L'appello dei Professori universitari Francesco Benozzo e Luca Marini contro il greenpass che maschera l'imposizione del vaccino anche nei luoghi della cultura e nelle università

 Riporto, qui, il testo dell'appello che tutti possiamo condividere e inoltrare: 

Una lettera scritta dai Professori universitari Luca Marini (Diritto internazionale, La Sapienza) e Francesco Benozzo (Filologia romanza, Bologna) è stata inviata il 14 agosto 2021 alle massime cariche dello Stato (leggi e scarica la lettera).
Coloro che lo desiderano possono inviarla in massa - con oggetto "Condivido" o "Aderisco" - ai seguenti indirizzi:


Ecco il testo della lettera:

Appello al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Presidente del Senato, al Presidente della Camera, al Presidente della Corte costituzionale
Illustrissimo signor Presidente, desideriamo, con questo Appello, sottolineare e sottoporre alla Sua attenzione e valutazione le criticità e le contraddizioni che caratterizzano la campagna vaccinale in corso e di cui molti italiani stanno prendendo consapevolezza, talvolta con reazioni esasperate in assenza di informazioni corrette e verificabili. Sta diffusamente emergendo la consapevolezza che i vaccini anti-Covid sono stati autorizzati dall’Unione europea, sulla base del regolamento della Commissione n. 507/2006 del 29 marzo 2006, in assenza di evidenze scientifiche e di dati clinici relativi alla loro efficacia e alla loro sicurezza; sta diffusamente emergendo la consapevolezza che la disponibilità di terapie, già sperimentate in altri Paesi, farà venire meno uno dei presupposti richiesti dal citato regolamento della Commissione per il rilascio di nuove autorizzazioni, oltreché per il rinnovo di quelle già concesse; e sta diffusamente emergendo la consapevolezza che proprio lo stato emergenziale, continuamente prorogato pur a fronte della nuova realtà sanitaria, sia sostenuto e giustificato da un politica normativa ormai controversa e dibattuta. Con la mutata consapevolezza collettiva, gli italiani continuano ad assistere alle azioni del Governo volte a promuovere la campagna vaccinale, ora obbligando alla vaccinazione gli appartenenti alle professioni sanitarie, ora adottando provvedimenti che di fatto spingono surrettiziamente alla vaccinazione larghe porzioni di cittadini, nonché ulteriori, specifiche categorie professionali, come i docenti delle scuole e delle università. Queste azioni, se prefigurano possibili violazioni dei diritti e delle libertà fondamentali garantiti dalla Costituzione italiana, si pongono immediatamente in contrasto con alcuni principi generali di diritto internazionale e di bioetica, quali il principio di precauzione, recepito anche dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, il principio del consenso informato, sancito dal Codice di Norimberga del 1947 e, da allora, mai più messo in discussione, nonché il principio di beneficienza, di non maleficenza e di equo accesso alle risorse sanitarie, cui si ispira anche la Convenzione europea sui diritti dell’uomo e la biomedicina. Le azioni del Governo si pongono in contrasto anche con le dichiarazioni contenute nella risoluzione 2361 (2021) dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa del 27 gennaio 2021 – e con le relative norme della Convenzione europea sui diritti dell’uomo – secondo cui gli Stati devono assicurare che «i cittadini siano informati che la vaccinazione non è obbligatoria e che nessuno subisca pressioni politiche, sociali o di altro tipo affinché si vaccini, se non desidera farlo personalmente», nonché con le considerazioni contenute nel preambolo del regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio n. 2021/953 del 14 giugno 2021, secondo cui occorre evitare la discriminazione diretta o indiretta dei soggetti che «hanno scelto di non vaccinarsi». In qualità di componenti del mondo universitario, riteniamo indispensabile, nel silenzio generale di Rettori, Organi accademici, Sindacati, Associazioni, richiamare la Sua attenzione su comportamenti e azioni del Governo suscettibili di sviluppi e possibili derive che potrebbero incidere profondamente sui diritti e sulle libertà individuali e sul rapporto tra governanti e governati in una società che fa del metodo democratico il proprio baluardo. Nel fare ciò – in tempi durissimi per la libertà di pensiero, specialmente nella dimora che dovrebbe tutelarlo e farsene portavoce: l’università – intendiamo ribadire anche la nostra ferma volontà di cittadini di non accettare acriticamente i provvedimenti che hanno già colpito il mondo sanitario, che colpiscono ora l’università e la scuola, e che inevitabilmente finiranno per estendersi, anche surrettiziamente se accettati nel silenzio dei rappresentanti del pensiero critico, a tutta la comunità e a tutti gli individui. Abbiamo scritto questa lettera, illustrissimo Signor Presidente, perché ci sentiamo animati dalla passione che il nostro mestiere di studiosi e docenti ci ha insegnato, e riteniamo di averla scritta – col privilegio fino a questo momento concessoci di insegnare in due delle più antiche università del mondo – in nome di quanti ci hanno preceduto, erigendo i principi su cui si fonda la nostra società e di quanti hanno il diritto inalienabile a costruirvi la propria felicità. La ringraziamo, illustrissimo Signor Presidente, per l’attenzione che vorrà prestare al nostro Appello e, se lo riterrà fondato sul piano etico e giuridico, per le azioni che vorrà porre in essere secondo le Sue competenze.
Con i più distinti ossequi.
Francesco Benozzo e Luca Marini
(Alma Mater Studiorum / Università di Bologna - Università degli Studi di Roma “La Sapienza”)
14 agosto 2021

