"Il museo di comunità è un processo, piuttosto che un prodotto. E' il risultato dell'integrazione di complessi processi di costituzione della comunità attraverso la riflessione, la conoscenza di sé e la creatività; processi che consolidano l'identità della comunità per legittimare le proprie storie e i propri valori; processi che migliorano la qualità della vita della comunità, attraverso molteplici progetti per il futuro; infine, processi che rafforzano la capacità di azione della comunità attraverso la creazione di reti con comunità simili". Teresa Morales
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L'illusione degli ecomusei
Nel precedente post si è fatto cenno agli ecomusei e al loro particolare legame con la comunità. In questo articolo di Giovanni Pinna, direttore della rivista Nuova Museologia, tratto da n. 30 di Nuova Museologia, Giugno 2014 (www.nuovamuseologia.it), si approfondisce questa tematica evidenziando come spesso i progetti di ecomuseo esistenti si allontanino, invece, dai principi che sono stati formulati dai loro creatori e che, a loro volta, questi concetti - originariamente e nel loro evolversi - non siano mai stati disgiunti da forti ideologie politiche.
Si potrà mai parlare di una cultura veramente libera dalle influenze politiche? Il Modello della Red de Museos Municipales de los pueblos sperimentata in Argentina, può essere una valida alternativa agli ecomusei?
Che cosa
penso degli
ecomusei italiani
In un Paese in cui il potere politico si mantiene attraverso
l’iper-burocratizzazione centralizzante è impensabile che possa essere lasciato
alle singole comunità il diritto di gestire autonomamente le proprie memorie
storiche e sociali. Il processo di controllo politico e sociale è evidente
soprattutto nella burocratizzazione delle microstrutture museali locali - denominate
spesso erroneamente ecomusei - realizzata attraverso il ricatto economico,
imponendo cioè un certo tipo di organizzazione attraverso normative collegate
alla erogazione di contributi pubblici.
Riporto qui di seguito due testi scritti anni addietro nei quali
ponevo l’accento di come la politica di centralizzazione burocratica, attuata
soprattutto a livello regionale, snaturi il ruolo delle comunità e le allontani
dalla gestione del proprio patrimonio, tenda a omogeneizzare la culture locali
e renda così del tutto improponibile il nome di ecomuseo che le amministrazioni
pubbliche si ostinano ad attribuire alle piccole raccolte di me-morie storiche
e sociali locali.
L’ecomuseo
(Estratto da Fondamenti teorici per un museo
di storia naturale, Giovanni Pinna, Jaca Book, Milano, 1997)
Jean
Clair sostiene che le prime idee di quella che diventerà l’ecomuseologia furono
elaborate da Georges Henri Rivière nel 1936, come estensione dell’idea dei
musei del folklore open-air, soprattutto di modello scandinavo, costruiti con
l’intento di conservare le tradizioni popolari, e narra che lo stesso Rivière
mise a punto la teoria dell’ecomuseo agli inizi degli anni Cinquanta, giungendo
alla prima realizzazione pratica negli anni Sessanta.
[...]
Nella mente di George Henri Rivière, di Jean Clair, di Hugues De Varine,
l’ecomuseo doveva essere una struttura con forte incidenza sociale. Essa fu
definita da De Varine “un’istituzione che gestisce, studia, esplora a fini
scientifici, educativi e culturali in genere, il patrimonio globale di una
certa comunità, comprendente la totalità dell’ambiente naturale e culturale di
questa comunità”. Nella concezione originale, l’ecomuseo non era altro che la
musealizzazione attiva del territorio di una comunità urbana o rurale, della
comunità stessa, del suo ambiente naturale e culturale, delle sue tradizioni:
attraverso la musealizzazione attiva, gestita e condotta direttamente dai
membri della comunità, e cioè attraverso l’ecomuseo, strumento di conoscenza e
di studio del territorio, della cultura e delle tradizioni della comunità, la
comunità prendeva coscienza di se stessa, assumendo in proprio la
responsabilità del suo sviluppo.
In
questo senso va la definizione di ecomuseo, teorica e sotto molti aspetti
velleitaria, proposta da Rivière come sintesi di una lunga elaborazione a più
mani.
“Un
ecomuseo è uno strumento che un potere e una popolazione concepiscono,
fabbricano e esplorano assieme. Questo potere, con gli esperti, le agevolazioni,
le risorse che fornisce. Questa popolazione, secondo le proprie aspirazioni,
con le sue culture, con le sue capacità di accesso.
