella dei nuovi immigrati stranieri e dei grandi complessi residenziali a schiera degli anni Novanta e Duemila, destinati alle classi sociali medio-alte.

La gestione del progetto fu affidata ai ragazzi di San Giuliano, di età compresa fra i 16 e i 24 anni, i quali svolsero la funzione di “raccoglitori” delle storie degli abitanti dei vari quartieri. I giovani ricevettero, per l’occasione, una specifica formazione ed anche un piccolo rimborso economico. I compiti svolti consistettero nell’apertura dei container espositivi, nell’incontro con gli abitanti e quindi nella raccolta di interviste e fotografie, nella trascrizione e nell’archiviazione del materiale ottenuto.

Anche i container ebbero, ciascuno, una loro specifica funzione: il container rosa, denominato Bar delle storie, fu il luogo d’incontro e di discussione degli abitanti con i ragazzi, cioè il luogo in cui le storie furono raccontate e registrate. Nel retro venne predisposto un piccolo ufficio attrezzato di apparecchiature per la registrazione, l’archiviazione e la trascrizione dei materiali, e infine per la digitalizzazione delle fotografie.
Il secondo container, invece, costituì lo spazio espositivo vero e proprio, il cui colore venne modificato a seconda del quartiere in cui fu posizionato. Vi furono esposte, a rotazione, le storie degli abitanti e le loro fotografie di famiglia, “una sorta di installazione collettiva in progress”.
Il progetto è descritto nel sito ufficiale http://www.forestanascosta.net/. All’esposizione seguì anche la pubblicazione di un catalogo, un “inserto speciale” dal titolo “Foresta nascosta”, venduto in edicola con i due giornali partner del progetto, Il cittadino e La Gazzetta del Sud Milano, stampato in oltre 20.000 copie.

2) 100% Periferia


L’organizzazione 100% Periferia nasce con l’intento di portare l’arte in spazi atipici, al di fuori delle consuete superfici museali, grazie ad una rete di collaborazioni tra artisti, associazioni, scuole, biblioteche, musei ed altre istituzioni. Le proposte culturali sono fondate principalmente sulla condivisione e, dove possibile, sulla partecipazione attiva delle persone del luogo, in particolar modo dei ragazzi, al processo organizzativo e creativo. Il “nomadismo culturale” o l’”Arte in movimento” che caratterizzano l’azione di 100% Periferia si esprime, per esempio, nella costituzione di gallerie mobili.
Tra le varie iniziative promosse in questi anni dall’associazione, tutte di grande interesse, è stata scelta, come caso studio, la manifestazione denominata “Cielo condiviso”, realizzata quest’anno, dal 20 al 25 ottobre, in collaborazione con il MAAM, Museo dell'Altro e dell'Altrove di Metropoliz_città meticcia (Roma, via Prenestina), La Bottega dei Mondi Impossibili, Cooperativa Ermes, e con il patrocinio di Roma Capitale.

Cielo condiviso” è una rassegna d’arte partecipata allestita nel campo Rom di Via Salone, a Roma. Un gruppo di artisti di ogni genere e di studiosi (poeti, musicisti, fotografi, teatranti, curatori d’arte e astronomi) hanno coinvolto i residenti del campo per vivere attività comuni progettate intorno all’idea-guida del cielo e della sua orizzontalità, espressione di relazioni più eque tra le persone, in cui non contano più i ruoli individuali.
Un collegamento creativo con le stelle ha permesso al cielo di avvicinarsi al campo, posandosi su uno schermo bianco di proiezione, in un incontro condiviso.
La partecipazione dei Rom è avvenuta per esempio attraverso il racconto di alcune donne anziane, le quali hanno collaborato anche alla creazione di una particolare mappa celeste realizzata con le stoffe donate dalle stesse donne Rom e con le fotografie del cielo realizzate dagli abitanti del campo. Altri laboratori sono stati apprestati per i bambini Rom, dedicati, per esempio, allo studio dei fenomeni celesti o alla realizzazione di oggetti narranti. Un astrofisico e un astronomo hanno invitato i partecipanti a conoscere il cielo, attivando workshop volti a far interagire le persone con le stelle e a conoscere i principi dell’astronomia spiegati in modo semplice e immediato, aiutando ad intraprendere in modo autonomo l’osservazione del cielo. Il progetto di 100% Periferia è di grande interesse soprattutto per la “minoranza” che è stata coinvolta, quella dei Rom (15), i cui rapporti con il resto della cittadinanza sono spesso conflittuali e impediscono la reciproca conoscenza delle rispettive culture e tradizioni, e l’incontro su valori comuni. “Cielo condiviso” è il terzo evento artistico-relazionale organizzato dall’associazione romana presso il campo Rom di via di Salone. Precedentemente era stato realizzato il progetto “Quadrato nomade”, con l’artista Lisa Wade, presentato tra la fine di febbraio ed i primi di marzo 2012 al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Al secondo progetto artistico, realizzato nell’aprile del 2013, avevano collaborato Paolo W. Tamburella in collaborazione con l’artigiano Rom Svenko Husovic.