La crisi dei musei

Quando la crisi pandemica terminerà, probabilmente i musei vivranno una seconda crisi, questa volta non sanitaria, ma esistenziale. Negli ultimi sessant’anni circa si è affermato un concetto di museo come luogo di incontro e di superamento dei contrasti, delle differenze e delle esclusioni, per il quale, cioè, era considerata essenziale la capacità di instaurare un buon rapporto con la cittadinanza. Soprattutto nel caso dei musei locali, si è ripetuto all’infinito che se a una parte della cittadinanza è negato il diritto di usufruirne - perché, per esempio, vivono dei disagi profondi, delle situazioni di conflitto, di divisione o di esclusione sociale - il museo, che dovrebbe riflettere l’immagine di quella comunità, ma che vive distante dai suoi problemi, sarà, nella sostanza, incapace di incidere profondamente nella vita della società. «Senza valore sociale il museo è nulla» e «i musei devono esistere per qualcuno, non per qualcosa»- affermava il museologo americano Stephen Weil.
Negli ultimi anni, poi, si è parlato insistentemente di musei democratici, di musei inclusivi, di musei che superano i propri confini fisici e ogni tipo di barriera, soprattutto culturale, per incontrare la gente. Quanti di noi hanno fatto propri i principi della Convenzione di Faro e hanno ammirato, accogliendone i valori, il manifesto dei musei del premio Nobel turco Orhan Pamuk: come resistere all’ideale di un museo che non rappresenta uno stato, una nazione, una società o un determinato periodo storico, ma che, piuttosto, “è capace di rivelare l'umanità degli individui”. Concetti che nella circostanza attuale si sono rivelati molto difficili da mettere in pratica e che, invece, hanno messo a nudo la totale dipendenza dei musei dai poteri centrali. Anziché promuovere il dibattito e favorire il confronto, la maggior parte dei musei si è limitata, nei casi migliori, a prendere atto dell’introduzione del Green pass per l’accesso ai musei e ai luoghi della cultura, nei peggiori, a mostrarsi perfino entusiasta del compito di separare i cittadini “buoni” da quelli “cattivi”, colpevoli quest’ultimi di esprimere dei dubbi sulla legittimità di un’imposizione di questo tipo.
Le associazioni museali italiane tacciono, neppure una iniziativa di dibattito su un tema così scottante e delicato che rischia di cambiare per sempre la percezione che i cittadini avranno dei musei e di annullare decenni di lavoro finalizzati ad accorciare le distanze tra la ristretta comunità accademica e il grande pubblico. Ogni fatica per conquistare ai musei un ruolo più democratico nell’ambito della società, per favorire il coinvolgimento e la partecipazione del pubblico, cercando di far passare il messaggio che i musei non hanno paura del dialogo, del dibattito, della polemica, delle opinioni, ma anzi le sollecita, sta per andare in fumo.
In alcuni casi si è tentato di animare il dibattito sulla questione, ma la risposta di alcuni professionisti museali è stata lo sventolamento orgoglioso del proprio personale Green pass, accompagnato da emoticons sorridenti, quasi fosse un vessillo, un simbolo nazionale, un segno della nuova identità in cui parte della società sembra ora volersi riconoscere.
La domanda, allora, sorge spontanea: le convinzioni tanto amate da molti professionisti museali, basate sulla Convenzione di Faro e sul manifesto di Pamuk, erano state realmente assimilate o era solo un’operazione di marketing? La cultura e i musei sono mai stati veramente liberi dalle influenze politiche o sono stati sempre soggetti all’iper-burocratizzazione centralizzante? Giovanni Pinna scrisse (a proposito degli ecomusei, ma si può estendere il concetto a tutti i musei, soprattutto di natura locale) che “è impensabile che possa essere lasciato alle singole comunità il diritto di gestire autonomamente le proprie memorie storiche sociali. Il processo di controllo politico e sociale è evidente soprattutto nella burocratizzazione delle microstrutture museali locali - denominate spesso erroneamente ecomusei - realizzata attraverso il ricatto economico, imponendo cioè un certo tipo di organizzazione attraverso normative collegate alla erogazione di contributi pubblici”. Solo un’apparente libertà, dunque, che spiega, in parte, come nessun museo si sia posto come prioritario il dovere del dibattito e del confronto, uniformandosi ad una altrettanto schiava informazione pubblica, talmente a senso unico da essere imbarazzante.
Peraltro, è noto che in Europa la stessa spinta all’inclusione sociale è divenuta una delle finalità perseguite dai musei non tanto per una spinta venuta dall’interno del settore museale, ma a seguito della politicizzazione dei musei. Nel Regno Unito, per esempio, a seguito della pressione del governo New Labour, non solo musei e gallerie, ma anche altre istituzioni pubbliche, come gli ospedali, le università e le scuole, furono incoraggiati a considerare l’inclusione sociale come una delle proprie funzioni essenziali. La giornalista e scrittrice Josie Appleton ha descritto tale processo di cambiamento nel Regno Unito (“Museums for the people”, https://www.spiked-online.com/.../08/museums-for-the-people/): “fu così che i musei cominciarono a riorganizzarsi cercando di occuparsi il più possibile delle relazioni con la comunità. Per la Gran Bretagna dei New Labour la parola “inclusione sociale” sembrava essere di gran moda, ma restava comunque un concetto oscuro, non pienamente compreso, che nasceva piuttosto da un’ansia del pericolo di frammentazione sociale e dalla possibilità che potessero esistere individui isolati, senza un proprio scopo nella vita, e che quindi dovevano assolutamente essere aiutati. Laddove esistono persone abbandonate a se stesse è più alto, infatti, il livello di criminalità, più basso il livello culturale e la pratica di attività sportive. In sostanza, si possono creare situazioni o fasce sociali in cui la qualità di vita è molto bassa. Per ovviare a questo inconveniente, il Dipartimento britannico per la Cultura, i Media e lo Sport (DCMS), adottò una strategia che vedeva i musei e le gallerie coinvolti in prima linea nell'impegno sociale, tesi a responsabilizzare le persone nel saper individuare il loro posto nel mondo e nel riuscire a svolgere un ruolo attivo nella società. Il Group for Large Local Authority Museums (GLLAM) sostenne questa strategia, nella convinzione che i progetti di inclusione sociale generino maggiore autostima, fiducia e creatività, contribuendo a sviluppare una vita sociale più attiva e soddisfacente. In quel momento i musei britannici avevano un grande bisogno di auto-giustificare la loro esistenza perché per almeno una decina d’anni erano stati messi sotto processo dalla società per il loro ruolo di “badanti” e per la loro troppo stretta connessione con lo studio e l’interpretazione di “oggetti”, che li aveva tenuti isolati dalla concretezza della vita reale. Le critiche erano state talmente dure che, a destra, l’ex Primo Ministro Margaret Thatcher aveva definito i musei “inutili”, e pertanto aveva cercato di “modernizzarli” e di renderli più “efficienti”, introducendo le logiche del marketing per la loro gestione e per la valutazione dell’efficacia del lavoro svolto. A sinistra, invece, si continuava ad attaccare i musei, considerandoli istituzioni tenute in vita da élite ideologiche che tendevano ad escludere le masse”.
A questo punto, il Dipartimento per la Cultura, i Media e lo Sport dovette affrontare con decisione la crisi di identità dei musei. L’ordine del giorno fu, oltre che rendere esplicita la volontà di politicizzare i musei, il suggerimento di individuare, ogni anno, un tema sociale da mettere in luce e approfondire attraverso mostre o altri eventi di questo tipo.
Durante gli attacchi rivolti alla categoria, molti professionisti museali erano rimasti in silenzio. Forse erano talmente demoralizzati che i progetti di inclusione sociale a quel punto sembravano necessari non solo al pubblico ma soprattutto a se stessi. Grazie a questi progetti, infatti, il personale dei musei cominciò a sentirsi più utile e necessario, e a ritrovare nuove energie. Qualcuno affermò di sentirsi “più connesso”, “più integrato” nell'ambito della comunità, forse più vicino alla realtà di quanto non fosse prima, quando si occupava solo delle collezioni espositive.
Ma questa nuova funzione del museo era realmente un bisogno dei professionisti museali e della società, essendo stata imposta dall'esterno, dopo la demolizione del vecchio modello di museo, e poi attivamente promossa dalle nuove élite museali?
Il punto è: che cosa succede quando i progetti di inclusione sociale diventano parte di un programma di governo? A questo punto non è più il direttore di un museo che autonomamente decide di aumentare l’autostima degli individui della comunità in cui opera, ma le nuove élite museali promuovono questi progetti per veicolare le politiche governative in ambienti per lo più a rischio.
Questo discorso è utile per comprendere che probabilmente i cambiamenti dei musei non sono mai stati tali: è bastato il banco di prova della pandemia per dimostrarlo. I cambiamenti culturali non si possono imporre con un decreto governativo, ma i musei, se fossero stati veramente percepiti come espressione e memoria della collettività, avrebbero trovato in se stessi le motivazioni per una trasformazione più o meno radicale, cercando modelli più adeguati ai tempi ed anche alle nuove esigenze sociali, senza rinunciare alle proprie peculiarità. Abbiamo assistito, invece, alla rinuncia dei musei ad essere soggetti attivi, per diventare solo esecutori.
Sebbene sia chiaro che i direttori dei musei evidentemente non hanno il potere di impedire che venga attuato un provvedimento come il Green pass, tuttavia ciò non vuol dire farsi funzionari obbedienti e perfino devoti, rinunciando ad eseguire uno dei compiti essenziali di cui sono investiti i musei, cioè quello di offrire alla comunità strumenti per esercitare il pensiero critico. Allo stesso tempo, come si è accennato, in questa circostanza è mancato anche il dibattito interno all’ambito museale, il che ha fatto crescere il disorientamento.
Per tornare, quindi, all’incipit di questa riflessione, quando la crisi pandemica sarà terminata, il museo si troverà a doversi confrontare con se stesso, a fare i conti con la propria staticità e distanza dalle comunità. Guardarsi allo specchio non sarà facile perché emergeranno le tante contraddizioni e le debolezze che sono state così impietosamente mostrate alla nostra società e si dovrà rendere conto di ogni discriminazione attuata contro i cittadini e di aver alzato di nuovo quei muri e quelle barriere che tanto ci si vantava di aver abbattuto.