Uno
specchio in cui questa popolazione si guarda, per riconoscersi, in cui essa
cerca la spiegazione del territorio al quale appartiene, assieme a quelle
popolazioni che l’hanno preceduta, nella discontinuità o nella continuità delle
generazioni. Uno specchio che questa popolazione offre ai suoi ospiti, per
farsi meglio comprendere, nel rispetto del suo lavoro, dei suoi comportamenti,
della sua intimità.
Un’espressione
dell’uomo e della natura. L’uomo vi è interpretato nel suo ambiente naturale.
La natura lo è nel suo stato selvaggio, ma anche nella forma in cui la società tradizionale
e la società industriale l’hanno adattata a loro immagine.
Un’espressione
del tempo, quando la spiegazione risale al di qua del tempo in cui l’uomo è
apparso, si svolge attraverso i tempi preistorici e storici che egli ha
vissuto, sbocca nel tempo che egli sta vivendo. Con un’apertura sui tempi di
domani, senza che, tuttavia, l’ecomuseo si ponga come elemento decisionale, ma
all’occorrenza, giochi un ruolo d’informazione e di analisi.
Un’interpretazione
dello spazio. Di spazi privilegiati, ove sostare o passeggiare.
Un
laboratorio, nella misura in cui contribuisce allo studio storico e
contemporaneo di questa popolazione e del suo ambiente e favorisce la
formazione di specialisti in questo settore, in collaborazione con le
organizzazioni di ricerca esterne.
Un
luogo di conservazione, nella misura in cui aiuta alla conservazione e alla
valorizzazione del patrimonio naturale e culturale di questa popolazione.
Una
scuola, nella misura in cui associa questa popolazione alle sue azioni di
studio e di protezione, o nella misura in cui la incita a meglio comprendere i
problemi del suo avvenire.
Questo
laboratorio, questo luogo di conservazione, questa scuola si ispirano a principi
comuni.
La
cultura che essi rivendicano deve intendersi nel suo senso più ampio, e essi si
applicano per farne conoscere la dignità e l’espressione artistica, da
qualsiasi strato della popolazione provengano le rinvendicazioni. La diversità
è senza limite, tanto diversi sono i dati da un campione all’altro. Essi non si
richiudono in se stessi, ma ricevono e danno.”
Questa funzione sociale dell’ecomuseo, di per se stessa lodevole,
sottintendeva però una precisa ideologia politica, e diveniva così, fra la fine
degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, la risposta popolare e progressista
alla museologia borghese delle grandi istituzioni francesi. L’ecomuseo era, di
fatto, sia il popolo stesso, sia lo strumento per il controllo popolare del
territorio, lo strumento per proteggere, e quindi conservare, l’ambiente
naturale, le tradizioni e la cultura di una certa comunità messe in pericolo
dal capitalismo selvaggio e dalla legge del profitto.
Tutto ciò è evidente negli scritti sull’ecomuseo degli anni Settanta.
“Per andare al fondo delle cose – ha scritto per esempio De Varine – si può
concludere che bisogna mettere in discussione il concetto di proprietà
individuale. Certo, il solo istituire un ecomuseo non sopprime il diritto di
proprietà che ogni membro della comunità mantiene. Il diritto di uso e di
godimento resta intatto e non è il caso di utilizzare procedure quali l’esproprio
o la confisca con l’unico pretesto che un individuo possiede un bene di cui
l’ecomuseo ha bisogno! Nondimeno rimane il fatto che dalle considerazioni sul
patrimonio della comunità che precedono deriva l’esistenza di fatto e il riconoscimento
progressivo di un diritto morale della collettività su ciascun elemento del
proprio patrimonio.”
Ma come dovrebbe funzionare un ecomuseo? De Varine, Rivière e gli
altri teorici di questa istituzione hanno formulato tutta una serie di norme,
che, nel loro entrare nei minimi particolari, raggiungono altissime vette
burocratiche. Essi hanno ipotizzato ogni finalità, ogni meccanismo di gestione,
hanno ipotizzato ogni procedura attraverso cui la comunità dovrebbe partecipare
alla gestione dell’ecomuseo. Questa verrebbe affidata a comitati composti da
delegati di gruppi spontanei o delle varie categorie che costituiscono la
comunità, ovvero dai rappresentanti eletti della comunità, affiancati da
tecnici o “consiglieri” che non avrebbero teoricamente il diritto né di
proporre, né di decidere. Questo in teoria! Ma in pratica molti scritti
inducono a pensare che l’ecomuseo non sarebbe in realtà guidato direttamente
dalla comunità, ma, secondo una prassi politica ben consolidata, dall’azione di
tipo missionario dei consiglieri, che diverrebbero così gli strumenti di un
potere superiore per l’indottrinamento della comunità, o, se preferite una
frase meno brutale (ma di identico significato), per convogliare in una precisa
direzione lo sviluppo della comunità stessa.
