Arrivederci a Massa Marittima!
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Personal blogs sui musei: quanti se ne possono contare in Italia?
Ho iniziato una ricerca sui blog che abbiano come tema
principale i musei. Non mi riferisco, però, né ai blog istituzionali dei musei
né ai blog di associazioni ed organizzazioni, ma ai blog personali.
Da una prima indagine sul web, mi
risulta che sia la prima categoria che la seconda siano decisamente più “affollate”
rispetto alla terza, sebbene non si possa dire che sia un genere di blog molto
diffuso se confrontato con altre tematiche culturali. Alcuni musei faticano
ancora a gestire blog e account social, mentre le associazioni e le
organizzazioni talvolta preferiscono optare per un sito web che richiede
aggiornamenti meno frequenti rispetto ai blog e agli account social.
Ho stilato innanzitutto un elenco dei blog
appartenenti ad associazioni e organizzazioni che sono riuscita a reperire sul
web con una rapida ricerca. Si tratta, pertanto, dei blog più visibili sui
motori di ricerca. Vi sono compresi anche i blog delle associazioni di amici
dei musei che spesso svolgono un grande lavoro di promozione dei musei cui sono
dedicati e sono più efficaci dei siti istituzionali in termini di diffusione di
informazioni e notizie.
Nell’elenco è inserito anche il
blog piccolimusei.blogspot.it che, in realtà, è un ibrido perché è a metà
strada tra un blog di organizzazione (nel caso specifico dell’Associazione
Nazionale Piccoli Musei) e un blog personale (essendo curato esclusivamente dal
Prof. Giancarlo Dall’Ara).
Blog di
organizzazioni
Di seguito, i blog appartenenti
alla seconda categoria, ovvero i blog istituzionali dei musei. Come è
preavvisato, si tratta di una ricerca appena iniziata, per cui l’elenco è
parziale.
Questi sono i blog che compaiono con più facilità sui motori di
ricerca:
Blog di istituzioni museali
Infine, la terza categoria, quella
dei blog personali, su cui intendo svolgere la mia ricerca. Come si può
osservare, sono riuscita a reperire un numero esiguo di link e tra questi ho
forse forzatamente inserito anche alcuni blog che non sono incentrati
esclusivamente sui musei, sebbene trattino saltuariamente questo argomento,
come, per esempio, il blog di Giuliano Volpe e “Michelangelo Buonarroti è tornato”.
Blog personali
…e naturalmente…il mio blog!
Se qualcuno dei miei lettori volesse cortesemente
aiutarmi in questa ricerca, gliene sarò molto grata.
Inviatemi i link dei blog
personali che conoscete, permettendomi di aggiornare l’elenco e di poter, al
termine, scrivere un’analisi sulla presenza di personal blog incentrati innanzitutto
sui musei e poi su museologia, museografia, mostre e temi affini.
Grazie di
cuore per la collaborazione!
Tutti mecenati per amore della cultura
Volete che il vostro nome compaia
nel catalogo della mostra “Il giovane Salvator Rosa. Gli inizi di un grande maestro del ‘600 europeo”?
Potete avere questa soddisfazione con una erogazione
di appena 10 euro ma, soprattutto, avrete il grande merito di aver dato una mano
al settore della cultura e non è poco in tempi così difficili.
La possibilità di trasformarci
tutti in piccoli mecenati è data dal progetto “Innamorati della cultura”, una
piattaforma di crowdfunding ideata e prodotta da Emanuela Negro-Ferrero e Lorenzo
Pennacchioni . Si tratta di una Start Up incubata presso l’acceleratore “Rinascimenti Sociali” di Torino, hub dedicato alle imprese sociali.
La mostra di cui sopra sarà
realizzata presso il Museo Correale di Terranova, Sorrento per i 400 anni della nascita
del grande artista del ‘600. Per realizzarla sono necessari 15.ooo Euro. Si
vorrebbe aprirla dal 7 novembre 2015 al 7 gennaio 2016 e conterrà una
quindicina di opere ad olio provenienti da collezioni pubbliche e private fra
le quali alcune che non sono mai state mostrate al pubblico. Sarà creata anche
una sezione di disegni dell’artista.
La mostra sarà curata da Viviana
Farina con la consulenza scientifica di Stefan Albl (Biblioteca Hertziana,
Roma), Catherine Loisel (Musée du Louvre, Parigi), Caterina Volpi (Università
della Sapienza, Roma) e Nicholas Turner (già British Museum, Londra e Getty
Museum, Los Angeles).