Appendice: linee guida per la creazione di un museo di quartiere


Dai casi studio appena esaminati, si evidenzia che i musei di quartiere sono una delle migliori soluzioni per rivitalizzare culturalmente le zone periferiche urbane. In generale, si tende a preservare - a volte ottimamente, altre volte non nel migliore dei modi - i centri storici, i piccoli borghi e i loro territori, ma non si riserva altrettanta attenzione ai quartieri delle città, che pure hanno una loro storia e una personalità distinta che merita di essere preservata. E in effetti gli esempi appena illustrati sono tra i pochi realizzati nel nostro Paese. Perché, invece, non considerare i quartieri urbani come una parte importante della nostra cultura, anziché coglierne soltanto gli aspetti negativi, spesso legati al degrado e alla criminalità? Ecco, dunque, alcuni suggerimenti per realizzare un museo di quartiere (16):

- creare un gruppo di lavoro formato da alcuni abitanti del quartiere che svolgeranno il ruolo di curatori del museo;

- individuare un locale o un edificio inutilizzato che ospiterà il museo di quartiere;

- progettare una mostra permanente incentrata sulla storia del quartiere, creata attraverso le narrazioni degli abitanti, le fotografie, gli oggetti. In questa fase è importante pubblicizzare molto l’iniziativa, per esempio distribuendo dei volantini con le indicazioni per contribuire con le proprie storie o con la documentazione che gli abitanti desiderano donare al museo;

- progettare mostre temporanee a rotazione che raccontino l’attualità del quartiere;

- dare vita ad un “muro dei sogni”, cioè uno spazio, continuamente aggiornato, in cui ogni abitante del quartiere possa esprimere un sogno, una speranza;

- realizzare uno spazio riservato ai talenti degli abitanti del quartiere: abilità manuali o intellettuali, letterarie, artigianali, musicali, artistiche, ecc.;

- creare un punto vendita di “souvenir” del museo, oggetti creati artigianalmente dai residenti del quartiere.

Un museo di questo tipo - che può anche essere definito “collettivo” - rappresenta una risorsa importante per il quartiere che lo ha concepito, in quanto, oltre a rimuovere quei sentimenti di insofferenza e di frustrazione che spesso accompagnano la vita degli abitanti delle periferie più “difficili”, possono creare anche sviluppo, solidarietà sociale ed una nuova qualità della vita.


NOTE

1 Relazione presentata in occasione del Quarto Convegno Nazionale dell’Associazione Nazionale Piccoli Musei (APM), Assisi, Palazzo dei Priori, Sala della Conciliazione, 11-12 novembre 2013, organizzato dall’APM in collaborazione con il Centro Internazionale di Studi sul Turismo (CST) di Assisi.

2 D. Fleming, The democratic museum, Liverpool MA Conference, 6 October 2008

3 G. Pinna, Fondamenti teorici per un museo di storia naturale, Milano 1997, p.11

4 J. Kinard, Intermediari tra il museo e la comunità, in Il nuovo museo, a cura di C. Ribaldi, Milano 2005, p. 66

5 Ivi, p. 67

6 Ivi, p. 66

7 Ivi, p. 72

8 David Fleming, Museums and social responsibility, Icom News n°1, 2011, p. 9

9 Nell’articolo intitolato “Museums for the people”, pubblicato su http://www.spiked-online.com/site/article/10827/, la Appleton si chiedeva perché l’inclusione sociale fosse diventata una delle finalità perseguite dai musei britannici, in realtà non per una spinta venuta dall’interno del settore museale, ma a seguito di una indicazione del governo. Il motivo era il tentativo di far apparire i musei non più come “istituzioni inutili”, tenute in vita da élite ideologiche, tendenti ad escludere le masse (secondo i pensatori di sinistra), ma come organizzazioni molto più vicine alla realtà e attente ai bisogni della società. V. C. Pisu, Musei liberi e non politicizzati: la realtà britannica, in Museums Newspaper, http://museumsnewspaper.blogspot.it/2013/05/musei-liberi-e-non-politicizzati-la.html

