Visualizzazione post con etichetta Jean Clair. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Jean Clair. Mostra tutti i post

Musei senza identità

Riporto qui l’intervista a Jean Clair: "I manager sono la rovina dei musei", pubblicata su Repubblica lo scorso 21 agosto, il quale si esprime a proposito della Riforma Franceschini e della cultura del marketing che si sta affermando sempre di più nel settore dei musei.  “Ho paura che la riforma” – afferma lo storico e critico d’arte francese – “non rispetti l'identità di un museo, la specificità della cultura locale che vi è custodita e che va tutelata. (…) Un direttore di un museo non deve fare grandi mostre, ma far conoscere il patrimonio spirituale di una nazione”.


Jean Clair è lo pseudonimo dello storico e critico d'arte francese Gérard Régnier (n. Parigi 1940). Laureatosi alla Sorbona di Parigi, ha studiato alla Harvard University e presso la National Gallery di Ottawa. A Parigi è stato conservatore al Musée national d'art moderne (dal 1982) e redattore capo dei Cahiers del museo, da lui fondati nel 1978; dal 1989 direttore del Musée Picasso. Direttore del settore arti visive della Biennale di Venezia dal 1994, ne ha diretto la 46ª edizione (1995); dal 2008 è membro dell'Académie française. Ha redatto monografie di artisti contemporanei (Bonnard, 1975; Marcel Duchamp ou le grand fictif, 1975, trad. it. 1979; Delvaux, 1975) e ha curato numerose mostre, tra le quali Last paradise: symbolist Europe (1995) e Cosmos (1999-2000). Ha pubblicato vivaci scritti polemici e critici sull'arte contemporanea, sulla teoria dell'arte e sul ruolo delle istituzioni: Considérations sur l'état des beaux-arts (1983; trad. it. Critica della modernità, 1984); Le nu et la norme: Klimt et Picasso en 1907 (1988); Méduse: contribution à une anthropologie des arts du visuel (1989; trad. it. 1992); La responsabilité de l'artiste: les avant-gardes entre Terreur et Raison (1997; trad. it. 1998); La barbarie ordinaire (2001); si segnalano, inoltre, le raccolte di saggi Éloge du visible: fondements imaginaires de la science/">science (1996); Malinconia. Motifs saturniens dans l'art de l'entre-deux guerres (1996); Le voyageur égoïste (1999); De immundo (2004); Lait noir de l'aube (2007); Malaise dans les musée (2007); Journal atrabilaire (2008); Zoran Music: apprendre à regarder la mort comme un soleil (con C. Juliet e I. Barbarigo, 2009); L'hiver de la culture (2011); Dialogue avec les morts (2011).

(Biografia tratta da Enciclopedia Treccani)

Immagine tratta da http://www.lefigaro.fr/


Di seguito, l'intervista realizzata da Raffaella De Santis: 

In questi giorni Jean Clair è a Venezia, in giro con la moglie per calli e mostre. Vent'anni fa curò una Biennale dedicata al volto e al corpo umano, ma oggi è deluso. Non gli piacciono le esposizioni affollate di turisti e quando gli si chiede di commentare la nuova riforma dei musei, all'inizio sembra possibilista, ma poi di fronte all'idea di una nuova figura di direttore-manager si accalora:

"Un direttore di un museo non deve fare grandi mostre, ma far conoscere il patrimonio spirituale di una nazione. È la fine. L'arte ha perso ogni significato".

L'argomento lo appassiona. Risale ormai a qualche anno fa un suo saggio intitolato "La crisi dei musei", mentre nel più recente "L'inverno della cultura" ha disseminato pagine durissime contro i musei-luna park ridotti a magazzini di opere preziose. Per il grande critico e storico dell'arte, il sistema museale è ormai asservito alla logica mercantile, come qualsiasi altro prodotto. Nel suo ultimo libro, intitolato Hybris. La fabbrica del mostro nell'arte moderna (Johan & Levy), studia la morfologia dell'arte moderna, le sue deformazioni morbose, il suo progressivo allontanamento dalla bellezza. Il fatto che Jean Clair sia stato anche direttore del Centre Pompidou e del museo Picasso, lo spinge a guardare con curiosità a quanto sta accadendo nel nostro paese.