Grazie alle donazioni sarà
possibile:
- trasportare le opere al Museo;
- stipulare la polizza
assicurativa;
- allestire una piccola sezione
temporanea al secondo piano del Museo;
- pubblicare il catalogo della
mostra;
- promuovere la mostra e dare
visibilità al Museo Correale.
Si può partire con un cifra
minima di 10 Euro fino al contributo di 1.000 e, in base all’importo, si avrà
diritto a differenti omaggi. Per esempio, i sostenitori che verseranno 1.000
Euro, il massimo previsto, avranno in omaggio un ritratto a mezzo busto 50x70
cm ad olio in stile Seicento realizzato dall'artista Goshaa; inoltre saranno loro
offerti: una serata cocktail, una visita guidata con la curatrice, il catalogo
della mostra, il poster del quadro immagine della mostra, la pubblicazione del
proprio nome nel catalogo e l’ingresso al Museo e alla mostra.
Per ulteriori informazioni e per effettuare una donazione, visitare la pagina dedicata.
Musei senza identità
Riporto qui l’intervista a Jean
Clair: "I manager sono la rovina dei musei", pubblicata su Repubblica
lo scorso 21 agosto, il quale si esprime a proposito della Riforma Franceschini
e della cultura del marketing che si sta affermando sempre di più nel settore
dei musei. “Ho paura che la riforma” –
afferma lo storico e critico d’arte francese – “non rispetti l'identità di un
museo, la specificità della cultura locale che vi è custodita e che va tutelata.
(…) Un direttore di un museo non deve fare grandi mostre, ma far conoscere il
patrimonio spirituale di una nazione”.
Jean Clair è lo pseudonimo
dello storico e critico d'arte francese Gérard Régnier (n. Parigi 1940).
Laureatosi alla Sorbona di Parigi, ha studiato alla Harvard University e presso
la National Gallery di Ottawa. A Parigi è stato conservatore al Musée national
d'art moderne (dal 1982) e redattore capo dei Cahiers del museo, da lui fondati
nel 1978; dal 1989 direttore del Musée Picasso. Direttore del settore arti
visive della Biennale di Venezia dal 1994, ne ha diretto la 46ª edizione
(1995); dal 2008 è membro dell'Académie française. Ha redatto monografie di
artisti contemporanei (Bonnard, 1975; Marcel Duchamp ou le grand fictif, 1975,
trad. it. 1979; Delvaux, 1975) e ha curato numerose mostre, tra le quali Last
paradise: symbolist Europe (1995) e Cosmos (1999-2000). Ha pubblicato vivaci
scritti polemici e critici sull'arte contemporanea, sulla teoria dell'arte e
sul ruolo delle istituzioni: Considérations sur l'état des beaux-arts (1983;
trad. it. Critica della
modernità, 1984); Le nu et la norme: Klimt et Picasso en 1907 (1988); Méduse:
contribution à une anthropologie des arts du visuel (1989; trad. it. 1992); La
responsabilité de l'artiste: les avant-gardes entre Terreur et Raison (1997;
trad. it. 1998); La barbarie ordinaire (2001); si segnalano, inoltre, le
raccolte di saggi Éloge du visible: fondements imaginaires de la
science/">science (1996); Malinconia. Motifs saturniens dans l'art de
l'entre-deux guerres (1996); Le voyageur égoïste (1999); De immundo (2004);
Lait noir de l'aube (2007); Malaise dans les musée (2007); Journal atrabilaire
(2008); Zoran Music: apprendre à regarder la mort comme un soleil (con C.
Juliet e I. Barbarigo, 2009); L'hiver de la culture (2011); Dialogue avec les
morts (2011).
(Biografia tratta da
Enciclopedia Treccani)
Immagine tratta da http://www.lefigaro.fr/ |
In questi giorni Jean Clair è a
Venezia, in giro con la moglie per calli e mostre. Vent'anni fa curò una
Biennale dedicata al volto e al corpo umano, ma oggi è deluso. Non gli
piacciono le esposizioni affollate di turisti e quando gli si chiede di commentare
la nuova riforma dei musei, all'inizio sembra possibilista, ma poi di fronte
all'idea di una nuova figura di direttore-manager si accalora:
"Un direttore di un museo non deve fare grandi mostre, ma far
conoscere il patrimonio spirituale di una nazione. È la fine. L'arte ha perso
ogni significato".