L’ecomuseo, museo totalizzante, che ingloba e indirizza il pensiero
di ogni individuo della comunità, che espropria moralmente i beni di ciascuno,
condizionandone di fatto l’uso quotidiano, che cristallizza la vita quotidiana
della comunità, appare come un mostro tentacolare in grado di spiare l’intimità
di ogni individuo. Io non so se De Varine, Rivière e gli altri si sono resi
conto di ipotizzare un mostro degno di Orwell, ma mi confortano
due fatti: che l’ecomuseo come da essi ipotizzato non ha avuto molta
fortuna sul piano pratico, e che essi stessi si sono accorti che la critica
maggiore alla loro costruzione teorico-politica è stata che si trattava di pura
utopia: “Una delle critiche che più spesso sono state indirizzate ai
sostenitori dell’ecomuseo – ha scritto De Varine – si riassume in una parola:
utopia. Ciò che dà consistenza a questo attacco è il carattere spesso teorico e
esageratamente ottimista della descrizione dell’istituzione, in confronto alla
relativa mediocrità dei risultati ottenuti fino ad oggi dagli ecomusei
esistenti. Secondo la maggior parte degli osservatori, quello di Landes non è altro
che un museo all’aperto migliorato; quello di Creusot è per essi solo un
amalgama di attività e di esposizioni tradizionali all’interno di una struttura
vaga e solo potenzialmente realizzata.”
L’insuccesso
dell’ecomuseo, il suo trasformarsi di fatto in una struttura museale
tradizionale, come De Varine notava nelle righe precedenti riferendosi alla
Comunità Urbana di Creusot-Mon-ceau-les-Mines, dimostrano non solo la
difficoltà della realizzazione pratica dell’utopia politico-sociale
ecomuseologica, ma anche la forza del museo tradizionale in quanto struttura
delegata dalla comunità alla conservazione del proprio patrimonio e quindi
appartenente alla comunità, anche se non direttamente da essa gestita.
Come ho
affermato con decisione nel corso di questo volume, il museo tradizionale è una
struttura socialmente forte, ed è quindi inevitabile che ogni forma di
partecipazione di una comunità alla gestione del proprio patrimonio si
concretizzi alla fine, prima o poi, in una struttura museale che colleziona,
studia e espone il patrimonio della comunità in modo tradizionale.
Intervento
di Giovanni Pinna, Presidente dell’ICOM Italia, al convegno “Presente e futuro
dell’ecomuseo”
(Sala conferenze IRES Piemonte, Torino, 16
maggio 2003)
Io non
sono uno specialista in ecomusei, sebbene abbia studiato, almeno nelle grandi
linee, la nascita e lo sviluppo del concetto di ecomuseo, dal dibattito che si
era impostato prima del secondo conflitto mondiale, alle teorizzazioni e alle
realizzazioni avvenute soprattutto in Francia fra il 1968 e il 1974, allo sviluppo
quasi contemporaneo di un altro tipo di “ecomuseo”, quei neighborhood
museums il cui modello principale rimane ancora il centro creato da John
Kinard nel 1967 nel quartiere di Anacostia a Washington.
Vorrei però ricordare in questa occasione che in un certo qual modo
io stesso sono stato un precursore dell’ecomuseologia italiana, quando, da
conservatore del Museo di Storia Naturale di Milano, fui sollecitato dai
cittadini del paese di Besano a costruire con loro nel loro villaggio un piccolo
museo dei fossili. Il villaggio di Besano, situato in provincia di Varese non
lontano dalle sponde meridionali del Lago di Lugano, è noto perché nel suo
territorio montuoso si apre un celebre giacimento paleontologico. Come
documentai in un articolo apparso sulla rivista “Museum” nel 1976 (Création
d’un musée des fossiles. Besano. Une initiative de la population, Museum, vol.
