"Il museo di comunità è un processo, piuttosto che un prodotto. E' il risultato dell'integrazione di complessi processi di costituzione della comunità attraverso la riflessione, la conoscenza di sé e la creatività; processi che consolidano l'identità della comunità per legittimare le proprie storie e i propri valori; processi che migliorano la qualità della vita della comunità, attraverso molteplici progetti per il futuro; infine, processi che rafforzano la capacità di azione della comunità attraverso la creazione di reti con comunità simili". Teresa Morales
Il Museu das Remoções di Vila Autódromo, Brasile
Un museo spontaneo nato dalla disperazione dei poveri
Il Brasile sta attraversando una fase
storica particolarmente difficile, resa ancora più complicata dalle ultime vicende
politiche che sono sfociate nell'impeachment di Dilma Rousseff. Anche il mondo
dei musei brasiliani è in prima linea nel dibattito politico e questo è
naturale in un Paese in cui la visione dei musei, così come accade in generale
in America Latina, ha un’impronta decisamente sociologica e un carattere partecipativo.
E’ accaduto, così, che lo scorso
18 maggio, Giornata Internazionale dei Musei, si è scelto di inaugurare il Museu das Remoções di Vila Autódromo. Vila Autodromo è un quartiere povero situato
nella zona ovest di Rio de Janeiro, ai margini di Barra da Tijuca (lussuoso
quartiere di Rio), Qui è in fase di ultimazione la costruzione del parco olimpico
per i Giochi che avranno inizio il prossimo agosto. Il Vila Autodromo, ora sgomberato, accoglieva
circa 580 famiglie e ora solo venti di queste resistono contro la speculazione
immobiliare e i “traslochi politici” promossi dal Comune di Rio de Janeiro. Il Museu
das Remoções è diventato così uno strumento di lotta.
Concepito come un museo a cielo
aperto, si compone di sette sculture:
1. “Luz que não apaga”, è vicino
al muro di San Giuseppe Lavoratore, la Chiesa nei cui locali si svolgono le attività
e dove sono stati depositati i mobili delle case demolite;
2. “Suporte dos Males”, è
dedicata ad una ex residente del villaggio, Jane D., che aveva qui la sua casa che
poi è stata abbattuta;
3. “A Associação Sou Eu”: questa
scultura vuole rappresentare la resistenza dell’associazione dei residenti alla
demolizione delle proprie case;
4. “Doce Infância” è il parco
giochi, il luogo dove le idee vengono impostate in maniera partecipativa e dove
i residenti svolgono le varie attività di festa e di resistenza;
5. “Espaço Ocupa/Casa da
Conceição”, ricorda il luogo in cui si svolgevano le attività culturali di Vila
Autodromo, accanto alla casa D. Conceição, la quale metteva il bagno della sua
casa a disposizione dei partecipanti, preparava e vendeva i pasti nei giorni
dell’occupazione, prima dello sgombero. Nella scultura di fondo sono state
dipinte varie mani che rappresentano l'unione tra i residenti e tutti gli altri
sostenitori della causa, tutti coloro che hanno lavorato per ricostruire lo
spazio occupato;
6. “Vila de Todos os Santos” è un
omaggio alla casa di D. Eloisa che qui risiedeva e in cui aveva un “Terreiro de
Candomblé” (luogo dove si svolgono alcuni riti religiosi afro-brasiliani), conosciuto
come Casa de Nanã, anch’esso demilito il 24 febbraio 2016;
7. “Penha de Muitas Faces”,
rappresenta un simbolo femminista in onore di D. Penha, una dei leader della
comunità di Vila Autodromo la cui casa è stata abbattuta l'8 marzo di
quest'anno, giornata internazionale della donna.
Il percorso espositivo è stato
presentato da Sandra Maria, un’abitante del quartiere, con la collaborazione
dei professori Diana Bogado, Universidade Anhanguera/Niterói, e Mário Chagas, UNIRIO.
Fachada da casa da moradora Sandra Regina: “Associação de Moradores da Vila Autódromo”. Todas as casas se chamam “associação”. l Foto: Miriane Peregrino / Fonte: http://jornalocidadao.net/ |
Davanti alla scultura che ricorda
l’associazione degli abitanti, Sandra Maria ha dichiarato che le autorità hanno
demolito degli edifici, ma l’associazione continuerà a lottare ugualmente: “Scriveremo
a tutte le associazioni di residenti affinché ci aiutino a dare visibilità alla
nostra dimostrazione. L’associazione degli abitanti non è un edificio e va ben
al di là di quattro mura. E’ un’organizzazione e finché vi saranno abitanti
organizzati, che discutono e combattono, l'associazione è viva”.
Gli abitanti di Vila Autódromo,
in questi lunghi anni di lotta contro la speculazione settore immobiliare, hanno
creato continuamente iniziative di resistenza e hanno messo in piedi un’azione
energica che ha rinforzato il legame tra gli abitanti. Thainã de Medeiros,
museologa, ha affermato che "la creazione del Museu das Remoções è, in primo
luogo, un mezzo per riflettere sulle dinamiche politiche che provocano sfratti
e demolizioni a Rio de Janeiro. E’ un modo per costruire la memoria della
città, una memoria collettiva di Rio de Janeiro dove i più poveri si estinguono
e vengono dimenticati". "Qui si sta creando un altro progetto di città.” – ha
continuato Thainã, la cui famiglia ha subito anch’essa un’azione di sgombero
– “Si vuole mostrare quello che è il processo storico di rimozione di una parte
della città, un processo che è sempre molto crudele perché è un atto di forza
contro i più deboli”.