L'argomento lo appassiona. Risale
ormai a qualche anno fa un suo saggio intitolato "La crisi dei
musei", mentre nel più recente "L'inverno della cultura" ha
disseminato pagine durissime contro i musei-luna park ridotti a magazzini di
opere preziose. Per il grande critico e storico dell'arte, il sistema museale è
ormai asservito alla logica mercantile, come qualsiasi altro prodotto. Nel suo
ultimo libro, intitolato Hybris. La fabbrica del mostro nell'arte moderna (Johan
& Levy), studia la morfologia dell'arte moderna, le sue deformazioni
morbose, il suo progressivo allontanamento dalla bellezza. Il fatto che Jean
Clair sia stato anche direttore del Centre Pompidou e del museo Picasso, lo
spinge a guardare con curiosità a quanto sta accadendo nel nostro paese.
Che cosa non la convince nella
riforma italiana dei musei?
"Prima di tutto ho paura che non si rispetti l'identità di un
museo, la specificità della cultura locale che vi è custodita e che va
tutelata".
Un direttore straniero potrebbe
essere inadatto a questo compito?
"Un direttore di un museo deve per prima cosa essere un critico e
uno storico dell'arte. Da questo punto di vista, scorrendo la lista dei nomi
selezionati, mi pare che ci siano professionalità di rilievo. Conosco Sylvain
Bellenger, che a Capodimonte farà un ottimo lavoro. Ma il problema è un altro.
È un problema spirituale e culturale più ampio. Si stanno trasformando i musei
in fondi bancari, in macchine finanziarie, hedge fund specializzati in
speculazioni. Non abbiamo più idea di che cosa sia l'arte, di quale sia il suo
compito".
Non pensa sia anacronistico
tentare di arginare l'internazionalizzazione della cultura?
"Sono curioso di vedere cosa accadrà in Italia. Il fatto che molti
dei prescelti siano stranieri è in sé un fatto positivo, se non fosse che
dovranno operare dentro musei ridotti a macchine per incassare soldi. Io stesso
prima di essere nominato al Beaubourg e al museo Picasso ho studiato in
America. Ricordo il sorriso del direttore del Louvre quando decisi di partire.
Mi disse: "Che vai a fare in America?" Non lo ascoltai. Sono rimasto
ad Harvard tre anni. Era il 1966. Da lì sono poi andato in Canada, al museo
nazionale".
Nei suoi scritti ha però
attaccato più volte il sistema museale contemporaneo. Mercato e cultura sono
forze antagoniste?
"Molti musei sono in mano a mercanti senza cultura. Il compito di
un museo dovrebbe invece essere educare e dilettare. Il direttore dovrebbe
preoccuparsi di tutelare il patrimonio d'arte che gli è affidato senza
venderlo. Prenda l'idea di portare il Louvre ad Abu Dhabi. Una follia".
Crede si arriverà a questo anche
in Italia?
"Ho l'impressione che tra un po' di tempo ci sarà l'esigenza di
mettere sul mercato qualche opera per rimpinguare le casse della
macchina-museo. Nel 2006, Françoise Cachin, che è stata la prima donna a essere
eletta direttrice dei musei di Francia, scrisse un articolo contro l'idea di
vendere i musei e venne allontanata dal suo incarico. Invece aveva ragione. Le
opere d'arte sono ormai ridotte a merce senza qualità, senza identità".
Immagino che l'idea di affittare
un museo per eventi privati non le piaccia affatto...
"L'idea del neo direttore tedesco degli Uffizi, Eike Schmidt, di
dare in affitto delle stanze della galleria segna l'inizio della fine. O
piuttosto la continuazione di una decadenza della quale lui stesso sarà il
responsabile finale".
Lei ha guidato grandi musei. Ora
ai direttori si richiede di essere anche dei manager. Quali possono essere dal
suo punto di vista le conseguenze di un tale cambiamento?
"Guardi cosa succede al Centre Pompidou, dove si è chiusa da poco
una retrospettiva dedicata a Jeff Koons. La mostra è stata appaltata a privati.
Duemila metri quadrati di esposizione per mettere in scena una buffoneria. Una
buffoneria che prende però autorevolezza dalle collezioni del Beaubourg, che
sono il vero patrimonio del museo, come l'oro conservato nei caveau delle
banche. Sono Cézanne e Picasso a dare valore a Koons. I musei sono utilizzati
come riserve auree per dar credito a operazioni di manipolazione finanziaria,
forniscono quel deposito che dà pregio alle proposte del mercato privato.
Quella di Koons è chiaramente un'operazione fraudolenta, un falso, una bolla
speculativa. È quanto accade quando si preferiscono direttori manager. Come nel
caso di Alain Seban, alla guida del Pompidou".
Ma per far funzionare il sistema
museale servono soldi, dove trovarli?
"Il costo per mantenere un museo è ridicolo rispetto a quello
della sanità o dei trasporti".