10 Il progetto, denominato “Junction” ha avuto il suo momento culminante nella mostra “Londinium”, in occasione dei Giochi olimpici del 2012. V. C. Pisu, Il museo sta con i giovani, ArcheNews, Anno VIII, N° C, Agenzia Magna Graecia, p. 3

11 Iniziative simili, rivolte alle realtà delle carceri, sono state realizzate anche nel nostro Paese. Un caso studio è citato nel Rapporto di ricerca della Fondazione Cariplo del 2009, Periferie, cultura e inclusione sociale, a cura di Simona Bodo, Cristina Da Milano, Silvia Mascheroni, p. 55 e sgg.: si tratta di una collaborazione tra la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo e la Casa Circondariale di Bergamo per la realizzazione dei progetti “Zona Franca 11– Arte d’evasione” (2006-2007) e “Zona Franca – Gate” (2007-2008). In un altro caso, la collaborazione si è svolta tra il Museo Nazionale del Cinema, il CGM - Centro per la Giustizia Minorile del Piemonte e della Valle d’Aosta e la Città di Torino, ed ha portato alla creazione del progetto “Mediante” (2006-2007).

12 Le Stazioni dell’Arte di Napoli, per esempio, sono state realizzate lungo il percorso delle Linee 1 e 6 della Metropolitana. Il progetto, promosso dall’amministrazione comunale con il coordinamento artistico di Achille Bonito Oliva, comprende circa duecento opere scelte tra cento prestigiosi autori contemporanei, e costituisce, pertanto, uno degli esempi più importanti di museo decentrato e distribuito sull’intera area urbana. V. il sito ufficiale della Metropolitana di Napoli:

13 Periferie, cultura e inclusione sociale, n.1, 2009, cit., p. 7

14 Ringrazio, per le utili informazioni fornitemi, il Dott. Valerio Esposti, attualmente Portavoce dell’Amministrazione Comunale di San Giuliano Milanese, che all’epoca del progetto “Foresta nascosta” faceva parte dell’Ufficio Cultura dello stesso Comune.

15 Il nome Rom è stato assunto in occasione del 1° Congresso Mondiale dei Rom, nel 1971, a Orpington - Chelsfield, nei pressi di Londra. Il significato di questo nome è “uomo” o “popolo degli uomini”, e include tutti i gruppi etnici presenti nel mondo (Sinti, Manouches, Kalderash, Lovara, Romanìchéls, Vlax, Domari, Nawar, ecc.). Il giorno in cui si è svolto il congresso, l'8 aprile, è divenuto la giornata internazionale dei Rom. V. http://idearom.jimdo.com/cultura/, sito dell’associazione Idea Rom Onlus di Torino, formata da donne Rom.

16 I suggerimenti sono stati tratti e rielaborati da “The Neighborhood Museum Collective”, (http://www.openideo.com/open/vibrant-cities/concepting/the-neighborhood-museum-collective).

Il Centre George Pompidou visto da Roberto Rossellini


Scrive Luca Caminati in "Roberto Rossellini documentarista. Una cultura della realtà" (2012):

