Dalla lettura di un post
di Claire Madge, dal blog Tincture of Museum, alcune riflessioni sulla
crisi dei musei
In questi giorni mi è capitato
sotto gli occhi un articolo di Claire Madge, laureata in storia, bibliotecaria
e volontaria in alcuni musei di Londra, tratto dal suo blog Tincture of Museum.
In questi anni, Claire, già convinta sostenitrice dell’importanza dei musei per
lo sviluppo intellettivo e psicologico dei bambini, quando è diventata mamma di
una bambina autistica si è molto interessata alle tematiche che riguardano la
cura dei bambini autistici con il supporto delle attività museali. Dopo aver
lasciato il suo lavoro di bibliotecaria, ha scelto di entrare come volontaria
in tre musei: il Museum of London, l’Horniman Museum, come
volontaria in progetti rivolti a migliorare l’accessibilità del museo per vari
tipi di disabilità, e infine il Bromely Museum,
in cui, dopo un inizio come volontaria generica, è riuscita ad inserirsi nei
progetti che riguardano l’apprendimento e la partecipazione del pubblico.
Purtroppo uno di questi musei, il Bromely Museum, rischia di chiudere e nell’articolo
cui ho fatto cenno, la Madge riporta i punti essenziali di un dibattito cui ha
partecipato e che avrebbe dovuto trovare delle soluzioni per evitare questa
sfortunata eventualità.
Il Bromely Museum è un museo
periferico di Londra che l’Associazione Nazionale Piccoli Musei includerebbe
sicuramente nella categoria dei “piccoli musei”. Claire descrive bene la sensazione
di inferiorità che l’essere “piccoli” fa nascere in quelle situazioni in cui
bisogna confrontarsi con la dura realtà dei “conti”, della “produttività
economica” applicata spietatamente e indifferentemente tanto a istituzioni
gigantesche come il British Museum quanto a musei periferici che non sono nati
per fare grandi numeri ma che sono stati creati soprattutto per rendere vitale
e produttiva la cultura locale con particolare attenzione agli aspetti educativi
e sociali. Così racconta:
«Fa sorridere partecipare ad un dibattito sul futuro dei musei
regionali, nel cuore di Londra. Il Courtauld Institute of Art ha voluto dar vita ad un ampio dibattito per
trovare una soluzione alla crisi dei musei regionali. (…) ». Il Bromely
Museum si trova nella Greater London, fa notare Claire, la stessa contea in cui
si trova quella Londra che catalizza gli enormi finanziamenti dell’ArtsCouncil. I musei regionali, invece, non riescono
a trovare finanziamenti. «Ci si sente
come se si stesse per entrare nel sancta sanctorum in cerca di risposte».
Claire sa che il suo intervento
sarà preceduto da quello dei “decisori” e lei, un po’ intimidita, si sente come
una “novizia” che cerca di scoprire i misteriosi meccanismi del mondo dei musei.
Ascolta tutti gli interventi con molta attenzione e non tutto è piacevole da apprendere
per chi sta dedicando tutta la propria vita a uno di questi musei
apparentemente “perdenti”.
Qualcuno afferma che non si potrà
evitare la chiusura di alcuni musei, che non si può indorare la pillola e che
bisogna guardare in faccia la realtà, che la risposta non può essere la
filantropia, che c’è bisogno di nuovi modi di fare le cose, nuovi modelli di
business per portare avanti il cambiamento. Claire pensa che se si taglierà il
personale tutto questo sarà molto difficile o si pensa di farlo con un museo
condotto esclusivamente da volontari? Come soluzioni si suggeriscono la ricerca
di finanziamenti attraverso l’adesione a progetti universitari oppure la
dinamicità delle collezioni, con frequenti cambiamenti, grazie a partenariati e
collaborazioni.
Tutte le soluzioni proposte,
osserva Claire Madge, sono a lungo termine mentre c’è bisogno di soluzioni
immediate per scongiurare la chiusura dei musei regionali. Alla fine il colpo
di grazia arriva dall’ultimo intervento, quello di Piotr Bienkowski, Museum
Independent Consultant, il quale afferma che non tutti i musei dovrebbero rimanere
aperti. Se non riescono, quasi sempre la
causa principale è la governance intrinsecamente debole e una scarsa
comprensione degli aspetti finanziari della gestione.
Alla fine dell’intervento di
Bienkowski, Claire si rende improvvisamente conto che tutto ciò che apprezza
del Bromley Museum, il personale, il suo ruolo di volontaria, la sua fuga dalla
realtà quotidiana, non sono più sufficienti per impedirle di vedere che il
museo sta fallendo: questo, purtroppo, è il risultato di anni di declino. Da
una indagine da lei condotta intervistando famiglie è risultato che il 90% di
queste non sapeva dell’esistenza del museo. Nonostante ciò – riflette Claire – «io ho ignorato questo (…). Ho lavorato spesso di sabato, i visitatori erano
pochi e ancora ho scelto di non vedere.