I musei possono influenzare la vita delle persone, ma, proprio perché sono investiti di questo importante compito, se falliscono, tradiscono la società” (D. Fleming).

Intervista di Tusciaup: il museo deve essere un orecchio in ascolto


Pubblico qui il link all'intervista che mi è stata rivolta dalla giornalista Sara Grassotti della testata Tusciaup, che ringrazio: http://www.tusciaup.com/caterina-pisu-museo-deve-un-orecchio-ascolto/63445
 
 
 
Uno stralcio dell'intervista:
 
Il Museo della Navigazione nelle Acque Interne, un museo archeologico e antropologico progettato per offrire ai visitatori una più approfondita conoscenza della storia della navigazione nelle acque interne in Italia centrale. Risponde a questa logica?
Sì, assolutamente. Mi preme dire che Capodimonte può vantare un museo con un progetto museografico e museologico avanzato che merita di essere valorizzato e potenziato. Dopo averlo conosciuto, mi sono immediatamente appassionata non solo alle tematiche trattate dal museo, ma soprattutto all’idea progettuale di Carlo e Anna Maria Conti, titolari della Cooperativa Arx, e di Patrizia Petitti, funzionaria archeologa della Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale. In particolare, ho apprezzato proprio l’idea di mettere insieme gli aspetti archeologici e quelli antropologici, una modalità di rappresentazione del tema della navigazione nelle acque interne in Italia centrale che offre infinite prospettive di narrazione, perché permette di spaziare dal passato al presente, favorendo la riflessione, il confronto, il recupero della memoria storica locale.
 