28, Paris, 1976), all’inizio degli anni Settanta i cittadini di Besano si erano
convinti dell’importanza di quel giacimento, e vollero quindi che un piccolo museo
fosse costruito nel loro villaggio. Questa semplice operazione museale condusse
alla nascita di un vero e proprio ecomuseo, per il fatto che i cittadini non
solo costruirono e iniziarono a gestire il loro museo, ma in qualche misura
furono i promotori di nuove ricerche sul giacimento. Essi si offrirono
volontari per riprendere gli scavi paleontologici e per difendere la zona dagli
scavatori abusivi, impadronendosi così di un patrimonio culturale del loro
territorio che per la prima volta sentirono veramente proprio. Il risultato è
che il museo – oggi divenuto assai più ampio – è ancora aperto al pubblico e
costituisce un punto di richiamo per visite turistiche e scolastiche, mentre
gli scavi procedono ancora, fornendo ogni anno alla scienza materiali fossili
di grande importanza[1]. L’interesse
che alcune amministrazioni pubbliche italiane dimostrano nei confronti di
istituzioni museali locali, cui viene attribuito il nome di ecomusei, e che in
linea generale sembra concretizzarsi nella ricerca di un’organizzazione “a rete
o a sistema” di tali istituzioni e di una normativa che determini la struttura
organizzativa delle singole entità museali, fa sorgere in me due interrogativi:
• è possibile che ecomusei, e cioè
microstrutture museali che dovrebbero nascere spontaneamente dalla volontà
delle comunità locali ed essere gestiti direttamente da queste comunità, senza
intermediari, vengano organizzate da strutture politico-amministrative che
prevedono una centralizzazione dei poteri decisionali, regioni, comunità
montane o province?
• è possibile che l’attività di questi
ecomusei venga in qualche modo normata attraverso l’adozione di standard
museali validi per tutti, dal momento che una loro caratteristica dovrebbe
essere la diversità nei contenuti e nella gestione? Il concetto di ecomuseo è strettamente
collegato alle idee di territorio e di identità, nel senso che l’ecomuseo è per
una comunità il luogo della sua memoria, è il luogo in cui questa memoria viene
conservata e interpretata dalla comunità stessa, senza intermediari. Se questo
è l’ecomuseo, allora è chiaro che la diversità è una sua caratteristica
intrinseca, e che l’organizzazione di un insieme di ecomusei di una data regione
in un sistema creato, anche se non imposto, da un potere centrale non può non
influire sulla diversità e quindi sulla natura e sul significato stesso
dell’ecomuseo. L’organizzazione in sistema delle strutture museali da parte
delle amministrazioni pubbliche è un’azione assai delicata, poiché rischia di
scivolare verso la creazione di strutture di gestione autocratiche. Basta solo
che la partecipazione a una rete organizzata (e normata) da un ente pubblico
preveda per i partecipanti l’accesso a finanziamenti pubblici per creare le
premesse per una centralizzazione del sistema decisionale.
Nella
stessa direzione va l’ipotesi di proporre anche per gli ecomusei, come è stato
fatto per la generalità dei musei italiani, standard di organizzazione e di
gestione. Che lo si voglia o no, l’imposizione di standard conduce
inevitabilmente alla omogeneizzazione, che contrasta con l’idea stessa di
ecomuseo, in quanto organismo legato alle intime realtà territoriali. Ciò
soprattutto se gli standard proposti non si limitano a suggerire le necessità
primarie di un museo, ma entrano nell’intimo di ogni porzione
dell’organizzazione della struttura museale e suggeriscono, o impongono, le
azioni di gestione nei minimi dettagli. Questo è, a mio parere, il principale
difetto degli ormai famosi “Atti di indirizzo” che costituiscono un pregevole
trattatello di museologia, ma che non sono, come pretendono di essere, standard
applicabili.
Analizzando
per conto del governo delle Asturie il problema delle reti e dei sistemi
museali (Redes y sistemas museisticos, introduzione al progetto della rete dei
musei delle Asturie, maggio 2002), ho potuto notare come la tendenza delle
amministrazioni vada verso la creazione di “sistemi” nei quali il potere
decisionale non rimane ai singoli partecipanti al sistema, ma viene assunto
dall’ente organizzatore del sistema. Sebbene venga dichiarato che tali sistemi
di musei sono realizzati per l’ottimizzazione delle risorse (che si realizza
per esempio con il mettere in comune alcuni servizi), in realtà nella maggior
parte dei casi essi corrispondono a una logica di potere e di controllo, o
vengono creati per sviluppare politiche culturali o per controllare interessi
territoriali (sempre in campo politico-culturale).
