La definizione di museo nelle varie aree del mondo

Una interessante analisi sulla definizione di museo nel mondo è stata proposta da François Mairesse e Olivia Guiragossian nel numero 48-2 2020 dell’Icofom Study Series, di cui si riporta qui la traduzione: 

L’approfondimento segue i dibattiti che si sono svolti intorno alla nuova proposta di definizione del museo da parte di ICOM, a partire da Kyoto 2019; poi, da diversi anni si sta svolgendo un dibattito generale significativo per comprendere l'evoluzione del fenomeno museale nel mondo i diversi modi di definirlo. Dai 269 contributi depositati sulla piattaforma partecipativa aperta da ICOM nel gennaio 2019 e ricorrendo ai metodi di analisi dei dati testuali (software Sphinx), si è cercato di oggettivare la diversità delle concezioni museali nel mondo e di verificare se le modalità di concepire questa istituzione differisce tra i vari continenti. Nell’articolo di Mairesse e Guiragossian emergono importanti differenze all'interno del campo museale, in particolare in America Latina, dove il museo è sempre più associato al suo ruolo sociale. 

I dibattiti sulla nuova definizione di museo proposta da ICOM nel 2019, a Kyoto (Maczek, 2019), hanno in parte cancellato il fondamentale lavoro precedente sull'evoluzione del fenomeno museale nel mondo e i modi talvolta diversi di definire il museo. ICOFOM ha ampiamente contribuito a queste riflessioni, organizzando una decina di simposi e giornate di studio in tutto il mondo e pubblicando diverse monografie sull'argomento (Brulon Soares, Brown & Nazor, 2018, Chung, Leshchenko & Brulon Soares, 2019, Mayoress, 2017). Questo lavoro è stato oggetto di una prima analisi, evocando in particolare il rafforzamento del ruolo sociale dei musei negli ultimi anni (Brown & Mairesse, 2018). Desiderando dar vita ad un processo partecipativo (Sandahl, 2019), Museum Definition, Prospects and Potentials, presieduto da Jette Sandahl, ha creato due database. Il primo di questi, coordinato da Lauran Bonilla-Merchav, è il risultato degli atti di una quarantina di tavole rotonde organizzate dai comitati nazionali e internazionali di ICOM attorno alla definizione di museo, che hanno riunito quasi 900 partecipanti (Bonilla- Merchav, 2019), ma che non è stato reso pubblico. Il secondo, allestito da ICOM dal proprio sito web durante la prima metà del 2019, è il risultato dell’invito, rivolto ai suoi membri, ai comitati, ai partner e a tutte le altre persone interessate a partecipare, a immaginare la nuova definizione del museo. Al termine di questo processo sono state suggerite 269 definizioni, disponibili sul sito ICOM. Poiché le proposte sono state presentate in forma anonima, alla definizione sono stati aggiunti solo i dati del paese di origine del suo autore.

Le modalità di raccolta delle informazioni utilizzate da questo database non garantiscono né l'esaustività né la perfetta rappresentatività delle risposte dei paesi membri dell'ICOM (che conta più di 130 comitati nazionali) né dei professionisti che ne fanno parte (non sono disponibili dati). I contributori potrebbero essere professionisti museali ma anche studenti, consulenti, docenti-ricercatori, ecc. Tuttavia è stato possibile rilevare la diversità delle concezioni del museo nel mondo e verificare se i modi di concepire questa istituzione differiscono da regione a regione. Ipotizziamo, infatti, che se ICOM presentasse un'unica definizione di museo, valida per tutti i comitati nazionali e per tutti i membri, resterebbero però i diversi modi di intendere questa istituzione nel mondo, sui quali sarebbe comunque utile compiere una riflessione. Tale osservazione è già stata formulata per esempio rispetto alle tendenze del mondo anglosassone e quelle dell’area mediterranea o latina, di cui è stato possibile evidenziare i diversi approcci in termini di gestione amministrativa o di rapporti con il pubblico e con le collezioni (Gómez Martínez, 2006 ; Mairesse, 2012).

METODO DI ANALISI

Lo studio si basa sull'utilizzo del software Sphinx, specializzato nell'analisi di dati testuali (Boughzala, Moscarola, & Hervé, 2014). Il corpus comprende 269 definizioni presentate nella lingua originale del loro autore e tradotte in inglese. Ciascuno dei paesi è stato localizzato in un territorio geografico. Ai fini dell'analisi, sono state formate cinque regioni: Africa e Stati Arabi, Asia e Pacifico, Europa (Est e Ovest), America Latina e Caraibi, Nord America. Le risposte codificate provengono da 68 paesi diversi e sono distribuite in modo davvero diversificato in tutto il mondo (Tab. 1). Quasi la metà delle risposte proviene dall'Europa e un quarto dall'America Latina.


Le 269 risposte codificate offrono una gamma molto diversificata di proposte; sono tuttavia solo in parte rappresentative del mondo museale così come lo si può intendere per mezzo di altri indici. Se li confrontiamo con il numero di comitati nazionali di ICOM, le risposte possono essere considerate sufficientemente rappresentative delle diverse regioni del mondo (rapporto tra numero di paesi presentati e numero di Comitati Nazionali ICOM). Tuttavia, questi dati possono anche essere interpretati come non rispecchianti l'importanza della rete museale europea rispetto al numero dei membri di ICOM, che sono per quasi l'85% di questo continente. Le risposte dell'America Latina sono, d'altra parte, in questa stessa prospettiva, sovrarappresentate. Infine, se ci riferiamo alla distribuzione dei musei nel mondo (Mairesse & Unesco, 2020), il campione è molto sfavorevole per il posto dei musei nordamericani nel mondo - ma questi sono scarsamente rappresentati all'interno di ICOM, in quanto sono essenzialmente raggruppati all'interno della propria associazione nazionale, l'American Alliance of Museums. Le risposte dei paesi africani o arabi ma anche dell'America latina sono invece abbastanza sovrarappresentate.