Conferenze, proiezioni, dibattiti, attività ludiche, presenze autorevoli e svariate, una nuova gestione del  museo…
Nella programmazione degli eventi del Museo mi piace che le iniziative abbiano carattere eterogeneo sia per le tematiche trattate che per il genere: si spazia dalla classica conferenza accademica ad altri generi più sperimentali, come la conferenza tenuta da Katia Maurelli sull’archeologa lituana Marija Gimbutas, alla quale è seguita una riflessione collettiva con ricerca di parole chiave, oppure la mia conferenza “teatralizzata” su Roberto Rossellini, con letture dell’attrice Anna Maria Civico. Quando progetto la programmazione è per me molto importante tenere presente ciò che interessa alla comunità e accoglierne le proposte. Questo lo ritengo un mio preciso dovere. Il museologo americano John Kinard sosteneva che il museo deve essere un “orecchio in ascolto” e credo che questa frase esprima perfettamente il mio modo di intendere la gestione di un museo locale.
 
 


I musei di comunità per Teresa Morales

"Il museo di comunità è un processo, piuttosto che un prodotto. E' il risultato dell'integrazione di complessi processi di costituzione della comunità attraverso la riflessione, la conoscenza di sé e la creatività; processi che consolidano l'identità della comunità per legittimare le proprie storie e i propri valori; processi che migliorano la qualità della vita della comunità, attraverso molteplici progetti per il futuro; infine, processi che rafforzano la capacità di azione della comunità attraverso la creazione di reti con comunità simili". Teresa Morales

Il Museu das Remoções di Vila Autódromo, Brasile

Un museo spontaneo nato dalla disperazione dei poveri
 
 
Il Brasile sta attraversando una fase storica particolarmente difficile, resa ancora più complicata dalle ultime vicende politiche che sono sfociate nell'impeachment di Dilma Rousseff. Anche il mondo dei musei brasiliani è in prima linea nel dibattito politico e questo è naturale in un Paese in cui la visione dei musei, così come accade in generale in America Latina, ha un’impronta decisamente sociologica e un carattere partecipativo.
 
E’ accaduto, così, che lo scorso 18 maggio, Giornata Internazionale dei Musei, si è scelto di inaugurare il Museu das Remoções di Vila Autódromo. Vila Autodromo è un quartiere povero situato nella zona ovest di Rio de Janeiro, ai margini di Barra da Tijuca (lussuoso quartiere di Rio), Qui è in fase di ultimazione la costruzione del parco olimpico per i Giochi che avranno inizio il prossimo agosto. Il Vila Autodromo, ora sgomberato, accoglieva circa 580 famiglie e ora solo venti di queste resistono contro la speculazione immobiliare e i “traslochi politici” promossi dal Comune di Rio de Janeiro. Il Museu das Remoções è diventato così uno strumento di lotta.
Concepito come un museo a cielo aperto, si compone di sette sculture:

1. “Luz que não apaga”, è vicino al muro di San Giuseppe Lavoratore, la Chiesa nei cui locali si svolgono le attività e dove sono stati depositati i mobili delle case demolite;

2. “Suporte dos Males”, è dedicata ad una ex residente del villaggio, Jane D., che aveva qui la sua casa che poi è stata abbattuta;

3. “A Associação Sou Eu”: questa scultura vuole rappresentare la resistenza dell’associazione dei residenti alla demolizione delle proprie case;

4. “Doce Infância” è il parco giochi, il luogo dove le idee vengono impostate in maniera partecipativa e dove i residenti svolgono le varie attività di festa e di resistenza;

5. “Espaço Ocupa/Casa da Conceição”, ricorda il luogo in cui si svolgevano le attività culturali di Vila Autodromo, accanto alla casa D. Conceição, la quale metteva il bagno della sua casa a disposizione dei partecipanti, preparava e vendeva i pasti nei giorni dell’occupazione, prima dello sgombero. Nella scultura di fondo sono state dipinte varie mani che rappresentano l'unione tra i residenti e tutti gli altri sostenitori della causa, tutti coloro che hanno lavorato per ricostruire lo spazio occupato;

6. “Vila de Todos os Santos” è un omaggio alla casa di D. Eloisa che qui risiedeva e in cui aveva un “Terreiro de Candomblé” (luogo dove si svolgono alcuni riti religiosi afro-brasiliani), conosciuto come Casa de Nanã, anch’esso demilito il 24 febbraio 2016;

7. “Penha de Muitas Faces”, rappresenta un simbolo femminista in onore di D. Penha, una dei leader della comunità di Vila Autodromo la cui casa è stata abbattuta l'8 marzo di quest'anno, giornata internazionale della donna.

Il percorso espositivo è stato presentato da Sandra Maria, un’abitante del quartiere, con la collaborazione dei professori Diana Bogado, Universidade Anhanguera/Niterói, e Mário Chagas, UNIRIO.
Fachada da casa da moradora Sandra Regina: “Associação de Moradores da Vila Autódromo”. Todas as casas se chamam “associação”. l Foto: Miriane Peregrino / Fonte: http://jornalocidadao.net/
Davanti alla scultura che ricorda l’associazione degli abitanti, Sandra Maria ha dichiarato che le autorità hanno demolito degli edifici, ma l’associazione continuerà a lottare ugualmente: “Scriveremo a tutte le associazioni di residenti affinché ci aiutino a dare visibilità alla nostra dimostrazione. L’associazione degli abitanti non è un edificio e va ben al di là di quattro mura. E’ un’organizzazione e finché vi saranno abitanti organizzati, che discutono e combattono, l'associazione è viva”.