Il museologo Mario Chagas,
docente presso la Unirio, ha commentato così la nascita del Museu
das Remoções: “È un museo di resistenza, di lotta. Questo museo non celebra la
lotta, celebra la potenza della memoria, la memoria creativa, la memoria che progetta
il futuro, ed è anche una specie di museo removibile che può appartenere anche
ad altre Comunità nel senso che non tratterà soltanto degli spostamenti
contemporanei, ma anche della storia degli spostamenti. Ma la cosa più
importante in questo momento è che il Museo evidenzia la forza degli abitanti
di Villa Autódromo impegnata a resistere decisioni delle autorità che hanno
prodotto qui una terra rasata in nome delle mega imprese, senza prendere in
considerazione la memoria, la vita, la socialità delle persone". Mario Chagas
ha inoltre ricordato che l'argomento della Giornata Internazionale dei Musei quest'anno
è stato “museo e paesaggio” e questo ha una relazione diretta con il Museu das
Remoções: “In questo paesaggio di terra rasata, in questo paesaggio culturale
che è stato distrutto, si costruiscono nuove possibilità. Qui si vuole
rappresentare come il potere pubblico interviene nel paesaggio, ma facendolo in
modo distruttivo. Costruisce nuovi paesaggi per il suo interesse ma non
rispetta i paesaggi costruiti qui dai loro vecchi abitanti.” Continua Chagas: “Il
concetto che ha determinato il progetto espositivo è che la memoria non si distrugge.
Le case possono essere demolite, ma la memoria continua a pulsare. In questo
luogo si manifesta un potere poetico e politico“.
Fernanda Camargo-Moro (1933-2016)
Una triste notizia per il mondo della Museologia: pochi giorni fa è venuta a mancare l'archeologa e storica brasiliana Fernanda Camargo-Moro (1933-2016), figura rilevante nel campo della museologia, in particolare della Nuova Museologia. Prese parte alla Conferenza generale dell'Icom del 1971 e contribuì alla creazione del primo ecomuseo brasiliano, nel 1987, a Itaipu.
La ricordiamo con riconoscenza per l'importante lavoro da lei svolto per il mondo dei musei.
La ricordiamo con riconoscenza per l'importante lavoro da lei svolto per il mondo dei musei.
digiti@amo il museo
Intervista agli studenti del Liceo Classico "Dante Alighieri" di Latina
di Caterina Pisu
La riuscita di un progetto
museale non sempre dipende solo dalla sua qualità o dalla efficacia delle
strategie di gestione. Ci sono altri elementi che ne determinano il valore e la
durata del tempo, e uno di questi è indubbiamente la costruzione di un solido
rapporto con le parti attive della propria comunità: le istituzioni locali, il
settore produttivo, la scuola, le organizzazioni di sostegno sociale e di
promozione culturale. Nel caso studio che qui vi presento, la scuola si è fatta
partner attivo di un museo della propria città. Così nasce il progetto di
alternanza scuola-lavoro “digiti@amo il museo”, da poco iniziato con la
collaborazione degli studenti del Liceo Classico Statale “Dante Alighieri” di Latina, ai quali è stato chiesto di rendere social il Museo Civico “Duilio Cambellotti”,
nella propria città, aumentandone in tal modo la visibilità e creando i
presupposti per un dialogo interattivo con i cittadini e, in generale, con
tutti i visitatori.
Il Museo Cambellotti di Latina è
un museo importante, nato nel 2005 per custodire un primo nucleo di opere di Duilio Cambellotti, questo poliedrico artista - scultore, pittore, illustratore,
ceramista e architetto - attivo tra la fine dell’Ottocento e gli anni Cinquanta
del secolo scorso. Nonostante la rilevanza delle sue collezioni, come tanti
musei italiani, anche il Museo Cambellotti deve fare i conti con un problema di
visibilità online; era necessario, pertanto, ricercare soluzioni che
guardassero al web e, in particolare, alla comunicazione social. Dopo la creazione del sito web, nel dicembre
2015, è arrivato il progetto “digiti@amo il museo”, in cui la novità è data soprattutto
dal coinvolgimento, nell’operazione, degli studenti del Liceo Classico Statale
“Dante Alighieri” di Latina. Il progetto è stato elaborato come parte del Piano
Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF), con l’obiettivo di sviluppare
competenze di cittadinanza attiva con carattere di orientamento ai fini del
lavoro.
Il Liceo "Dante Alighieri" è molto attivo: gli studenti hanno ideato e gestiscono anche il blog della scuola, intitolato "Il Classico Giornale", la pagina Facebook e l'account Twitter.
Ho rivolto alcune domande a Emanuela
Macci e Aurora Rocco, due studentesse del Liceo “Dante Alighieri” (I D)
cercando di capire, con il loro aiuto, il vero significato
di un’esperienza sicuramente fuori dal comune.
La vostra collaborazione con il Museo Cambellotti consiste nella
elaborazione di una strategia di promozione d’immagine e di miglioramento della
comunicazione digitale attraverso i social media. Come vi siete preparati ad
affrontare questo compito? Vi siete ispirati a esempi già collaudati nel
settore della comunicazione museale?
Certamente, quando ci è stato presentato, questo progetto ci è sembrato
molto difficile da realizzare, ma ci siamo presto ricreduti. Prima di iniziare,
infatti, abbiamo seguito per una settimana delle lezioni teoriche ed abbiamo
avuto degli incontri con dei tutor esterni. Già durante questa settimana
abbiamo constatato quanto questo progetto fosse dinamico e pratico: più che
lanciarsi in tradizionali e noiose lezioni, i tutor ci hanno fatto vedere
esempi di musei, sia molto famosi a livello internazionale sia quelli locali
poco conosciuti, dalla cui digitalizzazione abbiamo preso spunto per il nostro
progetto.
- Come vi siete organizzati? Avete creato dei gruppi di lavoro? I
vostri riferimenti sono stati gli insegnanti e i curatori del museo o anche
specialisti esterni?
Prima di iniziare ufficialmente il progetto, abbiamo eseguito un test
attitudinale in base al quale siamo stati inseriti in gruppi diversi. I gruppi
sono quattro: il primo gruppo acquisisce le fonti necessarie direttamente nei
musei, rese in seguito accessibili sui social network dal secondo e terzo
gruppo, attivi presso il FabLab e Mixintime, rispettivamente uno spazio di
condivisione e di lavoro e uno studio di produzione cinematografica per
creazione di promo e video. Infine, il quarto
gruppo si occupa della parte burocratico-amministrativa. Ci hanno seguito ed
aiutato sia gli insegnanti che specialisti esterni: il prof. Vincenzo
Scozzarella (direttore del Museo Cambellotti), gli avvocati Francesca Coluzzi e
Gabriella Guglielmo, il prof. Nanni, la prof. Mandarano, il dott. Francesco
Maglione, Francesco Timpone del Fablab Latina, i graphic designer Daria
Giovannetti e Giulia Volino e Amilcare Milani, titolare di Mixintimegroup.