Al centro della riforma c'è
l'idea di "valorizzazione"? Le piace?
"È un termine delle banche. Si valorizzano i soldi non le opere
d'arte. Leggo che nei musei si apriranno ristoranti e bookshop. C'è bisogno di
un manager per aprire un ristorante?"
Ha visitato la Biennale Arte?
"Tantissimi padiglioni da tutto il mondo, tutti uguali. Sono a
Venezia da qualche settimana e quello che vedo mi spaventa. I musei sono molto
frequentati, come le spiagge, ma non sono più frequentabili".
Come ridare significato all'arte?
"L'opera d'arte non significa più nulla, è autoreferenziale, un
selfie perpetuo. I jihadisti dell'Is hanno decapitato l'archeologo Khaled
Asaad. Da una parte abbiamo paesi che credono nell'arte al punto da uccidere e
dall'altra pure operazioni di mercato".
Meglio tornare al passato?
"Non è possibile. Viviamo nel tempo dell'arte cloaca. Il museo è
il punto finale di un'evoluzione sociale e culturale. È una catastrofe senza
precedenti. Il crollo della nostra civiltà".
Lo sharing fotografico è vera comunicazione?
Un’analisi del fenomeno delle Invasioni Digitali in vista del convegno “Digital
Think-In. La voce digitale dei musei”
Il prossimo 4 novembre si
svolgerà, a Roma, il convegno “DigitalThink-In. La voce digitale dei musei”, organizzato dal MAXXI, che si
annuncia come “il primo evento di cultura digitale rivolta ai musei in Italia”.
Tra i partecipanti al convegno,
per il quale è aperta anche una #DITcall
per la presentazione di casi studio inerenti il tema in oggetto, vi saranno James
Davis, Program Manager di Google Art Project (Londra), Antonella Di Lazzaro,
Direttore Media Twitter Italia (Milano), Conxa Rodà, Head of Strategy and
Communication – Museu Nacional d’Art de Catalunya (Barcellona), Gruppo MUD Museo
Digitale, MiBACT (Roma) e Prisca Cupellini, Comunicazione Online e Progetti
Digitali, MAXXI (Roma), Francesco Russo, Consulente Web e blogger, Marianna
Marcucci, Cofounder di Invasioni Digitali e Alessandro Bollo, Cofounder e
responsabile ricerca della Fondazione Fitzcarraldo.
Il movimento Invasioni Digitali,
dunque, è ancora una volta presente in un convegno in cui si discute di
comunicazione digitale, ma il fenomeno Invasioni non è stato ancora oggetto di
analisi approfondite da parte degli esperti. Siamo realmente di fronte ad un
modello di comunicazione digitale? Tenterò di argomentare la mia personale opinione
al riguardo.
Media tradizionali e media digitali
Rispetto alla comunicazione
mediatica tradizionale, nella forma digitale si verifica il passaggio dalle
relazioni lineari a quelle reticolari; il messaggio può essere veicolato
attraverso vari ambienti digitali (sito Web, comunità virtuali), ma l’aspetto
più importante della comunicazione digitale - e che la differenzia da quella
tradizionale - è soprattutto la presenza di un dialogo interattivo tra gli
utenti, basato sulla condivisione e la partecipazione. Senza che si verifichi
questa condizione non è possibile ravvisare una effettiva diversità tra le due
forme di comunicazione.
Se si analizza più nel dettaglio
l’ultima Invasione Digitale, dal punto di vista della comunicazione social si rilevano
poche interazioni effettivamente incentrate sui contenuti e solo un cospicuo numero di immagini (soprattutto le locandine
che pubblicizzano gli eventi e le foto di “Invasione compiuta”): quindi le Invasioni sono sì avvenute ma non sono state sufficientemente raccontate durante il loro svolgimento.
Durante alcune manifestazioni speciali non dichiaratamente “digitali” (pur
avendo ugualmente una notevole propagazione sui social e su altri media) come
le Giornate Europee del Patrimonio o altre iniziative similari, i musei hanno
sempre dato vita ad iniziative interessanti con grande successo di pubblico; da
cosa si dovrebbero distinguere, dunque, le Invasioni Digitali da queste manifestazioni
speciali?