Ho guardato ciò che c’era di buono, i progetti educativi, la passione
del personale e mi sono rifiutata di vedere oltre. (…) Allora, qual è la
risposta? Il Museo Bromley avrebbe potuto consolidare da solo il proprio “stato
di salute” anni fa. Avevamo bisogno di animare
il dibattito sul cambiamento ben prima di arrivare sul ciglio del baratro. Credo che sia stato Paul Greenhalgh a dire: “tenere
aperta la porta è un lavoro per tutti noi e qualcosa che dovremmo fare
insieme". Ha ragione, naturalmente,
ma abbiamo ancora bisogno di sapere come fare. Mentre lascio il dibattito,
sento che stanno parlando di un altro museo sull'orlo della chiusura. Il Bromley Museum non è l'unico e non sarà
l'ultimo. Ho imparato molto e mi è stata
data una quantità enorme di spunti sui cui riflettere. Era ingenuo pensare che
avrei trovato risposte immediate e soluzioni rapide. Il dibattito mi ha fatto guardare la realtà
alla luce fredda del giorno. E forse
questo è ciò che mi serviva più di qualsiasi altra soluzione».
Le conclusioni di Claire mi hanno
indotta a tentare un confronto in particolare con la realtà del nostro Paese, tenendo conto che quando si parla di musei “in
crisi” le situazioni sono le più varie e bisogna considerare le legislazioni, la
natura giuridica, le finalità che si propone un museo e molti altri fattori
discriminanti. In ogni caso ritengo che, pur nell’ambito di un necessario
processo di autocritica (ed avendo ben presenti anche i casi - non pochi - di incuria
da un lato e di vero e proprio abbandono da parte delle istituzioni dall’altro),
le cause del “fallimento” di alcuni musei siano da ricercare non solo nelle
responsabilità individuali e istituzionali, ma spesso nella inadeguatezza di un
sistema generale di gestione che ha troppo “uniformato” i musei rendendoli poco
interessanti. Afferma a questo proposito, Giovanni Pinna:
«(…) Ormai, nelle sale espositive di queste istituzioni, non sono più
gli specialisti del museo che parlano al pubblico, ma anonime équipes
specializzate nella realizzazione delle esposizioni, mentre il rapporto con il
pubblico, la realizzazione delle guide o l’organizzazione delle manifestazioni
pubbliche sono affidati ai cosiddetti “servizi culturali” che, di norma,
operano autonomamente rispetto alla struttura scientifica dell’istituto. Il
risultato di questa separazione è stato un inevitabile appiattimento dei
contenuti delle esposizioni del museo e del loro significato culturale, poiché
équipes specializzate nella didattica espositiva non possono che uniformarsi a
un modello generale, che, proprio in quanto generale, non è mai rappresentativo
di una specifica cultura. Il museo ha perso allora la propria conoscenza e la
propria individualità a favore di questo modello generale, con il risultato
finale che nei suoi rapporti con il pubblico ogni museo è divenuto uguale a
ogni altro museo. Io ritengo che una delle ragioni dell’attuale debolezza
politica e sociale dei musei – una debolezza pericolosa poiché conduce
inevitabilmente il museo stesso a una debolezza finanziaria e quindi culturale,
e la società alla perdita delle proprie radici – risieda nella separazione dei
ruoli che porta alla perdita della cultura individuale di ciascun museo».
E in effetti, se pensiamo ai casi
di “piccoli musei” di successo che sono a me famigliari grazie al mio lavoro
nell’ambito dell’Associazione Nazionale Piccoli Musei, si può constatare che si
tratta sempre di musei con una spiccata individualità e originalità: penso al
Museo del Bottone di Santarcangelo di Romagna, al Museo della Bora di Trieste,
al Museo del Precinema di Padova, solo per citarne alcuni e senza nulla
togliere a numerosi altri che potrebbero essere citati come esempi.
E’ necessario ripartire, dunque,
dal dato di fatto che i musei hanno bisogno di uscire da un anonimato imposto
da metodi di gestione troppo uniformanti, in cui talvolta, soprattutto nel caso
di reti e sistemi museali (quando sono organizzazioni rigide, con un'unica
fonte di comunicazione, un unico sito uguale per tutti, stessa pianificazione
delle attività didattiche, ecc.), conta più la struttura amministrativa e
burocratica che gestisce i musei che non il singolo museo. Ciò produce
appiattimento e quindi incapacità di rendersi attraenti agli occhi del pubblico
grazie alla valorizzazione delle proprie specificità, legate alla natura delle
collezioni, al luogo cui si è legati, alla comunità di riferimento.