- Nel corso del progetto “digiti@amo il museo”, sicuramente avrete
l’opportunità conoscere più da vicino il museo non solo dal punto di vista
delle collezioni ma anche da quello della gestione; sarete già entrati in
contatto, quindi, con il “dietro le quinte”, un aspetto che solitamente non è
visibile al pubblico. Questo ha cambiato il vostro modo di vedere i musei?
Sì, decisamente! Quest'esperienza ha cambiato il nostro modo di
visitare i musei. Per esempio, recentemente abbiamo fatto un viaggio
d'istruzione e in ogni museo in cui siamo entrati ci è venuto naturale fare
attenzione a come il museo fosse organizzato e ad eventuali errori logistici,
oltre ad aver fatto caso alla loro presenza sui social network.
- Prima di questa esperienza, vi era mai venuta l’idea di visitare un
museo di vostra spontanea volontà, senza esservi condotti dalla scuola o dalla
famiglia?
Certamente!
- Secondo il vostro parere e in base all’esperienza che state
acquisendo nello svolgimento del vostro progetto, che cosa può fare un museo
per apparire più “interessante”, soprattutto agli occhi dei giovani?
Se fino a pochi anni fa la miglior pubblicità era il passaparola, ora
sono certamente i social network. Se gestiti bene, questi nuovi mezzi di
comunicazione sono in grado di portare visibilità in poco tempo a una
straordinariamente ampia gamma di persone.
E poi ovviamente, insieme a una nuova ed efficace strategia di
comunicazione, è necessario che i musei siano un punto di riferimento culturale
dove i cittadini e i giovani possano assistere e partecipare a mostre, eventi,
dibattiti, incontri, concerti, spettacoli ecc. Solo con una totale apertura
(sia virtuale che reale) i musei possono essere luoghi di vivaci incontri
culturali.
- Quale aspetto del progetto “digiti@amo il museo” vi sembra più
entusiasmante?
Con questo progetto ci siamo avvicinati molto all'aspetto
storico-artistico della nostra città. Adesso ne siamo consapevoli e il nostro
intento è quello di diffondere quest'aspetto ai nostri concittadini: è una
bella sfida, ma è anche entusiasmante e stimolante perché in un certo senso è come
se ci venisse offerta la possibilità di cambiare qualcosa a Latina. E noi
faremo del nostro meglio per non sprecarla.
Questo progetto, nel suo complesso, ha messo in
evidenza quanto sia importante che i musei non si limitino ad accogliere le
scolaresche in gita, ma che si instaurino seri progetti di collaborazione
coordinata e continuativa con le scuole. Il museo può essere l’aula in più
in cui gli studenti possono realizzare progetti e iniziative a carattere
culturale e sociale, sperimentando e producendo nuove idee. Ci sono Paesi, come
la Russia, in cui per tradizione alcuni musei possiedono delle scuole proprie,
anche dei licei (si veda, al riguardo, la mia intervista a Vladimir Ilytch Tolstoj);
in Italia basterebbe essere in grado di utilizzare l'affinità e la
complementarietà tra le due istituzioni per la creazione di progetti
reciprocamente vantaggiosi. Il caso del Liceo Classico “Dante Alighieri” di
Latina è un esempio illuminante che si spera possa avere molti imitatori.
Il mondo visto attraverso i giocattoli: incontro con Franco Palmieri*
Pubblico qui un articolo molto interessante del museologo Riccardo Rosati, dedicato al museo storico-didattico di Roma, "La memoria giocosa". Si tratta di un museo privato dalla storia affascinante e che merita veramente di essere maggiormente conosciuto.
Un sabato, andando oltre la
ormai improponibile via del Pigneto, siamo tornati in un luogo poco conosciuto
di Roma: Il Museo – La Memoria Giocosa. Ricordevoli della interessante conversazione
col suo Direttore, Franco Palmieri, abbiamo deciso di intervistarlo.
Un personaggio abbastanza
atipico è Palmieri, apparentemente un anarchico, e come tutti quelli veri,
con alcune simpatie a Destra. Egli ci ha proposto una lettura del mondo
attraverso i giocattoli; un qualcosa che non avevamo mai sentito prima. Dopo
uno smarrimento iniziale, siamo entrati nella dimensione dei balocchi,
accompagnati dalla interpretazione di una persona che si è anche rivelata
preparata ben oltre l'argomento “giocattoli”. Palmieri è, infatti, pure un fine
americanista, con alle spalle due borse di studio alla Columbia
University, una delle università facenti parte della “Ivy League”: gli unici
atenei che contino davvero in America.
La sua personale teoria
museologica è totalmente strutturata. Non c'è da stupirsi di ciò. In due ore,
il termine “studiare” è ricorso spesso. Prima di porgli qualche domanda, raccontiamo
sinteticamente di questo prezioso, benché piccolo museo.
La Memoria Giocosa nasce
nel 2000, seguendo una indicazione museale didattica che ha la sua origine nel
Museum of the City of New York. Esso
ha sede in un loft di circa 300 mq, nell'area dei villini del Pigneto, fiorita
nell'epoca futurista e sviluppatasi poi nel Barocchetto Romano ad opera degli
architetti del Ventennio. Il museo propone il giocattolo inteso come veicolo di
comunicazione culturale e di conoscenza della realtà. È il primo museo in
Italia ispirato alla filosofia dell'educatore tedesco Friedrich Fröbel (1782 –
1852), ideatore dei giardini d’infanzia. Lungo un itinerario museale composto
di oltre duecento piani espositivi, i giocattoli e i giochi costituiscono una
sorta di percorso parallelo alla evoluzione storica e sociale delle epoche che
i medesimi riproducono.