"Possiamo invece affermare che, a conclusione della sua attività, si riaccende un lampo propriamente documentaristico nelle due sue ultimissime opere: Concerto per Michelangelo (1977) e Le Centre Georges Pompidou (1977). Entrambi i film sono riflessioni su due "macchine artistiche", luoghi istituzionali di esibizione dell'arte. Il primo, commissionato dalla RAI e dal Vaticano per il Sabato Santo pasquale, è interessante, oltre che per l'autoritratto forse involontario che diventa per lui Michelangelo, come esperimento: l'unico in cui Rossellini intrecci cinema e video, o meglio ripresa elettronica in diretta; il secondo è, invece, un tentativo esemplare in una direzione nuova: quella della "constatazione" documentaristica. Avvolta dai radi suoni dei visitatori, in assenza di voce over, la macchina da presa si aggira fra il "contenitore" - l'architettura ultramoderna di Renzo Piano e altri - e il "contenuto" - le opere d'arte esposte - con una curiosità descrittiva che non nasconde un velato scetticismo di fondo (siamo ben lontani da qualsiasi "celebrazione"). Da una parte Rossellini riflette sul rapporto classico fra arte e Chiesa, dall'altra su quello moderno fra arte e istituzione laica. In entrambi i casi identifica l'arte come processo di produzione, al di là o prima dei suoi risultati espressivi.
Come non vedere in queste opere involontariamente una riflessione di Rossellini sulla propria arte? Intreccio di politica, di economia, di tecnica, di documentario e di finzione, nei cui limiti, ma influenzato anche dagli stimoli di tali limiti, egli si esprime".

Il riciclo che ispira l'arte

La mostra di David Booker, "Il gusto del recupero", presso il Museo Virgiliano, nel mantovano, dal 3 al 27 settembre



Il Museo Virgiliano è un piccolo museo inaugurato nel 1981, in occasione del bimillenario della morte del Poeta dell'Eneide, a Borgo Virgilio, provincia di Mantova, nella frazione di Pietole. Qui, dal 3 al 27 settembre, sarà possibile visitare la mostra "Il gusto del recupero", una selezione di opere su carta disegnate a matita da David Booker, artista australiano noto soprattutto per le sue opere monumentali in marmo.
La mostra avrà come protagonisti alcuni soggetti molto particolari: scatole vuote, imballaggi usati, pezzi di motore...ogni genere di rifiuti trasformati in opere d'arte.

La mostra è promossa dall'Assessorato alla cultura del Comune di Borgo Virgilio e sarà aperta grazie ai volontari della Pro Loco tutti i fine settimana, dal 3 al 27 di settembre, con orario dalle 16 alle 19. In particolare, il 3-4 e il 9-13 settembre sarà visitabile in concomitanza con il Festival Internazionale della Letteratura di Mantova. L'organizzazione è curata da Valeria Giovagnoli.

Un esempio interessante di come anche i piccoli musei possano produrre eventi di alto livello culturale in grado di coinvolgere intensamente la comunità. Lo sforzo compiuto dal Comune di Borgo Virgilio dimostra anche quanto sia importante che le Istituzioni locali abbiano la consapevolezza delle potenzialità offerte dai musei quali spazi culturali vivi e vivificanti delle nostre città.

L'inaugurazione della mostra avrà luogo giovedì 3 settembre alle 17.30 con ingresso gratuito. Sarà offerto un aperitivo dalle Cantine Giubertoni di San Biagio, un bel gesto di collaborazione alle iniziative culturali locali da parte di un'azienda del territorio. All'inaugurazione sarà presente David Booker che illustrerà personalmente il significato dell'esposizione.


Il pomeriggio del 6 settembre, inoltre, sarà in programma un laboratorio sensoriale didattico dedicato ai bambini, incentrato sulle eccellenze alimentari di questa zona del mantovano, collegando così l'evento alle iniziative di Expo Milano 2015. La partecipazione è libera.

Silvana Sperati illustra il metodo Bruno Munari

Riporto qui un’intervista a Silvana Sperati, presidente dell’Associazione Bruno Munari, pubblicata sulla rivista online La vita scolastica.Bruno Munari fu artista, designer e scrittore tra i maggiori del secolo scorso. Dedicò un interesse particolare al mondo dell’infanzia e dell’educazione. Alla scuola di oggi consegna una proposta assai attuale: il laboratorio come luogo della migliore educazione, la creatività come “ricerca sincera di varianti”, un metodo che risiede nel “creare relazioni tra gli elementi conosciuti”. L’Associazione Bruno Munari ne prosegue ufficialmente il metodo e la ricerca che indicò l’artista. Promuove seminari, laboratori, eventi, mostre in Italia e nel mondo ed è l'unica deputata alla formazione sul Metodo Munari. Per maggiori informazioni è possibile consultare il sito www.brunomunari.it.
Foto tratta da:
http://www.artribune.com/2014/03/munari-artista-politecnico-in-attesa-della-grande-mostra-a-milano/3-614/
  
Una sua intervista a Bruno Munari del 1997 si chiude con questa domanda: “Munari è per tutti o per pochi?”. E Munari risponde: “Mah, io direi per tutti”. Che cos’è oggi Munari per la scuola?