La coerenza vorrebbe che fosse
una maggiore partecipazione “social” all’evento: ciò, infatti, è l’aspetto
determinante in una manifestazione che si auto-definisce “digitale”. In termini
molto semplici, ciascuno dei partecipanti dovrebbe essere la vista e l’udito di
chi non è presente all’evento ma che verrà coinvolto come se lo fosse; dovrebbe
mettere in rete le proprie sensazioni, esprimendo le emozioni e i pensieri che
emergeranno dalla sua esperienza culturale e condividerla con altre persone,
intessendo un dialogo con esse. Se la comunicazione consiste, invece, nella
semplice informazione del luogo, data e ora che riguardano l’evento, in qualche
breve nota descrittiva, in un grande numero di immagini poco commentate e,
infine, nella notifica di “Invasione compiuta”, non si potrà parlare di vera comunicazione
digitale. Nella maggioranza dei casi, infatti, come si è rilevato, l’interazione
non è stata significativa soprattutto in termini di contenuti e non sono stati
incoraggiati né live storytelling (pochi i casi) né altre forme di
comunicazione partecipata. “Raccontare” gli eventi, dunque, è ciò che dovrebbe fare
la differenza[1]. Scrive
Tomaso Montanari che “Il patrimonio è un
grande repertorio, proprio come il teatro o la musica: se nessuno lo esegue – e
cioè se nessuno lo narra, facendolo risorgere – rimane inerte, morto, perduto”.
Inoltre, la stessa
sovrapproduzione di immagini produce effetti negativi in quanto rende il
pubblico meno sensibile e attento ai dettagli.
Insieme alla perdita di
attenzione per le foto e per i soggetti delle foto, si rischia di banalizzare e
di disperdere nell’eccesso di immagini anche gli “sfondi” di questi selfie che
sono i musei e tutti gli altri luoghi di interesse storico e monumentale. Le
foto, dunque, e tanto più i selfie, non possono essere considerati dei veri e
propri contenuti se non sono adeguatamente didascalizzati e commentati a meno
che non possiedano l’eloquenza visiva delle opere di grandi fotografi come
Robert Capa. Ma per la maggioranza di noi non è così. Giustamente uno dei più
noti fotografi italiani, Ferdinando Scianna, ci ricorda che “nessuno segue con interesse chi sta
continuamente in posa”.
Un contesto che non produce
contenuti, non perché le iniziative che pubblicizzano non siano valide, ma
perché è mancato l’impegno nel trovare adeguate forme di trasferimento delle
informazioni che vadano oltre lo sharing fotografico, non porterà alcun tipo di
beneficio nemmeno al soggetto culturale che avrebbe dovuto promuovere.
Scrive, a questo proposito,
Valentina Vacca:
Per #InvasioniDigitali il pubblico non è più tale, ma è «partecipativo all’offerta culturale». Nel loro manifesto essi proclamano di credere: «in un nuovo rapporto fra il museo e il visitatore basato sulla partecipazione di quest’ultimo alla produzione, creazione e valorizzazione della cultura attraverso la condivisione di dati e immagini. Crediamo nella semplificazione delle norme per l'accesso e riuso dei dati dei Beni Culturali per incentivarne la digitalizzazione. Crediamo in nuove forme di conversazione e divulgazione del patrimonio artistico non più autoritarie, conservatrici, ma aperte, libere, accoglienti ed innovative». Per tradurre tali parole, è sufficiente compiere un’esplorazione nel sito dedicato alle #InvasioniDigitali: al suo interno si trovano una serie di selfie scattati entro musei e luoghi della cultura che hanno come soggetti i visitatori. E’ come se “invadere” –come loro stessi definiscono la visita da parte del pubblico i musei, i monumenti e in generale i luoghi della cultura e poi caricare una foto su internet, equivalga in automatico a trasmettere la conoscenza. Come se digitalizzare la cultura coincida con il mero, semplicistico quanto banale processo di sharing delle immagini delle opere d’arte, delle performance, dei beni immobili. Che sia proprio come disse Baudrillard (1995), ossia che «la maggioranza silente ricerca l’immagine e non il significato».
Il fatto che a prevalere siano
più l’apparenza, più il volume della partecipazione e meno il contenuto, mi è
stato in qualche modo dimostrato, in occasione della recente Social Media Week,
dalla community manager di un museo, la quale ad una mia osservazione riguardo
il fatto che le Invasioni Digitali non sono uno strumento di diffusione culturale
vero e proprio, replicò che “a loro
bastava veder entrare la gente nel museo”: ciò equivale a dichiarare che l’unico
scopo che si vuole perseguire è quello di “conteggiare” il numero di
visitatori. Sono convinta che questo pensiero non sia quello che
contraddistingue tutte le istituzioni museali che hanno aderito in questi anni
ad Invasioni Digitali, ma in ogni caso è indicativo che questa iniziativa abbia potuto generare in alcune persone un tale tipo di ragionamento, supportato dall'errato
concetto, troppo spesso avallato dai media, che sia più rilevante la
quantificazione degli ingressi piuttosto che la misurazione dell’efficacia
delle proposte culturali offerte dai musei. E’ fondamentale, allora, che i
musei assumano il ruolo di mediatori tra i fabbricanti della comunicazione
digitale e la società, ma per farlo non devono restare essi stessi imprigionati
dalle logiche del “Viral Style” e da ogni forma di estremismo
della comunicazione digitale; devono aprirsi, invece, a più ragionate e originali forme di
condivisione di contenuti e di partecipazione culturale, anche attraverso il Web
2.0.