Caro Palmieri quello da lei
diretto è un museo non certo grande, però che ha una sua importanza, è così?
Lo può ben dire! Non tanto
per la vastità della collezione, ma per completezza, La Memoria Giocosa
racchiude una testimonianza assai rara. L'Italia è piena di importanti
collezioni di bambole e di giocattoli, ma solo noi non abbiamo “buchi” storici
o tematici in quello che esponiamo. Tanto per intenderci, il famoso Museo del
Giocattolo di Zagarolo, ospitato nella bella sede di Palazzo Rospigliosi, l'ho
inizialmente allestito io, e il primo nucleo della raccolta nasce con dei pezzi
che gli vendetti a suo tempo, poiché quelli erano dei doppioni che avevamo.
Comunque, il mio museo possiede dei pezzi unici. È il caso dei pupazzi di latta
presi dai protagonisti dei comics americani; oltre che da noi, li si trovano
solo nelle collezioni statunitensi.
Come è stato pensato il
Museo?
Abbiamo voluto raccontare
il periodo che va sotto il nome di “modernariato”. Dunque, la raccolta
abbraccia un lasso temporale che va dal 1835, periodo di sviluppo del motore a
vapore a opera di George Stephenson, fino al 1963, anno in cui il Premio Nobel
Giulio Natta sintetizza il Moplen, con l'inizio della diffusione della
plastica.
E sulla collezione di
giocattoli – si dice la più importante al mondo, con 30 mila pezzi – facente
parte della raccolta dello svedese P. Pluntky, poi acquistata dal Comune di
Roma da Leonardo Servadio? Nel 2005, l'ex-Sindaco Walter Veltroni la volle
comprare per farne un museo a Villa Ada. Il prezzo pagato fu esorbitante:
cinque milioni e quattrocentomila euro! Il progetto non andò in porto e con
l'avvento di Alemanno questi giocattoli sparirono. Si è successivamente
scoperto che il Comune sborsa da allora le rate del mutuo per l’acquisto della
collezione, nonché le spese mensili per la custodia dei giochi, che dal
magazzino del venditore non si sono mai mossi. Uno scandalo tutto italiano?
Sembrerebbe. Una delle
tante trovate di Veltroni, il quale ha avuto la fortuna di avere al suo fianco
un uomo della competenza di Gianni Borgna, che è stato un amico del mio museo.
Non posso però dire molto su questo fatto, se non che si tratta sì di una
raccolta davvero imponente, con numerosi pezzi antichi; tuttavia, anche questa
è incompleta, non coprendo tutte le epoche. È fondamentale chiarire che per garantire
la funzione didattica dei musei dei giocattoli avere 1 o 1000 pezzi non fa la
differenza: mettere assieme decine di oggetti tutti uguali è una mania. È
sufficiente un giocattolo per raccontare quello che è utile spiegare.
Il suo museo è chiaramente
visitato dalle scolaresche, che ci può dire in merito?
Io farei una piccola accusa
al sistema scolastico italiano, con docenti che vogliono soltanto gli oggetti
esposti, privi di un racconto. Se vai ai Vaticani e non hai studiato prima,
cosa impari? Tutti parlano di “didattica museale”, ma quasi nessuno ci capisce
qualcosa. È fondamentale contestualizzare. Il Museo deve essere una “narrazione
universale”, e quello dei giocattoli è il museo didattico per antonomasia,
diverso da quello che io chiamo: “museo
espositivo”. Con il primo, apprendi al momento della visita. Nel caso del
secondo, se non hai cultura, serve a poco.
Come sempre la scuola ha
dei problemi?
Mi limito a ciò che mi
riguarda, i musei. Ritengo che la scuola abbia “subito” il Museo, non dandogli
suggerimenti utili, né lo ha mai motivato. Si portano gli studenti in giro come
dei branchi. Non ci si sofferma a guardare, così da capire cosa si stia
osservando. Un giocattolo racconta la vita autentica della sua epoca, non la
imita, né scimmiotta, sia chiaro. Esso è una testimonianza di mode e culture.
Parliamo di un mondo che racconta un mondo. Fondamentale è, inoltre, il
discorso sui materiali con cui sono fatti i giocattoli. In sintesi, io questo
spiego ai visitatori, grandi e piccoli, che ci vengono a trovare.
Il giocattolo è un fatto
nostalgico o una realtà educativa?
Ma che nostalgico, è
educazione allo stato puro. La nostalgia riguarda i collezionisti – categoria
di cui non faccio parte – che sono dei maniaci monotematici. Un museo del
giocattolo è una sorta di iperuranio platonico, un mondo delle idee.
Allora, non è solo “roba
per bambini”?
È per tutti. E non si
confonda la produzione dei giocattoli, con ciò che essi testimoniano.
Purtroppo, oggi i “modelli” si sono esauriti, tutto è stato rappresentato
attraverso i giocattoli. Questa è la ragione per la quale l'esposizione qui si
ferma al 1963. Alla plastica è stata destinata la serialità degli oggetti, di
cose già fatte con altri materiali in precedenza.
Quindi, è stata una scelta
“antimoderna” il non continuare a raccogliere pezzi appartenenti a periodi più
vicini a noi?
Assolutamente no. Tematica,
solo ed esclusivamente tematica. La mia è stata la predilezione per una
determinata epoca, il modernariato, e non il rifiuto di un'altra.
Quante cose si scoprono
attraverso lo studio dei giocattoli. Qualche altra curiosità?
Ce ne sarebbero di
infinite. Per quanto concerne l'Italia, abbiamo grandi collezioni sparse sul
nostro territorio, ma non una importante storia “produttiva”. Il giocattolo,
quasi nessuno lo sa, nasce in Germania. Successivamente, si è diffuso in
Inghilterra, Francia e Stati Uniti. Da noi, l'industria in questo campo è nata
durante il fascismo, copiando quello che si faceva proprio in Germania.
A proposito di America? Che
ci dice di Barbie, alla quale sono state dedicate varie mostre ultimamente?