Intanto vorrei dire che, secondo me, questa risposta che diede Munari: “Mah, io direi per tutti” descrive in modo assolutamente chiaro il pensiero dell’artista. Ho motivo di credere che negli ultimi anni della sua vita Bruno Munari abbia riservato un’attenzione particolare al mondo dell’infanzia e all’educazione. Diceva lui stesso che quello che voleva restasse era il laboratorio. In questa sua affermazione, io riconoscevo l’accezione vera del laboratorio, come luogo, spazio, tempo, occasione per la costruzione della conoscenza a partire dalla sperimentazione. Lì, nel laboratorio, c’è Munari. E nel laboratorio c’è gran parte del futuro di tutti noi che si costruisce qui e ora attraverso la migliore educazione, proprio quella che ci venne insegnata da questo grande artista.
Pablo Picasso lo paragonò al genio di Leonardo da Vinci, perché si esprimeva con agilità in tanti settori (l’arte, la grafca, la scultura, la scrittura, la progettazione...) e per la tipologia di pensiero, così attenta alla conoscenza, che sempre espresse in tutti i campi. Nonostante questa poliedricità e intensità, Munari sente sempre, e lo ribadisce nell’intervista, di voler essere “per tutti”. Questo vuol dire che dalla lezione di Bruno Munari possiamo trarre anche delle indicazioni necessarie al mondo della scuola. Perché la scuola cos’è, se non il luogo deputato alla costruzione del sapere? Certo si va a scuola per imparare, ma soprattutto per scoprire, per aguzzare la curiosità, per conoscere. Ecco io credo che nell’approccio che Bruno Munari mostrò nei laboratori possiamo trovare indicazioni per portare in aula l’apprendimento, in senso pieno. E questo atteggiamento è quello richiesto proprio oggi dalla scuola, non solo italiana, ma anche europea, quando insiste su quello che viene defnito “imparare a imparare”: quindi fare in modo che l'individuo apprenda, fin da piccolo, a diventare fautore del proprio apprendimento.

Foto tratta dal sito http://www.labogattomeo.it/?page_id=279

L’Associazione di cui è presidente lavora per la comprensione e la diffusione del “metodo Munari”. Vuole illustrarlo ai nostri lettori?

Proverò, attingendo ai testi di Munari e in particolare al suo libro Fantasia (Universale Laterza, Bari, 1977). Qui Munari prova a defnire alcune parole molto spesso confuse tra di loro: fantasia, immaginazione, creatività, invenzione. Quando parla della fantasia, Munari dice che è la facoltà più importante di tutte, perché ci permette di fantasticare di cose e di oggetti che possono anche essere assolutamente irrealizzabili. Si parla di una fantasia che va a briglie sciolte, dunque, di una possibilità del pensiero in cui tutto può essere immaginato. Però, quando parla di fantasia, Munari dice anche che la fantasia usa lo stesso metodo, e sottolinea proprio la parola metodo, di altre facoltà: per esempio dell’invenzione, o della creatività. E dunque: che cos’è questo metodo? Questo metodo, dice Munari, risiede nel “creare relazioni tra gli elementi conosciuti”.
Dunque la persona, prima di tutto, è invitata a “costruirsi” delle informazioni attraverso la sperimentazione che avviene nel laboratorio e nel vissuto quotidiano. Nel laboratorio di Munari posso esplorare un materiale, una tecnica, per scoprire tutto quello che si può fare. Questo mi dà la possibilità di “costruirmi” delle informazioni. Ma se queste informazioni rimanessero ferme, non utilizzate in nessun progetto – Munari dice “come un magazzino di dati inerti” – non servirebbero a nulla. Dunque l’importante è creare una situazione, un'attività che inviti ciascuno a creare relazioni tra queste informazioni, relazioni che poi portano a progettare, costruire, immaginare un qualcosa di nuovo.
Questo “qualcosa di nuovo” non deve essere necessariamente finalizzato, perché può essere anche qualcosa di cui ancora non immaginiamo un uso possibile. Munari dice: quando un oggetto è così preciso, descritto, come un trompe-l’oeil, non stimola il soggetto come un’immagine che invece può essere tante cose, per esempio un ippopotamo o una cavalletta. Massima apertura, dunque, verso materiali “imperfetti”, semplici e più vari possibile, in modo che il bambino possa realizzare sperimentazioni diverse. A livello educativo, inoltre, occorre tempestività: se un bambino riceve un’educazione che lo invita a vedere quello che si può fare con le cose fin da piccolo, è verosimile che manterrà questa attitudine per sempre. Se, invece, già nei primi anni a un bambino si dice: “Stai attento, No!... Si deve fare così, si deve fare cosà!... Il cielo è sempre azzurro... Il pulcino è sempre giallo... La mela è sempre rossa...”, quel bambino avrà poche possibilità di emancipare i propri pensieri, di contemplare le infinite variabili, di costruire i propri apprendimenti...