Infine un’ultima annotazione sul delicato rapporto fra
identità e alterità. L’ecomuseo è lo scrigno e la forgia della memoria di una
comunità, e come tale è il luogo di conservazione della sua identità. Gli ecomusei
tendono quindi, per loro stessa natura, a enfatizzare le identità delle
comunità, un processo che include la consapevolezza della “diversità”, e il
confronto con “l’altro”, colui che non condivide la mia stessa identità
comunitaria. In questo senso gli ecomusei possono essere strumenti di
esclusione e veicoli di rifiuto. E anche potenti strumenti politici, come ci
insegna la gestione degli Heimatmuseen tedeschi negli anni del nazismo. Anche
per questo seguo con apprensione la crescita di interesse di alcune
amministrazioni pubbliche per i micro-musei locali e le ampie risorse che su di
essi vengono riversate, e ricordo che André Desvallées ha scritto, parlando di
quelli che egli chiama “musei di identità”, che essi “non devono mostrare mai
le differenze senza mostrare anche le somiglianze” (1994).
[1]
L’affidamento della gestione del museo a un’impresa commerciale dopo la metà
degli anni Novanta ha trasformato lo spirito e la natura del museo allontanando
così i cittadini di Besano dal museo e sottraendo loro il possesso morale del
patrimonio.
Un museo tutto nuovo
Riflessione sull’importanza dell’innovazione in ambito museale. Il ruolo
fondamentale della divulgazione per una percezione più corretta del mondo
museale
di Caterina Pisu (Archeonews, settembre 2012)
di Caterina Pisu (Archeonews, settembre 2012)
Nel numero di Nemo, la newsletter del Network of
European Museum Organisations, del febbraio 2009, Massimo Negri ha analizzato
l’importanza del rinnovamento dei musei nell’ambito di un percorso di
miglioramento continuo. Questo processo ha caratterizzato notevolmente
l’evoluzione dei musei in ambito occidentale e soprattutto in Europa, dove
oltre il 50% risale a un periodo precedente la seconda guerra mondiale. Gli
anni del dopoguerra, pertanto, hanno visto la maggioranza dei musei modificarsi,
“svecchiare” i propri allestimenti, adottare nuove strategie museologiche e
museografiche, aprirsi alle forme di comunicazione più innovative, ovviamente
tenendo presenti i ritardi che hanno penalizzato alcuni Paesi più di altri, o
determinati musei rispetto ad altri. Secondo Negri, oggigiorno non siamo certo
di fronte all’immagine del “museo polveroso” che tuttavia sembra ancora voler
rimanere radicata nell’immaginario collettivo. Non si può negare che ancora
esistano esempi di musei ancorati ai modelli ottocenteschi ma, in generale, i
musei moderni si sono molto evoluti e si può affermare che siano il risultato
della portata e dell’effetto di alcuni eventi che sono da considerarsi vere pietre
miliari nella storia degli studi museologici/museografici: dall’affermazione
dei Science Centers (che certamente più di altre categorie museali hanno incentivato
l’interazione con il pubblico) al boom dell’archeologia industriale che tanto
ha concorso alla nascita di teorie innovative in ambito museologico (ricordiamo
il fondatore dell’archeologia industriale, Kenneth Hudson, uno dei maggiori
museologi europei), senza dimenticare lo sviluppo del concetto di “ecomuseo” -
teorizzato dai museologi George Henry Rivière e Hugues de Varine - o di “museo
senza collezione”, che ha completamente rielaborato l’archetipo del museo
tradizionale ed ha rafforzato la “vocazione sociale” dei musei.
L’innovazione, quindi, in quanto sviluppo essenziale
per qualsiasi organizzazione che voglia mantenere alti gli standard di qualità,
ha avuto un progresso costante in questi ultimi trent’anni, suscitando ampi
dibattiti, soprattutto in relazione a quelle che possono essere le difficoltà che
i musei hanno incontrato lungo questo percorso. Negri ha isolato dieci temi
centrali che più frequentemente hanno animato la discussione sull’innovazione
in ambito museale e che, in molti casi, sono rimasti tuttora problemi in attesa
di soluzioni:
1. la difficile coesistenza del vecchio con il nuovo, uno
dei problemi legati all’innovazione ambienti obsoleti, come possono essere le
grandi istituzioni museali del mondo occidentale;
2. le sfide architettoniche: le trasformazioni dello
spazio architettonico museale, che tanto hanno caratterizzato l’epoca
contemporanea, possono interferire con il messaggio che il museo intende
trasmettere e, in ogni caso, lo condizionano?