Un drammatico momento dello sgombero degli abitanti di Vila Autòdromo

Gli abitanti di Vila Autódromo, in questi lunghi anni di lotta contro la speculazione settore immobiliare, hanno creato continuamente iniziative di resistenza e hanno messo in piedi un’azione energica che ha rinforzato il legame tra gli abitanti. Thainã de Medeiros, museologa, ha affermato che "la creazione del Museu das Remoções è, in primo luogo, un mezzo per riflettere sulle dinamiche politiche che provocano sfratti e demolizioni a Rio de Janeiro. E’ un modo per costruire la memoria della città, una memoria collettiva di Rio de Janeiro dove i più poveri si estinguono e vengono dimenticati". "Qui si sta creando un altro progetto di città.” – ha continuato Thainã, la cui famiglia ha subito anch’essa un’azione di sgombero – “Si vuole mostrare quello che è il processo storico di rimozione di una parte della città, un processo che è sempre molto crudele perché è un atto di forza contro i più deboli”.
Il museologo Mario Chagas, docente presso la Unirio, ha commentato così la nascita del Museu das Remoções: “È un museo di resistenza, di lotta. Questo museo non celebra la lotta, celebra la potenza della memoria, la memoria creativa, la memoria che progetta il futuro, ed è anche una specie di museo removibile che può appartenere anche ad altre Comunità nel senso che non tratterà soltanto degli spostamenti contemporanei, ma anche della storia degli spostamenti. Ma la cosa più importante in questo momento è che il Museo evidenzia la forza degli abitanti di Villa Autódromo impegnata a resistere decisioni delle autorità che hanno prodotto qui una terra rasata in nome delle mega imprese, senza prendere in considerazione la memoria, la vita, la socialità delle persone". Mario Chagas ha inoltre ricordato che l'argomento della Giornata Internazionale dei Musei quest'anno è stato “museo e paesaggio” e questo ha una relazione diretta con il Museu das Remoções: “In questo paesaggio di terra rasata, in questo paesaggio culturale che è stato distrutto, si costruiscono nuove possibilità. Qui si vuole rappresentare come il potere pubblico interviene nel paesaggio, ma facendolo in modo distruttivo. Costruisce nuovi paesaggi per il suo interesse ma non rispetta i paesaggi costruiti qui dai loro vecchi abitanti.” Continua Chagas: “Il concetto che ha determinato il progetto espositivo è che la memoria non si distrugge. Le case possono essere demolite, ma la memoria continua a pulsare. In questo luogo si manifesta un potere poetico e politico“.
 
 
 

Fernanda Camargo-Moro (1933-2016)

Una triste notizia per il mondo della Museologia: pochi giorni fa è venuta a mancare l'archeologa e storica brasiliana Fernanda Camargo-Moro (1933-2016), figura rilevante nel campo della museologia, in particolare della Nuova Museologia. Prese parte alla Conferenza generale dell'Icom del 1971 e contribuì alla creazione del primo ecomuseo brasiliano, nel 1987, a Itaipu.
La ricordiamo con riconoscenza per l'importante lavoro da lei svolto per il mondo dei musei.
 
 

digiti@amo il museo

Intervista agli studenti del Liceo Classico "Dante Alighieri" di Latina


di Caterina Pisu

La riuscita di un progetto museale non sempre dipende solo dalla sua qualità o dalla efficacia delle strategie di gestione. Ci sono altri elementi che ne determinano il valore e la durata del tempo, e uno di questi è indubbiamente la costruzione di un solido rapporto con le parti attive della propria comunità: le istituzioni locali, il settore produttivo, la scuola, le organizzazioni di sostegno sociale e di promozione culturale. Nel caso studio che qui vi presento, la scuola si è fatta partner attivo di un museo della propria città. Così nasce il progetto di alternanza scuola-lavoro “digiti@amo il museo”, da poco iniziato con la collaborazione degli studenti del Liceo Classico Statale “Dante Alighieri” di Latina, ai quali è stato chiesto di rendere social il Museo Civico “Duilio Cambellotti”, nella propria città, aumentandone in tal modo la visibilità e creando i presupposti per un dialogo interattivo con i cittadini e, in generale, con tutti i visitatori.



Il Museo Cambellotti di Latina è un museo importante, nato nel 2005 per custodire un primo nucleo di opere di Duilio Cambellotti, questo poliedrico artista - scultore, pittore, illustratore, ceramista e architetto - attivo tra la fine dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del secolo scorso. Nonostante la rilevanza delle sue collezioni, come tanti musei italiani, anche il Museo Cambellotti deve fare i conti con un problema di visibilità online; era necessario, pertanto, ricercare soluzioni che guardassero al web e, in particolare, alla comunicazione social.  Dopo la creazione del sito web, nel dicembre 2015, è arrivato il progetto “digiti@amo il museo”, in cui la novità è data soprattutto dal coinvolgimento, nell’operazione, degli studenti del Liceo Classico Statale “Dante Alighieri” di Latina. Il progetto è stato elaborato come parte del Piano Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF), con l’obiettivo di sviluppare competenze di cittadinanza attiva con carattere di orientamento ai fini del lavoro. 



Il Liceo "Dante Alighieri" è molto attivo: gli studenti hanno ideato e gestiscono anche il blog della scuola, intitolato "Il Classico Giornale"la pagina Facebook e l'account Twitter.

Ho rivolto alcune domande a Emanuela Macci e Aurora Rocco, due studentesse del Liceo “Dante Alighieri” (I D) cercando di capire, con il loro aiuto, il vero significato di un’esperienza sicuramente fuori dal comune.

La vostra collaborazione con il Museo Cambellotti consiste nella elaborazione di una strategia di promozione d’immagine e di miglioramento della comunicazione digitale attraverso i social media. Come vi siete preparati ad affrontare questo compito? Vi siete ispirati a esempi già collaudati nel settore della comunicazione museale?

Certamente, quando ci è stato presentato, questo progetto ci è sembrato molto difficile da realizzare, ma ci siamo presto ricreduti. Prima di iniziare, infatti, abbiamo seguito per una settimana delle lezioni teoriche ed abbiamo avuto degli incontri con dei tutor esterni. Già durante questa settimana abbiamo constatato quanto questo progetto fosse dinamico e pratico: più che lanciarsi in tradizionali e noiose lezioni, i tutor ci hanno fatto vedere esempi di musei, sia molto famosi a livello internazionale sia quelli locali poco conosciuti, dalla cui digitalizzazione abbiamo preso spunto per il nostro progetto.

