La crisi dei musei

Quando la crisi pandemica terminerà, probabilmente i musei vivranno una seconda crisi, questa volta non sanitaria, ma esistenziale. Negli ultimi sessant’anni circa si è affermato un concetto di museo come luogo di incontro e di superamento dei contrasti, delle differenze e delle esclusioni, per il quale, cioè, era considerata essenziale la capacità di instaurare un buon rapporto con la cittadinanza. Soprattutto nel caso dei musei locali, si è ripetuto all’infinito che se a una parte della cittadinanza è negato il diritto di usufruirne - perché, per esempio, vivono dei disagi profondi, delle situazioni di conflitto, di divisione o di esclusione sociale - il museo, che dovrebbe riflettere l’immagine di quella comunità, ma che vive distante dai suoi problemi, sarà, nella sostanza, incapace di incidere profondamente nella vita della società. «Senza valore sociale il museo è nulla» e «i musei devono esistere per qualcuno, non per qualcosa»- affermava il museologo americano Stephen Weil.
Negli ultimi anni, poi, si è parlato insistentemente di musei democratici, di musei inclusivi, di musei che superano i propri confini fisici e ogni tipo di barriera, soprattutto culturale, per incontrare la gente. Quanti di noi hanno fatto propri i principi della Convenzione di Faro e hanno ammirato, accogliendone i valori, il manifesto dei musei del premio Nobel turco Orhan Pamuk: come resistere all’ideale di un museo che non rappresenta uno stato, una nazione, una società o un determinato periodo storico, ma che, piuttosto, “è capace di rivelare l'umanità degli individui”. Concetti che nella circostanza attuale si sono rivelati molto difficili da mettere in pratica e che, invece, hanno messo a nudo la totale dipendenza dei musei dai poteri centrali. Anziché promuovere il dibattito e favorire il confronto, la maggior parte dei musei si è limitata, nei casi migliori, a prendere atto dell’introduzione del Green pass per l’accesso ai musei e ai luoghi della cultura, nei peggiori, a mostrarsi perfino entusiasta del compito di separare i cittadini “buoni” da quelli “cattivi”, colpevoli quest’ultimi di esprimere dei dubbi sulla legittimità di un’imposizione di questo tipo.
Le associazioni museali italiane tacciono, neppure una iniziativa di dibattito su un tema così scottante e delicato che rischia di cambiare per sempre la percezione che i cittadini avranno dei musei e di annullare decenni di lavoro finalizzati ad accorciare le distanze tra la ristretta comunità accademica e il grande pubblico. Ogni fatica per conquistare ai musei un ruolo più democratico nell’ambito della società, per favorire il coinvolgimento e la partecipazione del pubblico, cercando di far passare il messaggio che i musei non hanno paura del dialogo, del dibattito, della polemica, delle opinioni, ma anzi le sollecita, sta per andare in fumo.
In alcuni casi si è tentato di animare il dibattito sulla questione, ma la risposta di alcuni professionisti museali è stata lo sventolamento orgoglioso del proprio personale Green pass, accompagnato da emoticons sorridenti, quasi fosse un vessillo, un simbolo nazionale, un segno della nuova identità in cui parte della società sembra ora volersi riconoscere.
La domanda, allora, sorge spontanea: le convinzioni tanto amate da molti professionisti museali, basate sulla Convenzione di Faro e sul manifesto di Pamuk, erano state realmente assimilate o era solo un’operazione di marketing? La cultura e i musei sono mai stati veramente liberi dalle influenze politiche o sono stati sempre soggetti all’iper-burocratizzazione centralizzante? Giovanni Pinna scrisse (a proposito degli ecomusei, ma si può estendere il concetto a tutti i musei, soprattutto di natura locale) che “è impensabile che possa essere lasciato alle singole comunità il diritto di gestire autonomamente le proprie memorie storiche sociali. Il processo di controllo politico e sociale è evidente soprattutto nella burocratizzazione delle microstrutture museali locali - denominate spesso erroneamente ecomusei - realizzata attraverso il ricatto economico, imponendo cioè un certo tipo di organizzazione attraverso normative collegate alla erogazione di contributi pubblici”. Solo un’apparente libertà, dunque, che spiega, in parte, come nessun museo si sia posto come prioritario il dovere del dibattito e del confronto, uniformandosi ad una altrettanto schiava informazione pubblica, talmente a senso unico da essere imbarazzante.
Peraltro, è noto che in Europa la stessa spinta all’inclusione sociale è divenuta una delle finalità perseguite dai musei non tanto per una spinta venuta dall’interno del settore museale, ma a seguito della politicizzazione dei musei. Nel Regno Unito, per esempio, a seguito della pressione del governo New Labour, non solo musei e gallerie, ma anche altre istituzioni pubbliche, come gli ospedali, le università e le scuole, furono incoraggiati a considerare l’inclusione sociale come una delle proprie funzioni essenziali. La giornalista e scrittrice Josie Appleton ha descritto tale processo di cambiamento nel Regno Unito (“Museums for the people”, https://www.spiked-online.com/.../08/museums-for-the-people/): “fu così che i musei cominciarono a riorganizzarsi cercando di occuparsi il più possibile delle relazioni con la comunità. Per la Gran Bretagna dei New Labour la parola “inclusione sociale” sembrava essere di gran moda, ma restava comunque un concetto oscuro, non pienamente compreso, che nasceva