3. in che modo
tali trasformazioni possono coniugarsi con il miglioramento del
comfort del visitatore, una questione che coinvolge
necessariamente il processo di rinnovamento del museo e il suo rapporto con il
pubblico?
4. il museo come palcoscenico di un teatro, in
cui gli “attori” interagiscono con i visitatori in un modo
totalmente nuovo;
5. la presenza intrigante di robot, avatar, talking
heads, ecc. in ambito museale.
6. il ruolo cruciale svolto dagli schermi; un nemico invadente nell’ambiente museale?
7. la rivoluzione del wireless;
fino a che punto è possibile plasmare
il comportamento dei visitatori
e la loro percezione del museo durante l’esperienza
di visita?
8. la proliferazione di dispositivi di orientamento, sempre più conformi alla
crescente segmentazione del pubblico,
può rendere la vita dei visitatori
più facile o più complicata?
9. la
sperimentazione dell'accesso del pubblico, in varie forme e
modalità, nell’organizzazione e nella gestione delle collezioni museali;
10. il dilemma dei vari modi di interpretazione
dell’esperienza museale: saper bilanciare il compito informativo e quello evocativo.
Le
dieci tematiche riassunte da Negri possono apparire nuove e forse insolite per
i non specialisti che sono indotti, soprattutto dai media, a limitare le
problematiche inerenti il mondo dei musei quasi esclusivamente alla necessità
di attrarre visitatori e di far quadrare i bilanci, temi che sono senza dubbio
importanti ma non centrali. In realtà, come si è appena dimostrato, la
discussione in ambito museologico è ampia e diversificata e pone sempre al
centro dei propri interessi il visitatore e il contesto urbano e territoriale
in cui i musei operano. Ma se l’impulso al rinnovamento da parte dei musei è
poco percepito all’esterno e continua ad imporsi l’immagine del “museo
polveroso”, non sarà utile, ma soprattutto necessario, far sì che il dibattito
interno sia maggiormente divulgato e che non si continuino a mostrare solo gli
aspetti ritenuti “notiziabili” dai media? Se, come recita un noto proverbio orientale “fa più rumore
un albero che cade piuttosto che una foresta che cresce”, ecco
che i lettori saranno più impressionati dai musei che chiudono i battenti
piuttosto che dai musei che si innovano, ma solo perché di questi ultimi si
parla poco e, soprattutto, non si conoscono bene o non si comprendono gli
impulsi teorici che sono all’origine di tali cambiamenti. Questo, dunque, è
l’undicesimo punto che mi permetto di aggiungere all’elenco stilato da Negri e
che ritengo ugualmente fondamentale per il processo di rinnovamento dei musei:
la comprensione critica del dibattito museologico da parte dei “comunicatori” (giornalisti
tradizionali, comunicatori telematici, ecc.) e la corretta divulgazione al
pubblico, da parte di questi, di un’immagine dei musei più aderente alla realtà.
I musei si aprono al territorio
Gli ecomusei come “radici del futuro” per la valorizzazione del patrimonio culturale e lo sviluppo dell’economia locale
Negli ultimi trent’anni il concetto di museo si è gradualmente trasformato, allontanandosi dal modello di museo statico, racchiuso entro le mura di un edificio, per avvicinarsi al concetto di un museo dinamico, espanso, legato al territorio e all’identità culturale locale: gli ecomusei.
Antesignana della creazione degli ecomusei in Europa è stata la Francia, grazie a un’idea dei museologi francesi Georges-Henri Rivière e Hugues de Varine tra gli anni ’50 e ’60, nell’ambito delle teorie che animavano la Nouvelle Muséologie e che tendevano, appunto, ad un museo aperto all’esterno, non più legato esclusivamente al recupero del passato ma attento ad “incrementare il senso del presente” (Francesca Muzzillo).
In seguito, durante gli anni ’70, gli eco-musei si sono estesi, oltre che sul territorio francese, anche in molti altri paesi europei ed extraeuropei.