La strategia comunicativa delle Invasioni Digitali
Inizialmente le Invasioni
Digitali avevano focalizzato molta della loro attenzione intorno al problema
del divieto di fotografare nei musei, poi superato dal Decreto Legge 31 maggio
2014, n. 83. Fu creato un manifesto che mise insieme diversi concetti relativi
al rapporto tra il museo e il visitatore, all’utilizzo dei social media per la
comunicazione culturale, alla libera circolazione delle idee ed altri ancora.
Ad una attenta lettura di tale manifesto si ha l’impressione che siano state
toccate troppo tematiche, talvolta in modo ripetitivo e anche slegate tra loro,
perfino contradditorie: per esempio si richiede alle istituzioni di essere “piattaforme aperte di divulgazione, scambio
e produzione di valore, in grado di consentire una comunicazione attiva con il
proprio pubblico”, il che implica anche avere un ruolo di coordinamento e
di controllo dei contenuti, e nello stesso tempo si reclamano “forme di conversazione e divulgazione del
patrimonio artistico non più autoritarie”, riducendo, quindi, il ruolo guida
dell’istituzione museale, determinato dalla sua autorevolezza scientifica e da
cui non si può prescindere. Non è riscontrabile alcuna elaborazione personale dei
concetti esposti nel manifesto, i quali vengono solo elencati ma non sviluppati
e commentati.
Ancora nel manifesto di Invasioni
Digitali non si chiarisce in che modo “Internet
sia in grado di innescare nuove modalità di gestione, conservazione, tutela,
comunicazione e valorizzazione delle nostre risorse”, come se Internet
fosse di per sé capace di produrre questi cambiamenti e più di quanto non abbia
fatto sessant’anni fa la televisione, per esempio, unificando culturalmente
l’Italia e combattendo l’analfabetismo. L’enfatizzazione della comunicazione Web
2.0 non è utile a dimostrarne l’efficacia in ambito culturale. In realtà, i
media - che siano di vecchia o di nuova generazione - sono validi solo in base
all’uso che se ne fa, come giustamente rilevano Pier Cesare Rivoltella e Chiara
Marazzi secondo i quali “non esistono
media di serie A e di serie B[2]”
in quanto la comunicazione dell’età digitale li include necessariamente tutti.
Sono in atto delle trasformazioni cui ci stiamo gradualmente abituando e che
vede i vecchi e nuovi media integrarsi al punto che si può parlare “di mediamorfosi, di remediation, di era
della complementarietà”[3].
E’ vero, inoltre, che l’accesso ad
Internet ci regala più semplici e immediati strumenti di espressione
individuale, ma forse non si sottolinea abbastanza che ci sono ancora limitazioni
al suo uso, identificabili in ragioni di tipo economico, culturale, anagrafico
o sociale, come pure ci sono posizioni ideologiche che determinano il rifiuto
dell’uso dei social network. Chi si occupa di strategie di comunicazione,
pertanto, deve considerare il contesto digitale con adeguato equilibrio, senza
esaltarlo ma senza trascurarlo, perché “non essere connessi” non significa “non
esistere” e dunque bisogna porsi l’obiettivo di raggiungere anche chi si trova al
di fuori del mondo digitale.
Quando, invece, nel manifesto di Invasioni
Digitali si legge: “Crediamo che internet
ed i social media siano una grande opportunità per la comunicazione culturale,
un modo per coinvolgere nuovi soggetti, abbattere ogni tipo di barriere, e
favorire ulteriormente la creazione, la condivisione, la diffusione e
valorizzazione del nostro patrimonio artistico” si descrive in modo
semplicistico una situazione che presenta, come già detto, aspetti molto più
complessi.