- Come vi siete organizzati? Avete creato dei gruppi di lavoro? I vostri riferimenti sono stati gli insegnanti e i curatori del museo o anche specialisti esterni?

Prima di iniziare ufficialmente il progetto, abbiamo eseguito un test attitudinale in base al quale siamo stati inseriti in gruppi diversi. I gruppi sono quattro: il primo gruppo acquisisce le fonti necessarie direttamente nei musei, rese in seguito accessibili sui social network dal secondo e terzo gruppo, attivi presso il FabLab e Mixintime, rispettivamente uno spazio di condivisione e di lavoro e uno studio di produzione cinematografica per creazione di promo e video. Infine, il quarto gruppo si occupa della parte burocratico-amministrativa. Ci hanno seguito ed aiutato sia gli insegnanti che specialisti esterni: il prof. Vincenzo Scozzarella (direttore del Museo Cambellotti), gli avvocati Francesca Coluzzi e Gabriella Guglielmo, il prof. Nanni, la prof. Mandarano, il dott. Francesco Maglione, Francesco Timpone del Fablab Latina, i graphic designer Daria Giovannetti e Giulia Volino e Amilcare Milani, titolare di Mixintimegroup.

- Nel corso del progetto “digiti@amo il museo”, sicuramente avrete l’opportunità conoscere più da vicino il museo non solo dal punto di vista delle collezioni ma anche da quello della gestione; sarete già entrati in contatto, quindi, con il “dietro le quinte”, un aspetto che solitamente non è visibile al pubblico. Questo ha cambiato il vostro modo di vedere i musei?

Sì, decisamente! Quest'esperienza ha cambiato il nostro modo di visitare i musei. Per esempio, recentemente abbiamo fatto un viaggio d'istruzione e in ogni museo in cui siamo entrati ci è venuto naturale fare attenzione a come il museo fosse organizzato e ad eventuali errori logistici, oltre ad aver fatto caso alla loro presenza sui social network.

- Prima di questa esperienza, vi era mai venuta l’idea di visitare un museo di vostra spontanea volontà, senza esservi condotti dalla scuola o dalla famiglia?

Certamente!

- Secondo il vostro parere e in base all’esperienza che state acquisendo nello svolgimento del vostro progetto, che cosa può fare un museo per apparire più “interessante”, soprattutto agli occhi dei giovani?

Se fino a pochi anni fa la miglior pubblicità era il passaparola, ora sono certamente i social network. Se gestiti bene, questi nuovi mezzi di comunicazione sono in grado di portare visibilità in poco tempo a una straordinariamente ampia gamma di persone.  E poi ovviamente, insieme a una nuova ed efficace strategia di comunicazione, è necessario che i musei siano un punto di riferimento culturale dove i cittadini e i giovani possano assistere e partecipare a mostre, eventi, dibattiti, incontri, concerti, spettacoli ecc. Solo con una totale apertura (sia virtuale che reale) i musei possono essere luoghi di vivaci incontri culturali.

- Quale aspetto del progetto “digiti@amo il museo” vi sembra più entusiasmante?

Con questo progetto ci siamo avvicinati molto all'aspetto storico-artistico della nostra città. Adesso ne siamo consapevoli e il nostro intento è quello di diffondere quest'aspetto ai nostri concittadini: è una bella sfida, ma è anche entusiasmante e stimolante perché in un certo senso è come se ci venisse offerta la possibilità di cambiare qualcosa a Latina. E noi faremo del nostro meglio per non sprecarla.


Questo progetto, nel suo complesso, ha messo in evidenza quanto sia importante che i musei non si limitino ad accogliere le scolaresche in gita, ma che si instaurino seri progetti di collaborazione coordinata e continuativa con le scuole. Il museo può essere l’aula in più in cui gli studenti possono realizzare progetti e iniziative a carattere culturale e sociale, sperimentando e producendo nuove idee. Ci sono Paesi, come la Russia, in cui per tradizione alcuni musei possiedono delle scuole proprie, anche dei licei (si veda, al riguardo, la mia intervista a Vladimir Ilytch Tolstoj); in Italia basterebbe essere in grado di utilizzare l'affinità e la complementarietà tra le due istituzioni per la creazione di progetti reciprocamente vantaggiosi. Il caso del Liceo Classico “Dante Alighieri” di Latina è un esempio illuminante che si spera possa avere molti imitatori.


Il mondo visto attraverso i giocattoli: incontro con Franco Palmieri*


Pubblico qui un articolo molto interessante del museologo Riccardo Rosati, dedicato al museo storico-didattico di Roma, "La memoria giocosa". Si tratta di un museo privato dalla storia affascinante e che merita veramente di essere maggiormente conosciuto.
 

Un sabato, andando oltre la ormai improponibile via del Pigneto, siamo tornati in un luogo poco conosciuto di Roma: Il Museo – La Memoria Giocosa. Ricordevoli della interessante conversazione col suo Direttore, Franco Palmieri, abbiamo deciso di intervistarlo.

Un personaggio abbastanza atipico è Palmieri, apparentemente un anarchico, e come tutti quelli veri, con alcune simpatie a Destra. Egli ci ha proposto una lettura del mondo attraverso i giocattoli; un qualcosa che non avevamo mai sentito prima. Dopo uno smarrimento iniziale, siamo entrati nella dimensione dei balocchi, accompagnati dalla interpretazione di una persona che si è anche rivelata preparata ben oltre l'argomento “giocattoli”. Palmieri è, infatti, pure un fine americanista, con alle spalle due borse di studio alla Columbia University, una delle università facenti parte della “Ivy League”: gli unici atenei che contino davvero in America.

La sua personale teoria museologica è totalmente strutturata. Non c'è da stupirsi di ciò. In due ore, il termine “studiare” è ricorso spesso. Prima di  porgli qualche domanda, raccontiamo sinteticamente di questo prezioso, benché piccolo museo.