La Carta Internazionale degli Ecomusei definisce l’ecomuseo “un’istituzione culturale che assicura in forma permanente, su un determinato territorio e con la partecipazione della popolazione, le funzioni di ricerca, conservazione, valorizzazione di un insieme di beni naturali e culturali, rappresentativi di un ambiente e dei modi di vita che vi si sono succeduti”. Lo stesso Hugues de Varine ha specificato ancora meglio il concetto, evidenziando il ruolo fondamentale della comunità e slegando definitivamente il patrimonio culturale dall’idea di museo-contenitore: l’ecomuseo “è un’azione portata avanti da una comunità, a partire dal suo patrimonio, per il suo sviluppo. L’ecomuseo è quindi un progetto sociale, poi ha un contenuto culturale e infine s’appoggia su delle culture popolari e sulle conoscenze scientifiche. Quello che non è: una collezione, una trappola per turisti, una struttura aristocratica, un museo delle belle arti etc. Un ecomuseo che sviluppa una collezione importante e ne fa il suo obbiettivo non è più un ecomuseo, poiché diventa schiavo della sua collezione” (“Piccolo dialogo con Hugues de Varine sugli ecomusei”, http://terraceleste.wordpress.com/).
Questa definizione esprime la vera rivoluzione introdotta dagli ecomusei che, se ben disciplinata, può portare enormi vantaggi non solo per la valorizzazione del patrimonio archeologico, etnografico, artistico, architettonico e naturalistico, ma anche per l’economia di un territorio, a partire dal turismo, dalla salvaguardia dell’artigianato e delle tradizioni locali, per arrivare alla rivalutazione degli stessi musei locali di tipo tradizionale, inseriti nel sistema degli ecomusei, e alla valorizzazione delle aree archeologiche e naturalistiche, dei musei all’aperto e di ogni altra forma di musealizzazione del patrimonio locale.
A differenza degli enti museali con una gestione “centralizzata”, in certo qual modo gli ecomusei partono dal basso, cioè sono creati dalla stessa comunità di appartenenza e mostrano una forte connotazione identitaria. Secondo Hugues de Varine gli ecomusei rappresentano le “radici del futuro”, ovvero le possibilità di sviluppo per le nuove generazioni, legate alla vita e alla ricchezza collettiva. La cultura, le tradizioni, il paesaggio, diventano, così, un’importante fonte di progresso per la comunità.
Il concetto di ecomuseo è strettamente collegato a quello del paesaggio. Se giuridicamente l’accezione della valenza del paesaggio quale realtà etico-culturale non è usuale, se ne trova una descrizione puntuale nella Convenzione Europea del Paesaggio, sottoscritta il 20 ottobre del 2000, a Firenze, da un Comitato di Ministri della Cultura e dell’Ambiente di ventisette Stati europei. Nel documento si delinea il concetto di paesaggio, inteso come “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle persone, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni” (Convenzione Europea del Paesaggio, traduzione non ufficiale, Articolo 1). Nel preambolo, inoltre, si legge che “il paesaggio coopera all'elaborazione delle culture locali e rappresenta una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell'Europa, contribuendo così al benessere e alla soddisfazione degli esseri umani e al consolidamento dell'identità europea”. L’Art. 5 esprime l’impegno a “riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità”. E’ ben chiaro, quindi, il riferimento al paesaggio come facente parte del patrimonio culturale e, pertanto, tornando alla definizione di ecomuseo inizialmente formulata, si può affermare che l’ecomuseo rappresenta uno strumento essenziale per attuare quanto espresso e raccomandato dalla Convenzione Europea del Paesaggio.
Una ricerca del 1999 di Peter Davis ha calcolato non meno di 166 ecomusei in 25 paesi. Oggi, l’Osservatorio degli Ecomusei (osservatorioecomusei.net), che dispone dell’archivio on-line più completo del mondo, ne ha recensiti 400 fra operativi e in cantiere. In Italia, la concentrazione maggiore si registra in Lombardia e in Piemonte. Possiamo dire che oggi il nostro Paese è all’avanguardia in questo settore con una organizzazione ampia e riconosciuta a livello regionale e provinciale; fenomeno, per esempio, non riscontrabile in Francia che, pur essendo terra di origine degli ecomusei, tende ancora a privilegiare e a consolidare i musei di tipo tradizionale.
Certamente l’Italia, rispetto ad altri paesi, può vantare un’incredibile ricchezza e varietà di testimonianze culturali profondamente radicate nei territori e distribuite in modo così capillare da dare impulso quasi spontaneamente a questa forma di musealizzazione. Ciò spiega il notevole incremento degli ecomusei registrato in Italia questi ultimi anni, molti dei quali sono anche già in rete (una lista completa degli ecomusei e dei siti web loro dedicati può essere consultata su www.ecomusei.net).