Icona negativa come pensano taluni?
Per nulla. La Barbie
rappresenta la donna liberata, ha una sua vita, la macchina, una casa di
proprietà, un lavoro. Chi ha un problema con questa bambola ha una visione del
mondo femminile problematica.
Ci viene da pensare che gli
insegnanti e i genitori possano rimanere
sorpresi e, di conseguenza, messi in difficoltà dalla sua lettura dei
giocattoli, dove tutta la storia umana moderna è presente.
I docenti che accompagnano
i ragazzi al Museo vengono “preparati”. Ovvero, si informano prima sulle mie
idee e si comportano in modo collaborativo. In generale, le persone poco
capiscono del senso di questo luogo. È il giocattolo il vero testimone del
passato, altro che le foto! I musei sono in sostanza tutti uguali, la
differenza sta nel progetto culturale che ne sta alla base. I giocattoli
obbediscono alla realtà. Visitando questo museo non si fugge dal mondo; al
contrario, lo si comprende un pochino meglio.
Riccardo Rosati
* Un sentito
ringraziamento ad Annarita Mavelli per il suo prezioso aiuto nella supervisione
di questo scritto.
Riccardo Rosati: "Museologia e Tradizione"
Segnalo con piacere il nuovo libro dell'amico Riccardo Rosati, "Museologia e Tradizione", edito da Solfanelli. Buona lettura!
I musei e i non visitatori
Oggi vorrei iniziare a riportare qui, sulle pagine del mio blog, alcuni stralci di un saggio molto importante, una pietra miliare in ambito museologico, intitolato "Si contano i visitatori o sono i visitatori che contano?". L'autrice è Eilean Hooper-Greenhill, docente presso il Department of Museum Studies dell'Università di Leicester. In questa prima parte si parla di come un museo può migliorare il proprio rapporto con il pubblico, iniziando ad analizzare non il pubblico effettivo, ma le ragioni per le quali il "pubblico potenziale" non frequenta il museo. Per capirlo, dice La Hooper-Greenhill, "bisogna uscire dalle quattro mura del museo".
Il saggio è tratto dal volume "L'industria del museo. Nuovi contenuti, gestione, consumo di massa", a cura di Robert Lumley, edito da Costa & Nolan nel 2005 (versione originale edita nel 1988 da Routledge con il titolo "The Museum Time Machine").
"Per molti di coloro che lavorano nei musei, i visitatori sono solo cifre senza volto, piedi da contare mentre oltrepassano la soglia, un male inevitabile dal momento che un museo è, per definizione, un luogo pubblico. E' raro che un museo sappia chi sono i suoi visitatori e perché ci vengono, anche se i direttori sono sempre pronti a snocciolare grandi quantità di "dati sulle presenze". La parola d'ordine sembra essere quantità e non qualità, e nel valutare l'opera svolta da un museo sembra quasi che il peso corporeo delle persone che lo frequentano sia più importante della qualità dell'esperienza che ne ricavano.
Generalmente per visitatori si intendono coloro che vengono a vedere gli oggetti esposti, e solo raramente viene elaborata un'interpretazione più approfondita del concetto di gruppi di utenza. (...)
Difficilmente la politica delle comunicazioni di un museo viene elaborata sulla base di una conoscenza dell'utenza complessiva derivata da apposite ricerche. Il museo molto spesso non ha alcun programma in proposito né provvede a definire obiettivi specifici relativi alle strutture predisposte per i visitatori effettivi, per quelli potenziali e per il pubblico più in generale. (...)
E' ormai evidente che finora i conservatori dei musei hanno agito sulla base della propria visione del mondo, presumendo che i visitatori condividessero i valori, i criteri e gli interessi intellettuali che li avevano guidati nella scelta e nella presentazione del materiale ed anche, cosa ancor più importante, nella selezione e nell'acquisto degli oggetti. (...)
Raramente nel decidere le attività da svolgere si è tenuto conto della necessità, dei desideri o delle opinioni del pubblico. (...)
Le indagini sui visitatori dei musei forniscono informazioni soltanto sulle persone che al museo ci vanno. Un museo in cui si registra un calo nel numero di ingressi e che si precipita a fare un sondaggio in realtà si muove nella direzione sbagliata: un'indagine sui visitatori, per quanto approfondita, non potrà mai rivelare le opinioni di coloro che al museo non ci vanno; fornirà dei dati su chi ci va, e se si confrontano tali dati con gli studi sulla popolazione locale, si chiariranno certe lacune, ma per ottenere un quadro più veritiero del perché gli ingressi stanno calando, o meglio, per sapere cosa pensa del museo la gente, è necessario fare uno studio completo della popolazione e intervistare sia quelli che al museo ci vanno sia quelli che non ci mettono piede, e cioè bisogna uscire dalle quattro mura del museo.
(prima parte)
Il grande saccheggio
Vent’anni di contrasto al traffico illecito di reperti archeologici e una straordinaria scoperta
Da sinistra: Maurizio Pellegrini, Fabio Isman e Alessandro Barelli |
Venerdì 22 aprile, presso l’Auditorium
della Fondazione Carivit di Viterbo, a Valle Faul, ho avuto il piacere di
assistere alla conferenza dell’archeologo Maurizio Pellegrini, funzionario
della Soprintendenza Archeologia Lazio ed Etruria Meridionale (già
Soprintendenza per i Beni archeologici dell’Etruria Meridionale prima della
Riforma Franceschini) e del giornalista e scrittore Fabio Isman (autore del
libro “I predatori dell’arte perduta”).
L’occasione, nell’ambito del ciclo di
incontri “Etruscans – Gli Etruschi mai visti” (organizzato dall’Associazione
Historia di Alessandro Barelli), ha permesso di ricordare vent’anni di attività
di contrasto al traffico illecito di reperti archeologici che l’Ufficio Sequestri
della Soprintendenza ha condotto con grande dedizione e con straordinaria
efficacia, ma spesso rimanendo nell’ombra, come dimostra lo scarso riscontro
avuto dal punto di vista mediatico, e, mi permetto di dire, anche il tiepido
plauso che i protagonisti diretti di questa battaglia contro i trafficanti
d’arte hanno ricevuto anche dalle Istituzioni (si può leggere in questo blog
un’intervista a Daniela Rizzo e a Maurizio Pellegrini, condotta dalla
sottoscritta, nel 2013, per il mensile Archeo News).