La Memoria Giocosa nasce nel 2000, seguendo una indicazione museale didattica che ha la sua origine nel Museum of the City of New York.     Esso ha sede in un loft di circa 300 mq, nell'area dei villini del Pigneto, fiorita nell'epoca futurista e sviluppatasi poi nel Barocchetto Romano ad opera degli architetti del Ventennio. Il museo propone il giocattolo inteso come veicolo di comunicazione culturale e di conoscenza della realtà. È il primo museo in Italia ispirato alla filosofia dell'educatore tedesco Friedrich Fröbel (1782 – 1852), ideatore dei giardini d’infanzia. Lungo un itinerario museale composto di oltre duecento piani espositivi, i giocattoli e i giochi costituiscono una sorta di percorso parallelo alla evoluzione storica e sociale delle epoche che i medesimi riproducono.
 
Caro Palmieri quello da lei diretto è un museo non certo grande, però che ha una sua importanza, è così?

Lo può ben dire! Non tanto per la vastità della collezione, ma per completezza, La Memoria Giocosa racchiude una testimonianza assai rara. L'Italia è piena di importanti collezioni di bambole e di giocattoli, ma solo noi non abbiamo “buchi” storici o tematici in quello che esponiamo. Tanto per intenderci, il famoso Museo del Giocattolo di Zagarolo, ospitato nella bella sede di Palazzo Rospigliosi, l'ho inizialmente allestito io, e il primo nucleo della raccolta nasce con dei pezzi che gli vendetti a suo tempo, poiché quelli erano dei doppioni che avevamo. Comunque, il mio museo possiede dei pezzi unici. È il caso dei pupazzi di latta presi dai protagonisti dei comics americani; oltre che da noi, li si trovano solo nelle collezioni statunitensi.
 
Come è stato pensato il Museo?

Abbiamo voluto raccontare il periodo che va sotto il nome di “modernariato”. Dunque, la raccolta abbraccia un lasso temporale che va dal 1835, periodo di sviluppo del motore a vapore a opera di George Stephenson, fino al 1963, anno in cui il Premio Nobel Giulio Natta sintetizza il Moplen, con l'inizio della diffusione della plastica.
 
E sulla collezione di giocattoli – si dice la più importante al mondo, con 30 mila pezzi – facente parte della raccolta dello svedese P. Pluntky, poi acquistata dal Comune di Roma da Leonardo Servadio? Nel 2005, l'ex-Sindaco Walter Veltroni la volle comprare per farne un museo a Villa Ada. Il prezzo pagato fu esorbitante: cinque milioni e quattrocentomila euro! Il progetto non andò in porto e con l'avvento di Alemanno questi giocattoli sparirono. Si è successivamente scoperto che il Comune sborsa da allora le rate del mutuo per l’acquisto della collezione, nonché le spese mensili per la custodia dei giochi, che dal magazzino del venditore non si sono mai mossi. Uno scandalo tutto italiano?
 
Sembrerebbe. Una delle tante trovate di Veltroni, il quale ha avuto la fortuna di avere al suo fianco un uomo della competenza di Gianni Borgna, che è stato un amico del mio museo. Non posso però dire molto su questo fatto, se non che si tratta sì di una raccolta davvero imponente, con numerosi pezzi antichi; tuttavia, anche questa è incompleta, non coprendo tutte le epoche. È fondamentale chiarire che per garantire la funzione didattica dei musei dei giocattoli avere 1 o 1000 pezzi non fa la differenza: mettere assieme decine di oggetti tutti uguali è una mania. È sufficiente un giocattolo per raccontare quello che è utile spiegare.  
 
Il suo museo è chiaramente visitato dalle scolaresche, che ci può dire in merito?

Io farei una piccola accusa al sistema scolastico italiano, con docenti che vogliono soltanto gli oggetti esposti, privi di un racconto. Se vai ai Vaticani e non hai studiato prima, cosa impari? Tutti parlano di “didattica museale”, ma quasi nessuno ci capisce qualcosa. È fondamentale contestualizzare. Il Museo deve essere una “narrazione universale”, e quello dei giocattoli è il museo didattico per antonomasia, diverso da  quello che io chiamo: “museo espositivo”. Con il primo, apprendi al momento della visita. Nel caso del secondo, se non hai cultura, serve a poco.
 
Come sempre la scuola ha dei problemi?

Mi limito a ciò che mi riguarda, i musei. Ritengo che la scuola abbia “subito” il Museo, non dandogli suggerimenti utili, né lo ha mai motivato. Si portano gli studenti in giro come dei branchi. Non ci si sofferma a guardare, così da capire cosa si stia osservando. Un giocattolo racconta la vita autentica della sua epoca, non la imita, né scimmiotta, sia chiaro. Esso è una testimonianza di mode e culture. Parliamo di un mondo che racconta un mondo. Fondamentale è, inoltre, il discorso sui materiali con cui sono fatti i giocattoli. In sintesi, io questo spiego ai visitatori, grandi e piccoli, che ci vengono a trovare.
 
Il giocattolo è un fatto nostalgico o una realtà educativa?

Ma che nostalgico, è educazione allo stato puro. La nostalgia riguarda i collezionisti – categoria di cui non faccio parte – che sono dei maniaci monotematici. Un museo del giocattolo è una sorta di iperuranio platonico, un mondo delle idee.
 
Allora, non è solo “roba per bambini”?

È per tutti. E non si confonda la produzione dei giocattoli, con ciò che essi testimoniano. Purtroppo, oggi i “modelli” si sono esauriti, tutto è stato rappresentato attraverso i giocattoli. Questa è la ragione per la quale l'esposizione qui si ferma al 1963. Alla plastica è stata destinata la serialità degli oggetti, di cose già fatte con altri materiali in precedenza.
 
Quindi, è stata una scelta “antimoderna” il non continuare a raccogliere pezzi appartenenti a periodi più vicini a noi?