Che cosa non la convince nella riforma italiana dei musei?
"Prima di tutto ho paura che non si rispetti l'identità di un museo, la specificità della cultura locale che vi è custodita e che va tutelata".

Un direttore straniero potrebbe essere inadatto a questo compito?
"Un direttore di un museo deve per prima cosa essere un critico e uno storico dell'arte. Da questo punto di vista, scorrendo la lista dei nomi selezionati, mi pare che ci siano professionalità di rilievo. Conosco Sylvain Bellenger, che a Capodimonte farà un ottimo lavoro. Ma il problema è un altro. È un problema spirituale e culturale più ampio. Si stanno trasformando i musei in fondi bancari, in macchine finanziarie, hedge fund specializzati in speculazioni. Non abbiamo più idea di che cosa sia l'arte, di quale sia il suo compito".

Non pensa sia anacronistico tentare di arginare l'internazionalizzazione della cultura?
"Sono curioso di vedere cosa accadrà in Italia. Il fatto che molti dei prescelti siano stranieri è in sé un fatto positivo, se non fosse che dovranno operare dentro musei ridotti a macchine per incassare soldi. Io stesso prima di essere nominato al Beaubourg e al museo Picasso ho studiato in America. Ricordo il sorriso del direttore del Louvre quando decisi di partire. Mi disse: "Che vai a fare in America?" Non lo ascoltai. Sono rimasto ad Harvard tre anni. Era il 1966. Da lì sono poi andato in Canada, al museo nazionale".

Nei suoi scritti ha però attaccato più volte il sistema museale contemporaneo. Mercato e cultura sono forze antagoniste?
"Molti musei sono in mano a mercanti senza cultura. Il compito di un museo dovrebbe invece essere educare e dilettare. Il direttore dovrebbe preoccuparsi di tutelare il patrimonio d'arte che gli è affidato senza venderlo. Prenda l'idea di portare il Louvre ad Abu Dhabi. Una follia".

Crede si arriverà a questo anche in Italia?
"Ho l'impressione che tra un po' di tempo ci sarà l'esigenza di mettere sul mercato qualche opera per rimpinguare le casse della macchina-museo. Nel 2006, Françoise Cachin, che è stata la prima donna a essere eletta direttrice dei musei di Francia, scrisse un articolo contro l'idea di vendere i musei e venne allontanata dal suo incarico. Invece aveva ragione. Le opere d'arte sono ormai ridotte a merce senza qualità, senza identità".

Immagino che l'idea di affittare un museo per eventi privati non le piaccia affatto...
"L'idea del neo direttore tedesco degli Uffizi, Eike Schmidt, di dare in affitto delle stanze della galleria segna l'inizio della fine. O piuttosto la continuazione di una decadenza della quale lui stesso sarà il responsabile finale".

Lei ha guidato grandi musei. Ora ai direttori si richiede di essere anche dei manager. Quali possono essere dal suo punto di vista le conseguenze di un tale cambiamento?
"Guardi cosa succede al Centre Pompidou, dove si è chiusa da poco una retrospettiva dedicata a Jeff Koons. La mostra è stata appaltata a privati. Duemila metri quadrati di esposizione per mettere in scena una buffoneria. Una buffoneria che prende però autorevolezza dalle collezioni del Beaubourg, che sono il vero patrimonio del museo, come l'oro conservato nei caveau delle banche. Sono Cézanne e Picasso a dare valore a Koons. I musei sono utilizzati come riserve auree per dar credito a operazioni di manipolazione finanziaria, forniscono quel deposito che dà pregio alle proposte del mercato privato. Quella di Koons è chiaramente un'operazione fraudolenta, un falso, una bolla speculativa. È quanto accade quando si preferiscono direttori manager. Come nel caso di Alain Seban, alla guida del Pompidou".