piuttosto da un’ansia del pericolo di frammentazione sociale e dalla possibilità che potessero esistere individui isolati, senza un proprio scopo nella vita, e che quindi dovevano assolutamente essere aiutati. Laddove esistono persone abbandonate a se stesse è più alto, infatti, il livello di criminalità, più basso il livello culturale e la pratica di attività sportive. In sostanza, si possono creare situazioni o fasce sociali in cui la qualità di vita è molto bassa. Per ovviare a questo inconveniente, il Dipartimento britannico per la Cultura, i Media e lo Sport (DCMS), adottò una strategia che vedeva i musei e le gallerie coinvolti in prima linea nell'impegno sociale, tesi a responsabilizzare le persone nel saper individuare il loro posto nel mondo e nel riuscire a svolgere un ruolo attivo nella società. Il Group for Large Local Authority Museums (GLLAM) sostenne questa strategia, nella convinzione che i progetti di inclusione sociale generino maggiore autostima, fiducia e creatività, contribuendo a sviluppare una vita sociale più attiva e soddisfacente. In quel momento i musei britannici avevano un grande bisogno di auto-giustificare la loro esistenza perché per almeno una decina d’anni erano stati messi sotto processo dalla società per il loro ruolo di “badanti” e per la loro troppo stretta connessione con lo studio e l’interpretazione di “oggetti”, che li aveva tenuti isolati dalla concretezza della vita reale. Le critiche erano state talmente dure che, a destra, l’ex Primo Ministro Margaret Thatcher aveva definito i musei “inutili”, e pertanto aveva cercato di “modernizzarli” e di renderli più “efficienti”, introducendo le logiche del marketing per la loro gestione e per la valutazione dell’efficacia del lavoro svolto. A sinistra, invece, si continuava ad attaccare i musei, considerandoli istituzioni tenute in vita da élite ideologiche che tendevano ad escludere le masse”.
A questo punto, il Dipartimento per la Cultura, i Media e lo Sport dovette affrontare con decisione la crisi di identità dei musei. L’ordine del giorno fu, oltre che rendere esplicita la volontà di politicizzare i musei, il suggerimento di individuare, ogni anno, un tema sociale da mettere in luce e approfondire attraverso mostre o altri eventi di questo tipo.
Durante gli attacchi rivolti alla categoria, molti professionisti museali erano rimasti in silenzio. Forse erano talmente demoralizzati che i progetti di inclusione sociale a quel punto sembravano necessari non solo al pubblico ma soprattutto a se stessi. Grazie a questi progetti, infatti, il personale dei musei cominciò a sentirsi più utile e necessario, e a ritrovare nuove energie. Qualcuno affermò di sentirsi “più connesso”, “più integrato” nell'ambito della comunità, forse più vicino alla realtà di quanto non fosse prima, quando si occupava solo delle collezioni espositive.
Ma questa nuova funzione del museo era realmente un bisogno dei professionisti museali e della società, essendo stata imposta dall'esterno, dopo la demolizione del vecchio modello di museo, e poi attivamente promossa dalle nuove élite museali?
Il punto è: che cosa succede quando i progetti di inclusione sociale diventano parte di un programma di governo? A questo punto non è più il direttore di un museo che autonomamente decide di aumentare l’autostima degli individui della comunità in cui opera, ma le nuove élite museali promuovono questi progetti per veicolare le politiche governative in ambienti per lo più a rischio.
Questo discorso è utile per comprendere che probabilmente i cambiamenti dei musei non sono mai stati tali: è bastato il banco di prova della pandemia per dimostrarlo. I cambiamenti culturali non si possono imporre con un decreto governativo, ma i musei, se fossero stati veramente percepiti come espressione e memoria della collettività, avrebbero trovato in se stessi le motivazioni per una trasformazione più o meno radicale, cercando modelli più adeguati ai tempi ed anche alle nuove esigenze sociali, senza rinunciare alle proprie peculiarità. Abbiamo assistito, invece, alla rinuncia dei musei ad essere soggetti attivi, per diventare solo esecutori.
Sebbene sia chiaro che i direttori dei musei evidentemente non hanno il potere di impedire che venga attuato un provvedimento come il Green pass, tuttavia ciò non vuol dire farsi funzionari obbedienti e perfino devoti, rinunciando ad eseguire uno dei compiti essenziali di cui sono investiti i musei, cioè quello di offrire alla comunità strumenti per esercitare il pensiero critico. Allo stesso tempo, come si è accennato, in questa circostanza è mancato anche il dibattito interno all’ambito museale, il che ha fatto crescere il disorientamento.
Per tornare, quindi, all’incipit di questa riflessione, quando la crisi pandemica sarà terminata, il museo si troverà a doversi confrontare con se stesso, a fare i conti con la propria staticità e distanza dalle comunità. Guardarsi allo specchio non sarà facile perché emergeranno le tante contraddizioni e le debolezze che sono state così impietosamente mostrate alla nostra società e si dovrà rendere conto di ogni discriminazione attuata contro i cittadini e di aver alzato di nuovo quei muri e quelle barriere che tanto ci si vantava di aver abbattuto.


I musei possono influenzare la vita delle persone, ma, proprio perché sono investiti di questo importante compito, se falliscono, tradiscono la società” (D. Fleming).

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