Assolutamente no. Tematica, solo ed esclusivamente tematica. La mia è stata la predilezione per una determinata epoca, il modernariato, e non il rifiuto di un'altra. 
 
Quante cose si scoprono attraverso lo studio dei giocattoli. Qualche altra curiosità?

Ce ne sarebbero di infinite. Per quanto concerne l'Italia, abbiamo grandi collezioni sparse sul nostro territorio, ma non una importante storia “produttiva”. Il giocattolo, quasi nessuno lo sa, nasce in Germania. Successivamente, si è diffuso in Inghilterra, Francia e Stati Uniti. Da noi, l'industria in questo campo è nata durante il fascismo, copiando quello che si faceva proprio in Germania.
 
A proposito di America? Che ci dice di Barbie, alla quale sono state dedicate varie mostre ultimamente? Icona negativa come pensano taluni?

Per nulla. La Barbie rappresenta la donna liberata, ha una sua vita, la macchina, una casa di proprietà, un lavoro. Chi ha un problema con questa bambola ha una visione del mondo femminile problematica.
 
Ci viene da pensare che gli insegnanti e i genitori possano rimanere  sorpresi e, di conseguenza, messi in difficoltà dalla sua lettura dei giocattoli, dove tutta la storia umana moderna è presente.

I docenti che accompagnano i ragazzi al Museo vengono “preparati”. Ovvero, si informano prima sulle mie idee e si comportano in modo collaborativo. In generale, le persone poco capiscono del senso di questo luogo. È il giocattolo il vero testimone del passato, altro che le foto! I musei sono in sostanza tutti uguali, la differenza sta nel progetto culturale che ne sta alla base. I giocattoli obbediscono alla realtà. Visitando questo museo non si fugge dal mondo; al contrario, lo si comprende un pochino meglio.

Riccardo Rosati
 
* Un sentito ringraziamento ad Annarita Mavelli per il suo prezioso aiuto nella supervisione di questo scritto.

Riccardo Rosati: "Museologia e Tradizione"

Segnalo con piacere il nuovo libro dell'amico Riccardo Rosati, "Museologia e Tradizione", edito da Solfanelli. Buona lettura!
 
 

I musei e i non visitatori

Oggi vorrei iniziare a riportare qui, sulle pagine del mio blog, alcuni stralci di un saggio molto importante, una pietra miliare in ambito museologico, intitolato "Si contano i visitatori o sono i visitatori che contano?". L'autrice è Eilean Hooper-Greenhill, docente presso il Department of Museum Studies dell'Università di Leicester. In questa prima parte si parla di come un museo può migliorare il proprio rapporto con il pubblico, iniziando ad analizzare non il pubblico effettivo, ma le ragioni per le quali il "pubblico potenziale" non frequenta il museo. Per capirlo, dice La Hooper-Greenhill, "bisogna uscire dalle quattro mura del museo".
 
Il saggio è tratto dal volume "L'industria del museo. Nuovi contenuti, gestione, consumo di massa", a cura di Robert Lumley, edito da Costa & Nolan nel 2005 (versione originale edita nel 1988 da Routledge con il titolo "The Museum Time Machine").
 
"Per molti di coloro che lavorano nei musei, i visitatori sono solo cifre senza volto, piedi da contare mentre oltrepassano la soglia, un male inevitabile dal momento che un museo è, per definizione, un luogo pubblico. E' raro che un museo sappia chi sono i suoi visitatori e perché ci vengono, anche se i direttori sono sempre pronti a snocciolare grandi quantità di "dati sulle presenze". La parola d'ordine sembra essere quantità e non qualità, e nel valutare l'opera svolta da un museo sembra quasi che il peso corporeo delle persone che lo frequentano sia più importante della qualità dell'esperienza che ne ricavano.
Generalmente per visitatori si intendono coloro che vengono a vedere gli oggetti esposti, e solo raramente viene elaborata un'interpretazione più approfondita del concetto di gruppi di utenza. (...)
 
Difficilmente la politica delle comunicazioni di un museo viene elaborata sulla base di una conoscenza dell'utenza complessiva derivata da apposite ricerche. Il museo molto spesso non ha alcun programma in proposito né provvede a definire obiettivi specifici relativi alle strutture predisposte per i visitatori effettivi, per quelli potenziali e per il pubblico più in generale. (...)
 
E' ormai evidente che finora i conservatori dei musei hanno agito sulla base della propria visione del mondo, presumendo che i visitatori condividessero i valori, i criteri e gli interessi intellettuali che li avevano guidati nella scelta e nella presentazione del materiale ed anche, cosa ancor più importante, nella selezione e nell'acquisto degli oggetti. (...)
 
Raramente nel decidere le attività da svolgere si è tenuto conto della necessità, dei desideri o delle opinioni del pubblico. (...)
 
Le indagini sui visitatori dei musei forniscono informazioni soltanto sulle persone che al museo ci vanno. Un museo in cui si registra un calo nel numero di ingressi e che si precipita a fare un sondaggio in realtà si muove nella direzione sbagliata: un'indagine sui visitatori, per quanto approfondita, non potrà mai rivelare le opinioni di coloro che al museo non ci vanno; fornirà dei dati su chi ci va, e se si confrontano tali dati con gli studi sulla popolazione locale, si chiariranno certe lacune, ma per ottenere un quadro più veritiero del perché gli ingressi stanno calando, o meglio, per sapere cosa pensa del museo la gente, è necessario fare uno studio completo della popolazione e intervistare sia quelli che al museo ci vanno sia quelli che non ci mettono piede, e cioè bisogna uscire dalle quattro mura del museo.  
 
(prima parte)

Il caso dell’Art Institute of Chicago: fuori tutti i volontari bianchi dal museo

Fonte dell'immagine: The Federalist Negli Stati Uniti, presso l’Art Institute of Chicago (AIC) si è aperto un caso che potrebbe essere d...