Ma per far funzionare il sistema museale servono soldi, dove trovarli?
"Il costo per mantenere un museo è ridicolo rispetto a quello della sanità o dei trasporti".

Al centro della riforma c'è l'idea di "valorizzazione"? Le piace?
"È un termine delle banche. Si valorizzano i soldi non le opere d'arte. Leggo che nei musei si apriranno ristoranti e bookshop. C'è bisogno di un manager per aprire un ristorante?"

Ha visitato la Biennale Arte?
"Tantissimi padiglioni da tutto il mondo, tutti uguali. Sono a Venezia da qualche settimana e quello che vedo mi spaventa. I musei sono molto frequentati, come le spiagge, ma non sono più frequentabili".

Come ridare significato all'arte?
"L'opera d'arte non significa più nulla, è autoreferenziale, un selfie perpetuo. I jihadisti dell'Is hanno decapitato l'archeologo Khaled Asaad. Da una parte abbiamo paesi che credono nell'arte al punto da uccidere e dall'altra pure operazioni di mercato".

Meglio tornare al passato?

"Non è possibile. Viviamo nel tempo dell'arte cloaca. Il museo è il punto finale di un'evoluzione sociale e culturale. È una catastrofe senza precedenti. Il crollo della nostra civiltà".

La battaglia di François Cachin

Il ricordo della grande museologa e storica dell’arte recentemente scomparsa e le sue preoccupazioni per il futuro dei musei francesi