La strategia principale di
Invasioni Digitali può essere equiparata, allora, piuttosto alla messa in atto
di un Brand Identification System in cui principalmente si enfatizza la
partecipazione all’evento e nel contempo si cerca di dare all’insieme il valore
di un “movimento di pensiero” ma senza alcun tipo di ricerca teorica. I
partecipanti sono considerati sempre come un corpo unitario, senza mettere in
risalto le specifiche personalità e individualità che lo compongono: non è il
messaggio dei singoli partecipanti a prevalere, ma il “brand”, quasi come se si
trattasse di “marketing virale”. Tenendo ancora presente il confronto con le
strategie del marketing pubblicitario, si nota, per esempio, un grande utilizzo
di slogan (“We love this game”, “Veniamo in pace”, ecc.,) che, unitamente alla costante
esposizione del logo Invasione Digitale, hanno lo scopo di favorire il brand engagement. Inoltre, nelle linee
guida per i partecipanti di Invasioni Digitali si raccomanda di seguire alcune
azioni prestabilite: non mi riferisco alle regole pratiche che sono necessarie
in qualsiasi tipo di manifestazione che comporti una procedura di adesione da
parte del pubblico, ma alla richiesta di svolgere precise azioni nel corso dei
propri eventi, producendo, in tal modo, un eccesso di massificazione e una
diminuzione dello spazio riservato alla creatività dei singoli. Si chiede, infatti,
di utilizzare il cartello “Invasione compiuta” in cui deve campeggiare il logo
di Invasioni Digitali e, in aggiunta, di stampare, sempre dal sito di Invasioni
Digitali, una “maschera” predeterminata, che gli Invasori dovranno indossare o
comunque mostrare nei propri selfie. Queste richieste contribuiscono a
“spersonalizzare” le iniziative, aumentando il valore del “brand” a scapito dei
messaggi che i promotori e i partecipanti dei singoli eventi avrebbero potuto essi
stessi veicolare in modo più originale e soggettivo. L’idea della maschera mi
pare, a questo proposito, quanto mai emblematica: una maschera, il simbolo
delle Invasioni Digitali, si sovrappone al volto dell’”Invasore” e al monumento
stesso, occupando una posizione preminente rispetto all’uno e all’altro.
Avendo voluto sperimentare le prime due Invasioni Digitali, posso affermare con cognizione di causa che la sensazione avuta è stata quella di essermi trasformata in uno strumento al servizio di un movimento che mi lasciava poco spazio per agire con modalità mie proprie. Fotografarsi con un cartello in mano recante il logo dell’organizzazione non è propriamente un’azione esaltante dal punto di vista intellettuale.
Ma forse è inevitabile che anche
nel settore culturale prendano forma tali fenomeni considerando che Erich Fromm,
già quarant’anni fa profetizzava una società uniformata e dominata dai modelli
della comunicazione pubblicitaria[4].
Il rischio, però, è che si perda “il
senso profondo di ciò che facciamo dal momento che non siamo propriamente noi a
farlo; il nostro agire non è espressione della nostra autentica personalità ma
è determinato dai dettami della massa a cui “dobbiamo” prestare ascolto e a cui
dobbiamo sacrificarci essendovi continuamente esposti[5]”.
Fino a due anni fa, eravamo
ancora in una fase in cui le istituzioni museali si mostravano in buona parte
diffidenti e poco propense ad utilizzare i mezzi di comunicazione digitale, in
particolare i social network; dopo la prima edizione della Museum Week[6],
nel marzo 2014, si è assistito ad un incremento considerevole di account
istituzionali dei musei, per cui ora siamo entrati in una seconda fase in cui sembra
prevalere l’entusiasmo per un nuovo modo di rapportarsi con il pubblico. Questo
può essere sicuramente un fatto positivo ma l’impressione è che si stia
formando un’immagine distorta della missione del museo che sembra debba
costruire la sua “modernizzazione” solo con il concorso di queste nuove forme
di comunicazione, mentre il vero museo moderno è soprattutto quello che sa
riconoscere i bisogni della propria comunità, che è in grado di analizzare le
problematiche dei tempi attuali e che sa offrire un luogo di scambio e di
dialogo a ciascuno, senza alcun tipo di
barriera.
L’auspicio è che si giunga a
coniugare in modo corretto ed equilibrato l’uso degli strumenti della
comunicazione digitale con i principi dettati dalla nostra coscienza
umanistica, quella che “funge da
sentinella, richiamo, segnale, bussola di orientamento, guida, custode del
nostro vero essere, della nostra natura umana universale e della soggettività
del nostro Io[7]”.