Eppure i risultati sono stati, quelli sì, sotto i riflettori del mondo: è
sufficiente ricordare la restituzione all’Italia del Cratere di Eufronio, scavato
illecitamente, venduto ed esposto fin dal 1972 presso il Metropolitan Museum di
New York; oppure l’Afrodite di Morgantina, restituita dal Paul Getty Museum di
Malibu che l’aveva ottenuta nel 1986 da Robin Symes per la cifra di 18 milioni
di dollari, solo per citare due dei casi più clamorosi.
Robin Symes, il più grande trafficante inglese
Proprio su Robin Symes si è focalizzato
l’intervento di Fabio Isman, grande conoscitore delle vicende di traffico
clandestino internazionale che negli ultimi cinquant’anni ha privato il nostro
Paese di almeno un milione e mezzo di reperti, secondo la stima effettuata
dall’Università di Princeton; “una vera e propria razzia” – ha sottolineato
Fabio Isman. I pochi reperti restituiti hanno un valore superiore ai due
miliardi di euro e questo dato rivela l’entità di un commercio dalle cifre
stratosferiche e quindi, proprio per questo motivo, molto difficile da
combattere completamente, tanto più che in questo traffico non si sono tirate
indietro neppure le più famose case d’asta. Robin Symes, nativo del quartiere
londinese di Chelsea, era un antiquario che è considerato uno dei più grandi
trafficanti d’arte, soprattutto alla luce dei più recenti recuperi. La fine dei
suoi affari è dovuta ad una circostanza avversa, legata alla morte accidentale
del compagno Christo Michaelides, nel 1999. Quando la sua famiglia intraprese
un’azione legale contro Symes, rivendicando l’eredità di Michaelides,
l’antiquario mentì riguardo l’entità del patrimonio e dunque fu condannato a
due anni di reclusione per l’impostura e per l’oltraggio alla corte (e quindi
non per il reato di ricettazione e vendita di opere d’arte). Le vicende
giudiziarie che hanno portato Symes al fallimento hanno anche rivelato l’enorme
attività di ricettazione e di vendita dei reperti archeologici, trafugati per
buona parte dall’Italia. Presso il suo magazzino di stoccaggio in Svizzera, lo
scorso gennaio le autorità italiane hanno rinvenuto ben 45 casse colme di
reperti dall’Etruria e dall’Italia meridionale, per un valore di circa 9
milioni di euro. Molti di questi oggetti - stiamo parlando di migliaia di
reperti – provenivano da un edificio templare, localizzato probabilmente a
Cerveteri; si tratta di numerosi frammenti di lastre architettoniche policrome
o con rilievi, databili tra la metà e la fine del VI sec. a. C., la cui entità dimostra
chiaramente che il santuario è stato totalmente razziato dai clandestini. E’
uno dei rinvenimenti archeologici più importanti degli ultimi decenni.
E’ stato anche dimostrato che
Symes aveva sicuramente rapporti d’affari con l’italiano Giacomo Medici e con
l’americano Robert E. Hecht, entrambi famigerati trafficanti d’arte che hanno
rifornito numerosi musei in tutto il mondo e in particolare il Paul Getty
Museum. La stessa ex curatrice del museo americano, a riprova degli stretti
rapporti con i faccendieri internazionali, aveva acquistato una villa su
un’isola greca proprio per mezzo di Symes.
Lo scoop. L’insperata ricostruzione di un contesto archeologico depredato: il corredo della tomba apula di Ascoli Satriano
Nel corso della conferenza,
Maurizio Pellegrini ha reso nota una sua importantissima scoperta: la
ricostruzione, dopo la vendita e il successivo recupero, di quello che si
suppone possa essere l’intero corredo tombale di una tomba da Ascoli Satriano,
scavata clandestinamente.
Uno dei danni maggiori prodotti
dagli scavi clandestini è, ovviamente, la perdita della connessione tra l’oggetto
riportato alla luce e il proprio contesto di provenienza. E’ praticamente
impossibile, tranne nel caso in cui gli stessi tombaroli abbiano documentato il
recupero e ne abbiano informato successivamente gli inquirenti, riuscire a
ricostruire un corredo tombale per intero. Per questa ragione, la scoperta di
Maurizio Pellegrini assume una rilevanza straordinaria.
Per ripercorrere le varie fasi
dell’indagine è necessario risalire ai tempi del processo contro la curatrice
del Getty, Marion True, e contro Robert Emanuel Hecht, aperto presso il
Tribunale di Roma. In quella circostanza si acquisì una nota riservata scritta da
Arthur Houghton - curatore del Getty prima della True - il quale, scrivendo
alla direttrice associata del museo, Deborah Gribbon, faceva riferimento ad un
articolo scientifico in cui venivano menzionate alcune opere marmoree – in particolare
il trapezophoros, la lekanis - che erano state poco tempo
prima acquisite dal museo americano e che il trafficante d’arte Giacomo Medici
aveva dichiarato provenire da una stessa tomba “non lontano da Taranto”, un contesto che includeva anche “un discreto numero di vasi del Pittore di
Dario”.
Recentemente queste opere - che nel
1985 erano state vendute al Getty, per la cifra di 500 mila dollari, dal collezionista
di New York, Maurice Tempelsman[*]
- sono rientrate in Italia.
Successivamente, nel corso delle
loro investigazioni, Daniela Rizzo e Maurizio Pellegrini notarono un gruppo di
21 vasi apuli esposti nel Staatliche Museen di Berlino, tutti provenienti da una
stessa tomba e, tra questi, due crateri apuli a figure rosse erano attribuibili
al Pittore di Dario. Bisogna sottolineare che questi reperti furono acquistati
tutti insieme dal museo tedesco, nel 1984, da una famiglia svizzera che ne era
proprietaria all’incirca dal 1970, come attestato da due testimoni di cui una
di loro, tale Fiorella Cottier Angeli, era una restauratrice, funzionaria delle
dogane elvetiche del Porto Franco e collaboratrice del trafficante Giacomo Medici!