Lo scorso 4 febbraio la Francia ha perso una figura di spicco dell’ambito museale, Madame François Cachin, spentasi a Parigi dopo una lunga malattia. Nata nel 1936, il nonno paterno era Marcel Cachin (fondatore, nel 1920, del Partito Comunista Francese e direttore dell’organo di stampa del partito, L'Humanité, dal 1918 al 1958), mentre il nonno materno, da cui ereditò l’interesse per l’arte, era il pittore Paul Signac (il creatore con George Seurat del movimento pittorico del Puntinismo e del Divisionismo). Allieva del grande storico dell’arte André Chastel, la Cachin iniziò la sua carriera nei più importanti musei di Parigi, diventando curatrice del Musée national d'Art Moderne, del Palais de Tokyo e del Centre Georges Pompidou. Successivamente lavorò alla progettazione e all’allestimento del Musée d'Orsay, dal 1978 al 1986, di cui fu anche manager fino al 1994. Dopo aver organizzato importanti mostre su Van Gogh, Gauguin, Seurat e altri artisti, e curato cataloghi che sono diventati pietre miliari della storia dell’arte, fu nominata Direttore dei Musei di Francia, prima donna a ricoprire tale carica e che mantenne fino al 2001, anno del suo pensionamento. Nonostante avesse ormai lasciato il suo incarico al Ministero della Cultura, non rimase inattiva e la morte l’ha colta mentre preparava una mostra dedicata a Manet, uno dei suoi artisti preferiti, che sarà inaugurata in aprile presso il Musée d'Orsay (Manet, inventore del Moderno, 5 aprile – 3 luglio 2011). Il ministro della Cultura, Renaud Donnedieu de Vabres, la estromise dalla Commissione per gli acquisti dei musei nazionali e dalla presidenza di Frame (French Regional & American Museum Exchange) a causa delle sue nette prese di posizione contro la politica culturale del governo francese. Questa esclusione le procurò un grande dolore. Tradizionalista inflessibile, la Cachin, infatti, contrastò apertamente la mercificazione del patrimonio museale, e fu co-autrice, nel dicembre del 2006, di un articolo pubblicato su Le Monde, insieme agli illustri storici dell’arte Jean Clair e Roland Recht, “Les musées ne sont pas à vendre (contro il progetto di apertura del Louvre di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, e del Louvre di Atlanta, in Georgia), un vero e proprio articolo-manifesto che rappresenta, ora, oltre che il punto di vista di buona parte della comunità dei professionisti museali francesi, anche una sorta di testamento intellettuale della Cachin. In quell’articolo del 2006, si ribadiva l’importanza che i musei francesi continuassero a ricevere il supporto finanziario dello Stato e degli enti locali, a garanzia di una gestione libera e avulsa da pressioni di tipo commerciale. Cachin, Clair e Recht in quel discusso articolo posero l’accento sulla differenza tra il sistema museale statunitense, fondato quasi interamente sul finanziamento privato (tranne il museo nazionale di Washington) e il sistema museale francese, nel quale, nonostante l’approvazione delle recenti norme a favore del mecenatismo (favorito da sgravi fiscali concessi alle aziende e ai privati che finanziano i musei per l’acquisto di nuove opere d’arte o che fanno donazioni), il ruolo di servizio pubblico dei musei è ancora centrale.  Rispetto agli americani, pionieri delle esportazioni a pagamento delle proprie collezioni museali in tutto il mondo e che si vantano della loro politica di "entertainment business", il mondo museale europeo può vantare, invece, una lunga tradizione nella valorizzazione e nella cura delle proprie collezioni e nella promozione del ruolo educativo delle istituzioni museali; esso, inoltre – ribadiscono Cachin, Clair e Recht - si è autoregolamentato, assumendo un proprio codice etico formulato e ufficializzato dall’ICOM (International Council of Museums). Anche negli Stati Uniti, però, non è mancato il dibattito su questo tema e già nel settembre del 2003, ricordano i tre autori francesi, Philippe de Montebello, direttore del Metropolitan Museum di New York, aveva messo in guardia circa la commercializzazione dilagante del patrimonio culturale pubblico, criticando, in particolare, il sistema dei "loan fees" (prestiti a pagamento), nonché la tendenza di alcuni musei di diventare "mercati culturali" e "parchi di divertimento". “In tal modo rischiano”, rimarcava de Montebello, "di perdere la loro anima." Cachin, Clair e Recht, pur precisando di non essere completamenti chiusi ad un uso ragionevole delle sponsorizzazioni, ribadiscono che certamente non si può nascondere una viva preoccupazione per il sopraggiungere di rapidi cambiamenti di cui non si è ancora in grado di prevedere e valutare gli sviluppi futuri, i quali potrebbero causare irreversibili trasformazioni nella gestione, cura e fruizione delle collezioni museali. Tutto ciò senza che sia stata data la possibilità di un dibattito all’interno della comunità dei professionisti museali per preparare nel modo migliore le innovazioni più utili ed eticamente corrette. “Il peggio deve ancora venire”, denunciano i tre autori; lo dimostra il progetto di Abu Dhabi, un paese di soli 700.000 abitanti, ma dotato di grandi risorse finanziarie, in cui si vorrebbe creare, per fini turistici, un “distretto culturale” che includerà le “filiali” di alcuni musei europei, come il Gugenheim e il Louvre, un Museo del Mare, una sede della New York University ed un centro di arti performative. Il progetto si basa su un contratto che impegnerà le istituzioni europee e americane a “vendere” la propria “griffe” alle succursali negli Emirati, e a fornire collezioni, singole importanti opere d’arte e competenze; il tutto in cambio del versamento di svariate centinaia di milioni di euro per i prossimi trent’anni. Il Louvre sarà obbligato, pertanto, alla cessione di prestiti di opere d’arte a lungo termine, privandone i propri visitatori, i quali forse per molto tempo non troveranno più “La Gioconda” a Parigi, ma dovranno recarsi negli Emirati Arabi Uniti per poterla ammirare!  N'est-ce pas cela vendre son âme?” è il grido d’allarme lanciato da Cachin, Clair e Recht.
Caterina Pisu (ArcheoNews, marzo 2011)

 Cari amici, in questi anni in cui ho svolto l’incarico di direttore scientifico del Museo Civico “Ferrante Rittatore Vonwiller”, dal 2019 a...