Tornando all’intervista del 1997, Munari dice che la creatività è “ricerca sincera di varianti”. Come possiamo tradurre, anche per il mondo della scuola, questa definizione?

Questa frase sulla creatività è molto bella e mi permette di precisare la risposta sul metodo che ho dato prima, perché ogni parola della frase è un elemento di metodo. La parola “ricerca” ci porta all'approccio scientifco, così vicino all’attenzione di Munari, che ha sempre cercato di analizzare ogni aspetto, di non dare nulla per scontato. L’atteggiamento del ricercatore è l’atteggiamento di colui che con curiosità guarda a tutte le espressioni che il mondo gli presenta. E Bruno Munari aveva fatto suo questo atteggiamento, manifestato anche con la grande attenzione che ha sempre riservato al mondo della natura. Per tutta la vita Munari osservò la natura, i suoi processi, i suoi cambiamenti, le sue variabili e io credo che dalla lezione di Munari ci venga anche lo stimolo di tornare alla natura con uno sguardo di stupore per tutto quello che ci può insegnare.

Questa ricerca, dice Munari, deve essere “sincera”. Una ricerca sincera è una ricerca “vera”. Dal nido all’università proponiamo ricerche viziate, non vere ogni volta che si dà il risultato per scontato. Per esempio: se provo a fare un’esperienza di mescolamento dei colori, come il blu e il giallo, so bene che il risultato sarà il verde, ma non posso fermarmi lì. Infatti quante variabili ci possono essere in quell’esperienza, a partire dall’intensità e tipologia dei pigmenti, da quanto blu e quanto giallo metto, dal materiale su cui spalmo, spremo o stendo il colore? In questo senso la dimensione della ricerca deve essere “sincera”. Perché la dimensione della ricerca “sincera” coinvolge, appaga l’individuo e, soprattutto, diventa realmente generativa di nuovi saperi. La ricerca non deve essere millantata, su questo dobbiamo essere molto attenti. Come il laboratorio: deve essere il luogo della ricerca, non può essere il luogo del “facciamo finta che facciamo la ricerca”. Ormai anche intorno alla parola “laboratorio” è andato un po’ a perdersi questo elemento costitutivo della ricerca: dobbiamo rileggere il senso delle parole, ritornare al loro significato come definizione di azioni realmente congruenti. “Ricerca sincera di varianti”, dice Munari. Ecco, qui entriamo nell’orizzonte molto creativo del “quanti ce ne sono” e del “come sono”. Proviamo a immaginare delle domande: un sasso: quanti ce ne sono di sassi?; è rosso: quanti ce ne sono di rossi?; fino a quando questo materiale che è rosso è rosso, e quando invece da rosso diventa scuro scuro, e forse stiamo passando nel marrone? La ricerca delle varianti mi “apparecchia davanti” le possibilità del mondo, ma insieme mi descrive anche i suoi confini, portandomi in quel territorio dello “sfumato” dove posso descrivere un fenomeno con un’esattezza che non è solo mero dato, numero, definizione ma consapevolezza del mondo. Entrare in questo tipo di processo significa prendersi in mano il gusto, la gioia dell’apprendere. E sarà proprio ritornando a questa gioia che potremmo dare ai nostri studenti una grande chance. Si tratta di un movimento da compiere all’insegna del festina lente, dove l’investimento nell’educazione, oggi, è l’azione più importante che possiamo fare.

Il caso dell’Art Institute of Chicago: fuori tutti i volontari bianchi dal museo

Fonte dell'immagine: The Federalist Negli Stati Uniti, presso l’Art Institute of Chicago (AIC) si è aperto un caso che potrebbe essere d...