A proposito della creazione dei poli e dei sistemi museali regionali
Un articolo di Ledo Prato del 26
febbraio scorso, comparso su Il Giornale delle Fondazioni, fa il punto sul
futuro che potrebbe attendere i musei civici italiani a seguito della Riforma
Franceschini. Vorrei esporre qui alcune mie considerazioni in merito
all’argomento trattato. Quando si parla di politiche museali che propongono modalità
di accentramento delle scelte gestionali e culturali, mi invade un vivo senso di preoccupazione in
quanto il rischio è sempre quello di una perdita della capacità di produrre
cultura in modo indipendente e senza i filtri di organi istituzionali
sovrastanti. Non
intendo dire, con questo, che i sistemi museali siano una scelta sempre negativa,
ma dipende da che cosa si intende con questo termine. Se significa essere inquadrati
in un rigido sistema gestionale che impone solo standard generali e che inibisce
le iniziative dei singoli, allora ritengo che i sistemi museali siano una scelta
negativa; se invece sono utili soprattutto per dare vita ad occasioni
di confronto e a progetti comuni, nel rispetto delle individualità e delle
autonomie di ciascuna istituzione museale aderente, allora ben venga questa soluzione.
Nell’articolo di Prato si parla della possibilità di un accorpamento dei musei locali ai Poli
regionali, i quali - si legge - “possono
favorire le relazioni con le diverse forme di autonomia che hanno assunto i
musei civici e porre le basi per la realizzazione di politiche museali
territoriali che ricompongono l’offerta a vantaggio dei cittadini e dei
visitatori”. I Poli, in realtà, saranno inevitabilmente organismi fortemente
accentratori, "la cui costituzione sarà promossa e realizzata dai direttori dei
poli museali regionali sulla base di modalità di organizzazione e funzionamento
del sistema museale nazionale stabilite dal Direttore generale Musei, sentito
il Consiglio superiore “Beni culturali e paesaggistici” (vedi decreto musei). Non sembra poi così
improbabile che un museo locale, inglobato in una struttura così complessa,
gestita da una tale pluralità di soggetti, avrebbe poco margine di manovra e
vedrebbe fortemente ridotta la propria indipendenza scientifica, culturale e
gestionale. Oltretutto non è chiaro se tale soluzione porterebbe effettivi
benefici dal punto di vista finanziario dato che nell’articolo di Ledo Prato si
legge espressamente che sarà opportuno il ricorso alle associazioni e al
volontariato “per la gestione dei servizi
destinati alla fruizione e valorizzazione dei beni culturali, attraverso lo
strumento delle convenzioni”. Mi chiedo, allora: qual è la novità? I musei civici non sono
forse quasi sempre gestiti in economia dagli enti locali con il supporto del
volontariato? Se questo è ciò che prevede l’appartenenza ad un Polo, si deve
pensare che i vantaggi da questo punto di vista sarebbero pari a zero.
Si
specifica, poi, che “con atti successivi
è possibile che siano meglio definiti i “servizi strumentali comuni destinati
alla fruizione e alla valorizzazione di beni culturali” e si capirà se in
questo contesto si potranno immaginare accordi che contemplino l’affidamento
congiunto fra musei statali e musei civici dei servizi al pubblico (ex legge
Ronchey) o quali saranno le procedure attraverso le quali si potrà pervenire
alla costituzione di uffici comuni, obiettivo già inseguito senza successo
nelle riforme a cavallo fra i due decenni che ci hanno preceduto”. Questo è
l’aspetto più preoccupante della visione che viene prospettata nell’articolo di
Prato. Sebbene in ambito statale si sia constatato che l’affidamento a società
esterne dei servizi al pubblico ha prodotto quella nefasta divisione tra tutela
e valorizzazione e, in generale, un appiattimento delle proposte culturali ed
educative dei singoli musei, si vorrebbe includere anche i musei locali in
questa strategia che ha già mostrato molti lati negativi. Ciò è paragonabile a
voler annullare le singole voci di un coro che può essere melodioso solo se
ogni corista potrà esprimere le proprie specifiche vocalità e tonalità. Può
esserci bellezza in un suono piatto e indifferenziato?