L’altro testimone, invece, era Jacques Chamay, direttore del Museo di Ginevra
più volte implicato in indagini della magistratura italiana, che giurò d’aver
scoperto egli stesso i reperti in questione.
Le Polaroid con lo stesso numero di imballo dei vasi apuli e dei marmi di Ascoli Satriano |
Le indagini della Rizzo e di
Pellegrini stabilirono, invece, che 4 dei 21 vasi apuli erano rintracciabili
nelle polaroid dell’archivio Medici; due vasi appaiono ancora in frammenti, prima
del restauro, ma – particolare importante - le polaroid in cui sono stati immortalati
recano un identico numero di serie (00057703532) e facevano parte di una
confezione di polaroid "300 Istant Film" da 20 scatti. Maurizio
Pellegrini, quindi, ricordando il documento confidenziale del Getty dove il
trafficante informava che il trapezophoros
e la lekanis provenivano da una tomba
"non lontano da Taranto, che
includeva un certo numero di vasi del Pittore di Dario”, scopre che altre sei polaroid con l’identico
numero di serie, mostrano il trapezophoros
in pezzi e la lekanis, ancora
ricoperti di terra, fotografati nel bagagliaio di un auto, subito dopo lo scavo
clandestino: ciò significa che i vasi apuli e i reperti marmorei provengono
sicuramente dalla stessa importante tomba apula della seconda metà del IV sec. a.
C. I primi sono attualmente ancora esposti nel Staatliche Museen di Berlino,
mentre il trapezophoros, la lekanis, cui si aggiunge la statua di
Apollo (proveniente sempre da Ascoli Satriano ma da un altro contesto) sono
stati restituiti dal Getty Museum ed ora sono esposti ad Ascoli Satriano.
I marmi restituiti all'Italia dal P. Getty Museum, esposti ad Ascoli Satriano |
A ciò si aggiunge un’altra
ipotesi suggestiva, sebbene ancora da verificare. Al Pittore di Dario e allo
stesso ambito culturale sono attribuiti anche un altro gruppo di vasi, tutti
acquistati dai musei americani tra il 1984 e il 1991 e già restituiti allo
Stato italiano: un’anfora a figure rosse decorata con la scena della morte di Atreo,
venduta da Hecht al Museum of Fine Arts di Boston; la pelike apula a figure rosse decorata con
il ritorno di Andromeda venduta al Getty Museum; la loutrophoros
apula a figure rosse decorata con Niobe in lutto, venduta al Princeton
University Museum of Art; un cratere a volute apulo a figure
rosse venduto al Cleveland Museum of Art; un dinos apulo a figure rosse con Ercole e
Busiride venduto al Metropolitan Museum of Art di New York. Potrebbero
appartenere anch’essi alla stessa tomba di Ascoli Satriano cui provengono gli
altri reperti? Questa seconda ipotesi, al momento, salvo altre scoperte o
rivelazioni degli stessi trafficanti d’arte, potrà essere confermata solo da ulteriori
analisi. Tuttavia è già un risultato clamoroso l’essere riusciti a ricostruire,
forse interamente o forse solo parzialmente, il contesto dei vasi apuli e dei
reperti marmorei da Ascoli Satriano, venduti separatamente in Germania e negli
Stati Uniti, subito dopo lo scavo clandestino. Per una volta si è riusciti non
solo a ottenere la restituzione di parte dei reperti, ma anche a recuperare dei
dati preziosi ai fini della ricerca storica e archeologica.
Il video della conferenza è stato
curato da Mauro Galeotti.
[*] Maurice
Tempelsman, affarista belga-americano e mercante di diamanti, è noto in Italia
per essere stato a lungo il compagno di Jacqueline Kennedy Onassis, ex First
Lady degli Stati Uniti.
Petizione per la ratifica della Convenzione quadro sul valore del patrimonio culturale per la società
Vi invito a firmare questa petizione in cui si chiede al Ministro per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo, Dario Franceschini, di farsi promotore presso il Governo e presso il Parlamento affinché si giunga al più presto alla ratifica della Convenzione quadro sul valore del patrimonio culturale per la società, aperta alla firma a Faro (Portogallo) nel 2005 e firmata anche dall'Italia il 27 febbraio 2013. Nelle petizione si evidenzia che "il Trattato mette i cittadini e le comunità al centro di ogni politica in materia di patrimonio culturale e rappresenta oggi la risposta più forte, chiara ed efficace ai processi di inclusione sociale in atto in Europa e nel mondo. È uno strumento fondamentale per una effettiva integrazione culturale" e che "l’Italia, pur avendo sottoscritto la convenzione nel 2013, non l'ha ancora ratificata". Si afferma, quindi, la necessità di giungere al più presto alla ratifica anche da parte del nostro Paese, perché "i territori, i cittadini, il patrimonio culturale, i professionisti, le istituzioni preposte alla tutela non possono aspettare altro tempo".
Firmiamo tutti!
Per firmare la petizione:
https://www.change.org/p/petizione-per-la-ratifica-della-convenzione-di-faro
Firmiamo tutti!
Per firmare la petizione:
https://www.change.org/p/petizione-per-la-ratifica-della-convenzione-di-faro
#MuseumWeek 2016: dialogare con musei vicini e lontani
Si è conclusa da una settimana la
MuseumWeek 2016 e i risultati di quest’ultima edizione dimostrano che l’evento sta
diventando di anno in anno una straordinaria occasione d’incontro e di confronto
soprattutto tra i professionisti museali e gli analisti del settore. I dati statistici
rilevati durante la settimana di svolgimento della MuseumWeek sono eccezionali:
3.500 i musei partecipanti da 75 paesi nel mondo (di cui 355 musei italiani), 664
mila i tweet con hashtag #museumweek, visti 294 milioni di volte. Un traguardo
notevole se si considera che lo scorso anno a partecipare erano in 2800 e che i
musei italiani erano 259, numero peraltro quadruplicato rispetto al 2014.