La possibilità di creare un collegamento tra le varie manifestazioni della cultura locale, cioè l’attuazione di un sistema di raccordo che ne faciliti la conoscenza e la fruizione, prospetta un modello di investimento nel proprio territorio che coinvolge molti soggetti: regioni, province, enti locali, associazioni, fondazioni. Il gestore dell’ecomuseo, infatti, può essere non solo un soggetto pubblico ma anche un soggetto privato; sono poi le varie leggi regionali che specificano quale conformazione giuridica può essere prevista per il soggetto gestore. Un’apertura al privato in questo caso non sarebbe in alcun modo negativa, in quanto faciliterebbe il contributo diretto di soggetti non pubblici in una logica di effettiva cultura della partecipazione. Oltre alle associazioni e alle fondazioni, negli ultimi anni si sta considerando una terza forma giuridica, rappresentata dalle Fondazioni di partecipazione. Si tratta di un istituto senza scopo di lucro, a metà tra l’associazione e la fondazione, cui è possibile iscriversi sia contribuendo finanziariamente o con la donazione di beni materiali, sia mettendo a disposizione professionalità o servizi. A differenza delle fondazioni, possono entrare nuovi membri anche successivamente alla sua costituzione e ciò la rende uno strumento molto più flessibile e più simile alle associazioni. In pratica la Fondazione di partecipazione è il frutto dell’interpretazione giuridica tesa ad innestare l’impianto della fondazione nella dinamicità associativa. Tale soluzione permetterebbe meglio di altre la collaborazione tra pubblico e privato, introducendo alcuni importanti vantaggi nella gestione, come l’autonomia (soprattutto da eventi di natura politica che spesso condizionano le pubbliche amministrazioni) e l’efficienza operativa, dato il concorso di varie professionalità. Chiaramente, il rapporto tra la comunità locale di riferimento e la Regione/Provincia autonoma, rappresenta sempre il livello organizzativo principale, mentre il rapporto tra gli enti pubblici ed il gestore del progetto costituisce il secondo livello.
Il rapporto tra Regione/Provincia autonoma e soggetto gestore è di norma regolato da un accordo o da una convenzione. Quasi sempre è richiesta espressamente la presenza di un soggetto responsabile del progetto e l’utilizzo di personale competente. Notevole importanza è data alla figura del Direttore dell’ecomuseo che dovrà essere in possesso di requisiti tecnici adeguati allo svolgimento del suo ruolo, in grado di coordinare e dirigere tutti i soggetti di diritto pubblico e privato che partecipano al progetto (dal 2004 la Regione Toscana considera la figura del direttore obbligatoria nei musei anche per accedere ai contributi regionali e statali).
Per il resto è garantita l’autonomia dei soggetti partecipanti, data l’eterogeneità dei progetti ecomuseali, legati a realtà culturali e territoriali molto diverse tra loro, difficili da ricondurre a ben definiti modelli standardizzati, anche se una proposta di classificazione, in realtà, è stata avanzata da Andrea Del Duca in occasione dell’Incontro Nazionale Ecomusei, (Biella 9-12 ottobre 2003); essa si basa sulla suddivisione degli ecomusei in quattro principali modelli organizzativi a seconda che gli ecomusei siano più o meno strutturati oppure che siano a carattere spontaneistico e, inoltre, a seconda che siano dotati di personale specifico per il progetto ecomuseale, con una organizzazione autonoma che coinvolga varie realtà culturali locali o, invece, di personale già impiegato per altri compiti.
In ogni caso, qualunque siano le caratteristiche dell’ecomuseo, è fondamentale che la sua realizzazione e la sua gestione prevedano sempre “la partecipazione della popolazione che trova in esso uno strumento di presa di coscienza ed espressione del suo patrimonio culturale e del suo sviluppo…” (Georges Henri Rivière).
Le modalità di questa partecipazione si potranno definire di volta in volta in base alle esigenze e alle peculiarità del territorio, per esempio anche attraverso il prezioso apporto del volontariato che in Italia vanta una tradizione esistente dalla fine del XIX secolo. Fra le varie organizzazioni sono da citare il Gruppo Archeologico Romano (GAR, 1963), l’Archeoclub d’Italia (1971), il Fondo Ambiente Italiano (FAI, 1975), l’Associazione dimore storiche (1977), gli Amici dei Musei (FIDAM, 1975), Italia Nostra (1955), Legambiente (1980), WWF (1966) e Touring Club (1894) che da molti anni operano con successo in tutto il territorio nazionale e il cui ruolo come supporto nella gestione degli ecomusei potrà essere sempre più significativo.
Caterina Pisu, ArcheoNews (settembre 2010)
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