[1]
In un post del 30 aprile 2015 del mio blog Museums Newspaper, citai UrbanExperience come esempio eccellente ed evoluto di disseminazione partecipata
della cultura utilizzando gli strumenti del Web 2.0
[2]
Rivoltella P. C., Marazzi C., “Le
professioni della media education”, Roma 2001, p. 22
[3]
Totaro A., “Dinamiche di interrelazione
tra blogosfera e mediasfera” in C.I.R.S.D.I.G, Centro Interuniversitario
per le ricerche sulla Sociologia del Diritto e delle Istituzioni Giuridiche,
Quaderni della Sezione: Diritto e Comunicazioni Sociali, Working Paper n. 29, Dipartimento
di Economia, Statistica, Matematica e Sociologia “Pareto”, Facoltà di Scienze
Politiche, Università di Messina, 2008, p. 5
[4]
Cerracchio C., “La manipolazione. Bernays
e gli psicomarchettari”, Società & Psiche, 9 novembre 2012, http://www.psicologiaradio.it/2012/11/09/la-manipolazione-delle-masse-bernays-e-gli-psicomarchettari/
[5]
Lattanzi P., “La società malata.
L’umanesimo di Erich Fromm tra Marx e Freud”, e-book, 2015, p. 137
[6]
La Museum Week è stata lanciata la prima volta nel marzo del 2014 da dodici
musei nazionali francesi in collaborazione con Twitter France. In seguito
l’iniziativa social si è diffusa su scala europea, con la partecipazione di
svariati musei non solo europei. L’obiettivo dell’evento è quello di accedere attraverso
Twitter a contenuti culturali proposti dai musei per poi interagire con i
curatori.
[7]
Risari G., “Coscienza umanistica,
identità, ‘produttività’ e biofilia” in Erich Fromm, Publication of the
International Erich Fromm Society, Italian-English conference “Death and the
Love for Life in Psychoanalysis. In Memoriam Romano Biancoli“ on June 5-6,
Ravenna 2010
In attesa del Sesto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei
Mancano 32 giorni al Sesto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei, il momento più atteso per tutti coloro
che seguono l’attività dell’APM perché si tratta di una delle poche occasioni in
Italia in cui si pone l’attenzione sulle realtà “minori” e “periferiche” del
patrimonio museale nazionale.
Si parla, però, non di un ambito minoritario, ma del
90% circa dei musei italiani; per questa ragione ci sorprende che di essi si
discuta così poco: forse la causa è da individuarsi nel fatto che le politiche
culturali sono in genere più orientate verso quelle istituzioni museali che meglio
rispondono al bisogno di valorizzazione piuttosto che di tutela, di grandi numeri
anziché di conservazione dei patrimoni locali. Allora forse noi siamo in
controtendenza ma nonostante questo i nostri convegni attirano ogni anno un gran numero di uditori, fatto che dimostra che in realtà l’interesse intorno ai piccoli musei è molto alto.
Il nostro convegno è un’occasione
di reciproco scambio perché non solo si discute di tematiche che riguardano la
gestione dei piccoli musei, ma perché si cerca anche di dare voce a chi vi lavora. Conoscere questi che
spesso definisco “casi studio” ma che forse sarebbe più corretto indicare come “storie
di persone e di comunità”, sempre coinvolgenti e sorprendenti, è essenziale per
comprendere la necessità di preservare questi luoghi, importanti non
per il numero di visitatori ma soprattutto per la loro missione culturale e
sociale.
Gli esempi sono i più svariati:
negli anni passati sono state presentate le esperienze di musei statali,
regionali, civici, privati, gestiti da fondazioni e da associazioni;
musei dislocati tanto in piccole città quanto in grandi centri. Il concetto di “piccolo
museo” può essere applicato in molti casi e proprio su questo tema si sta
svolgendo, ormai da due anni, una ricerca interna all’APM che condurrà alla
definizione formale di “piccolo museo” e che potrà essere un punto di riferimento
per gli studi futuri in questo ambito.
“Grazie per i piccoli musei!” ha
scritto un ex direttore di un piccolo museo americano, Frederick A. Johnsen, sul
sito Museumerica. Si riferiva alla sua visita del Baker Heritage Museum,
commentando così il suo entusiasmo: “Il
Baker Heritage Museum esemplifica la gioia dei musei, puri e semplici. Le sue esposizioni e i diorami sono la prova che apprendimento e divertimento si
possono trovare anche nei piccoli musei delle più piccole comunità. La mia
visita mi ha ricordato di non trascurare musei come questo durante i miei
viaggi attraverso il Paese”.
E’ lo stesso invito che anche noi
dell’APM rivolgiamo a tutti coloro che ci seguono: non trascuriamo questi
piccoli luoghi culturali perché molto spesso ci riservano emozioni ed
esperienze non inferiori a quelle dei musei più noti e frequentati.
Vi aspettiamo a Massa Marittima,
Palazzo dell’Abbondanza, il 2 ottobre dalle ore 15 e il 3 ottobre dalle 9.30.
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