Ogni giorno della settimana (dal
28 marzo al 3 aprile) è stato contraddistinto da un hashtag diverso
corrispondente ad un tema da seguire: l’hashtag che ha raccolto il maggior
numero di commenti è #LoveMW (domenica 3 aprile) con un totale di 22.5k post
pubblicati su Twitter. Al secondo posto c’è #ZoomMW (sabato 2 aprile).
Ben cinque i musei presenti nella
top ten mondiale dei musei più attivi durante la #MuseumWeek: l’account
dell'area archeologica di Massaciuccoli romana(@MassaciuccoliRo), il Museo
Corona Arrubia (@Coronarrubia), il Museo Bergallo (@museobergallo), il Museo
Tattile di Varese (@museotattile_VA) e il Museo Archeologico del Distretto
Minerario Rio nell'Elba (@MuseoRioElba).
In Italia, oltre agli account già presenti nella classifica
mondiale, gli altri musei più attivi sono stati il Museo Archeologico di Cagliari (@MuseoArcheoCa), l’Ufficio
Beni Archeologici della Provincia Autonoma di Trento (@BeniArcheo), Musei in
Comune Roma (@museiincomune), il Museo della Navigazione nelle Acque Interne
(@MuseoPiroga), il Museo del Setificio Monti (@Museo_Setificio), Trasimeno Lake
(@TrasimenoLake) e il Museo e Pinacoteca Civica Palazzo Mazzetti
(@PalazzoMazzetti).
Al di là di questi dati, l’aspetto
più importante è sicuramente il coinvolgimento di un così elevato numero di
musei nel mondo e, in particolare, in Italia.
MuseumWeek non è una gara, non è
una vetrina per i musei che vi partecipano, sebbene non si possa negare che la
visibilità guadagnata sia un grande vantaggio, ma è soprattutto un dialogo.
Personalmente
considero di fondamentale importanza insistere su questo aspetto perché nei
giorni scorsi ho avuto occasione di leggere critiche soprattutto nei confronti
di musei più piccoli che spesso hanno maggiori difficoltà ad organizzarsi ed
anche a produrre contenuti con maggiore frequenza rispetto ai grandi musei.
Dovrebbe essere chiaro che un piccolo/medio museo non può vantare la collezione
del Louvre né avere il suo repertorio fotografico, ma se i dati statistici servono
a qualcosa, sicuramente sono utili per dimostrare che le competenze, l’entusiasmo
e il desiderio di comunicare non sono mancati nemmeno a quei musei italiani che,
pur potendo contare su pochi mezzi e risorse, abbiamo poi visto affiancare il
British Museum, il Louvre, il Prado e l’Hermitage nella classifica mondiale dei
musei più attivi.
Se la MuseumWeek può essere considerata un dialogo - o meglio
ancora, un insieme di dialoghi - allora è ragionevole immaginare che in una
manifestazione che è durata dalle 6 alle 10 ore giornaliere, se non di più, durante l’arco di
un’intera settimana, il registro formale abbia dovuto ogni tanto cedere il
passo a quello colloquiale.
Se nei dialoghi sono sortiti dei “buongiorno” o “buonanotte”
ai colleghi dei musei co-partecipanti e ai propri followers, o qualche frase
rimarcante l’entusiasmo di essere parte di una grande manifestazione, questo non
dovrebbe essere disapprovato, ma visto, piuttosto, come l’espressione di un
coinvolgimento reale e appassionato. Sarebbe ingiusto, però, non vedere il
grande lavoro che i musei italiani hanno compiuto durante la MuseumWeek, twittando
contenuti di grande interesse.
E’ stato molto bello leggere i dialoghi,
osservare la formazione di piccole “reti” e di collegamenti sia con realtà
vicine che con quelle più lontane. Ciascuno ha cercato di trovare un modo di
essere nella MuseumWeek nel modo più adatto alle proprie esigenze, al tipo di
istituzione, ai risultati che si è cercato di ottenere.
Se ad un osservatore
esterno la MuseumWeek è sembrata caotica è perché non ha recepito che questo
tipo di manifestazione non si può vivere da “osservatori” ma solo da
partecipanti. Non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di un evento mondiale
che coinvolge milioni di voci, ma lo scopo della MuseumWeek, lo ripeto, non è
la produzione collettiva di un contenuto, ma piuttosto la creazione di dialoghi
basati sui contenuti, sullo scambio di opinioni e sul confronto, a beneficio
prima di tutto del settore dei musei e della categoria dei professionisti
museali che, senza alcun dubbio, da questa manifestazione hanno ottenuto un
rafforzamento del senso di appartenenza alla categoria. Mi è sembrato ottimo
anche il dialogo con i followers e con gli analisti del settore che hanno
partecipato all’evento. Non ci si può aspettare che al di fuori di questo
ambito ci possa essere una partecipazione di massa. Mi sembra improbabile che
questo possa avvenire e quindi si dovrebbe anche smettere di ripetere ogni anno
che è mancata la partecipazione del pubblico. Non è questo il tipo di
manifestazione che può catturare una platea di non specialisti, prima di tutto
per la sua durata: nessuno che non sia professionalmente coinvolto avrebbe la
costanza di seguire un evento lungo un’intera settimana per molte ore al giorno.
Inoltre Twitter è considerato ancora un social network di nicchia che, tra l’altro,
è in continuo calo e ultimamente gli accessi sono scesi del 28%. E’ normale che
non si riesca a intercettare il “cittadino medio” che probabilmente preferisce
altre piattaforme social.
E’ necessario, piuttosto, utilizzare tutte le
potenzialità della MuseumWeek per creare reti virtuali tra i musei, così come è
avvenuto soprattutto a partire dalla scorsa edizione, migliorando notevolmente
la comunicazione, un settore che solo fino a tre anni fa ci vedeva tra i musei
meno attivi d’Europa. Ora possiamo con orgoglio dimostrare che la situazione è
decisamente cambiata!
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