Poggiandosi su una base solida -
cioè su questo presupposto fondamentale che richiede autenticità, radicamento
territoriale, originalità - si potranno innestare, poi, altre soluzioni, non
escluse quelle che provengono anche dal settore dell’economia e del marketing,
che aiuteranno a fare chiarezza sui “punti deboli” che impediscono ai musei di
esprimere le proprie potenzialità.
A questo proposito, afferma
Giancarlo Dall’Ara: «Modello gestionale
inadeguato può significare inoltre che il museo ha personale insufficiente o
demotivato, o propone orari di visita o "politiche di prezzi"
sbagliati, una organizzazione degli spazi “fredda”, asettica e non accogliente,
o adotta modelli espositivi di difficile comprensione. Oppure ancora i problemi
possono essere nell’assenza di nuove competenze professionali oggi
assolutamente necessarie (web, accoglienza, narrazione…), o nella visione
autoriferita di alcuni responsabili. In sostanza credo si possa affermare che
in Italia non esistano luoghi privi di interesse o musei privi di “attrattori”,
esistono invece problemi di gestione, di sedi museali inadeguate, di mancanza
di passione, di conoscenze, di competenze, di visione, di risorse, di umiltà».
Se il mondo dei musei, per primo,
deve affrontare un’approfondita autoanalisi, anche le istituzioni e la società
non possono sottrarsi a questo processo: solo se l’intera collettività
rispetterà i musei, i grandi quanto i piccoli, quali “produttori di cultura”, ogni
strumento destinato ad aumentarne l’efficienza si mostrerà efficace,
accrescendo anche l’attrattività dei musei nei confronti del pubblico. Se, al
contrario, si perderà di vista questo compito primario dei musei, questi appariranno
inevitabilmente sempre inferiori alle aspettative e la misurazione della loro
efficienza resterà circoscritta quasi esclusivamente al conteggio dei biglietti
venduti. Infatti, raramente, soprattutto a livello di
informazione mediatica, si focalizza l’attenzione su altri aspetti determinanti,
come la qualità dei programmi culturali ed educativi e la capacità di essere
presenti nella vita della società. Ciò non vuol dire, come afferma Giancarlo
Dall’Ara, che non ci si debba porre il problema dell’assenza o della
diminuzione di visitatori, ovviamente in relazione al proprio potenziale bacino
di utenza, ma questo aspetto va inquadrato in una più ampia e articolata
valutazione di tutta l’attività promossa dai musei.
“Il
museo non è un’azienda” scriveva qualche anno fa Salvatore Settis per il
quale “la vera "redditività" (…)
non è negli introiti diretti e nemmeno nell'indotto che esso genera (incluso il
turismo), bensì in un senso di appartenenza che incide a fondo sulla qualità
della vita, e dunque anche sulla produttività della società nel suo insieme”.
E’ pur vero, però, che gli studi
sul marketing museale nel frattempo si sono evoluti e dopo una prevalente
attenzione per le tecniche che miravano ad aumentare fatturato e utili, si
concentrano, ora, sulla ricerca di soluzioni che siano in grado di creare
autentico valore per il visitatore (Vittorio Falletti, I musei, 2012, p. 129).
Nel nuovo marketing l’attenzione
è più focalizzata sulle persone, sulla cura delle relazioni interpersonali,
sulle opinioni, sui “luoghi” intesi come insieme di tradizioni e di cultura
locale ma non solo, anche come spazi virtuali di condivisione (social media,
ecc.). Esso si propone di creare esperienze di vita conformandosi ai desideri
della gente e, in base a questo, cerca di creare prodotti che rispecchino
quelle esigenze e aspettative. Da questa filosofia anche il mondo dei
musei potrà attingere strategie e idee.
Oltre ai doveri tradizionali del
conservare, esporre, educare, i musei oggi hanno assunto altri generi di
responsabilità rivolte, per esempio, all’inclusione sociale (quindi alla
ricerca dei pubblici solitamente esclusi dalla fruizione museale), all’armonia
sociale (diventando luoghi di incontro, di conoscenza reciproca e di dialogo) e
alla promozione territoriale (quando sono mediatori di azioni sinergiche
finalizzate a valorizzare le ricchezze culturali ed economiche).
Trovare un punto di incontro tra il desiderio di rendere
più “attrattivi” i musei, il dovere di non snaturarne le funzioni primarie e
l’assunzione di nuovi compiti, è l’unico modo possibile per non perdere pezzi
importanti del nostro patrimonio museale lungo il cammino.
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