Continuando la lettura
dell’articolo, a un certo punto l’Autore fa riferimento ai piccoli musei
affermando che “per lungo tempo è
prevalsa l’idea che occorresse una specifica politica per i piccoli musei e, in
qualche caso, si è sostenuto che fosse necessaria una legislazione speciale che
ne rispettasse le specificità. Probabilmente poteva essere una strada utile. Ma
in un Paese dove tutto si ritiene che possa essere affrontato e risolto con il
ricorso alla produzione di nuove leggi, con tutto ciò che ne consegue, dubito
che sarebbe stata o sia una strada efficace”. Ora, chi ha seguito il
dibattito museologico di questi ultimi anni sulle tematiche che riguardano i
piccoli musei, sa che l’Associazione Nazionale Piccoli Musei fondata da
Giancarlo Dall’Ara è stata la prima a focalizzare l’attenzione generale sulla
necessità di una specifica politica per i piccoli musei. Stiamo parlando degli
ultimi sei anni e bisogna anche precisare che finora nulla è stato fatto, a
livello ministeriale, per discutere le proposte avanzate dall’Associazione. Non
si può dire, quindi, che si tratti di un argomento ormai superato perché, al
contrario, chi segue i convegni nazionali dell’APM sa che è ancora molto vivo e
sentito e che si è tuttora in attesa dell’auspicato, diretto confronto tra le
Istituzioni e i musei di ogni forma giuridica. Finché tutto ciò non sarà
attuato, dunque, non è lecito affermare che la questione è ormai vecchia e
superata. Certamente ritengo che, per i motivi sopra espressi, la soluzione ai
problemi di gestione non possa essere la creazione di “reti museali di area vasta” e l’istituzione di “forme consortili non imprenditoriali per la
gestione di uffici comuni” perché, al contrario di quanto prevede Prato e nonostante le migliori intenzioni dei legislatori,
temo che proprio questo potrebbe invece marginalizzare i piccoli musei, in
particolare quei musei che risultano “poco produttivi” dal punto di vista
economico, dimenticando che i risultati che un museo deve garantire, in
particolare un piccolo museo situato in aree poco interessate da grandi flussi
turistici, devono piuttosto riguardare non il numero di biglietti staccati ma
l’efficacia della sua azione culturale, educativa e sociale in seno alla
propria comunità. Ciò può essere assicurato solo da professionalità che siano
fortemente integrate nel tessuto sociale in cui operano, che siano in grado di
conoscere profondamente le problematiche e le aspettative della comunità e che
quindi sappiano adeguare le finalità del museo alle specifiche situazioni
socio-ambientali.
A che cosa potrà servire, allora, l’appartenenza ad un polo
museale e la conseguente imposizione di direttive a istituzioni museali completamente
diverse tra loro per tipo, forma giuridica e dimensioni? Si finirà con il
peggiorare le stesse difficoltà che finora sono emerse con l’applicazione di
standard generali a modelli museali eterogenei, alla fine privilegiando sempre
la grande dimensione rispetto alla piccola. Da ciò era nata l’esigenza di
normative specifiche per i piccoli musei che è stata appunto rimarcata dall’Associazione
Nazionale Piccoli Musei.
Ritengo, dunque, che non si possa
fare una proposta di tale impatto per il futuro dei piccoli musei e liquidare
le criticità che potranno presentarsi lasciando al dopo “tutte le questioni sul futuro dei musei, sul loro ruolo, sulle innovazioni
possibili, sul rapporto con i territori e le comunità, sul ruolo dei visitatori
e così via”. Tutto questo, invece, deve essere discusso prima di ogni
tentativo di riforma in modo da non incorrere in errori che potrebbero essere
fatali per il futuro delle piccole realtà museali del nostro Paese.
Kenneth Hudson non sbagliava
quando diceva che i grandi musei dovrebbero comportarsi come un insieme di
musei piccoli perché aveva intuito che un museo di piccole dimensioni presenta
dei vantaggi che ancora oggi troppo spesso la politica tende non solo a
sottovalutare ma, ancora peggio, a considerare un problema, indirizzando così
le proprie decisioni non verso la valorizzazione dei piccoli musei ma verso una
loro trasformazione in musei grandi, accorpando, centralizzando, snaturandone
l’essenza stessa e la vocazione.
Ci sono ambiti che non possono essere gestiti con una
mentalità da banchiere. Sono quegli spazi, come i musei, che appartengono di
diritto alla comunità ed è principalmente in ragione di questo legame che
devono essere studiate le soluzioni più idonee. Se molti musei rischiano la
chiusura è perché non si è lavorato per “essere
amici del pubblico”, per riprendere un’altra frase di Kenneth Hudson. Tutto
il resto è secondario, a cominciare dal numero dei visitatori che sembra essere
la preoccupazione maggiore delle politiche culturali di sempre. Quando si
inizierà a parlare meno di numeri e più di progetti realizzati, saremo sulla
buona strada.