UN PRIMO APPROCCIO AI RISULTATI

Le 269 definizioni costituiscono un insieme di oltre 950 nomi comuni e oltre 400 verbi diversi. La maggior parte di queste parole sono state usate in modo molto episodico (da una a tre volte). Emergono molto più regolarmente un certo numero di sostantivi e verbi, sui quali è opportuno soffermarsi (l'esercizio potrebbe essere svolto anche per aggettivi ed espressioni) (Tab. 2).


L'analisi dei termini utilizzati per definire il museo mostra l'uso di un vocabolario comune, ma anche, a seconda delle parole o delle espressioni sovrarappresentate in determinate aree, lo sviluppo delle specificità regionali (Fig. 1). 

                                       Fig. 1. Specificità del vocabolario utilizzato secondo le regioni

Il vocabolario utilizzato in tutte le regioni (che permetterebbe di sviluppare una definizione abbastanza consensuale del museo) include, ovviamente, termini come "museo", "istituzione", "culturale", "patrimonio", "sociale" o “ricerca”. I verbi più utilizzati sono legati alle funzioni museali: “comunicare”, “preservare”, “conservare”, “acquisire”, “esporre”, ecc. In questa prospettiva, il museo può essere visto come un luogo istituzionale e culturale, a vocazione sociale, ma incentrato sullo studio e la conservazione del patrimonio: una visione che ricorda le definizioni sviluppate da ICOM ai tempi di Georges Henri Rivière (1989), cioè “un'istituzione al servizio della società, aperta al pubblico”. Le parole usate più specificamente in Nord America, da un lato, e nei paesi arabi e africani, sembrano offrire una visione altrettanto classica dell'istituzione: “oggetto”, “ambiente”, “cultura” ed “esperienza” sono gli elementi che ricorrono più regolarmente in Nord America, mentre i paesi arabi e africani usano i termini “istituzione”, “culturale”, “comunità”, “preservare” e “patrimonio”.

Due regioni presentano una visione nettamente diversa dalle precedenti: i paesi dell'Asia-Pacifico, da un lato, e quelli dell'America Latina, dall'altro. Troviamo, nella prima regione, i termini “persone” piuttosto che "pubblico", più astratto, poi "materiale" e "intangibile". L'importanza attribuita al duplice carattere del patrimonio è una caratteristica dei paesi di queste regioni, a cui si deve gran parte della promozione della Convenzione UNESCO sul Patrimonio Culturale Immateriale (2003). Ma è senza dubbio a livello dell'America Latina che le differenze appaiono più evidenti: i termini direttamente associati a questa regione sono: “culturale”, “sociale”, “spazio” e “memoria”. Questi termini danno subito al museo una visione molto più aperta di quanto previsto in Europa.

Sulla base di un'analisi delle corrispondenze, effettuata utilizzando le parole utilizzate nelle definizioni, troviamo questa significativa differenza tra l'America Latina e le altre regioni (Fig. 2)


Fig. 2. MapFpa delle corrispondenze dalle parole del corpus. 
I due assi riassumono il 71,7% delle informazioni, incluso il 50% per l'asse orizzontale

Secondo questi dati, il modo di definire il museo appare relativamente simile tra Europa, Nord America, le regioni dell'Asia-Pacifico e gli stati africani e arabi. Vi sono raccolte le espressioni più classiche, in particolare quella di "società e suo sviluppo", "patrimonio dell'umanità", "tangibile" e "intangibile", "istituzione", ecc. Decisamente diversi sono invece i termini più direttamente legati all'America Latina: comprendono quelli di “memoria”, “esperienza”, “valore” e “virtuale”.

Un saggio sulla tipologia museale

Si è quindi cercato di classificare tutte le risposte in base alla somiglianza statistica delle parole incluse nelle definizioni. L'analisi gerarchica (Reinert, 1983) suggerisce di stabilire quattro categorie, ciascuna delle quali presenta una certa omogeneità ed è sufficientemente distinta dalle altre. Tali categorie - qualificate secondo le parole ad esse associate - sono le seguenti:

 

Il museo classico (28,5% del campione) raggruppa definizioni comprendenti le parole: 'culturale', 'umano', 'luogo', 'persone'. Si possono associare a termini come 'comunità', 'oggetto', 'società', 'sapere' (è indicato dai termini Museo, Umano, Luogo in Fig. 3).

 

Il museo della comunità (27,7%) incorpora definizioni leggermente diverse, ponendo un po' più di enfasi sugli aspetti comunitari. I termini più frequentemente citati sono 'spazio', 'comunità', 'istituzione' e 'culturale' (indicati dai termini Spazio, Comunità in Fig. 3).

 

Il museo-mostra (26,4%) presenta un profilo che raggruppa un maggior numero di termini legati alle funzioni del museo, in particolare quello espositivo, ma anche istituzionale. I termini più frequentemente citati sono 'istituzione', 'pubblico', 'non profit' (indicato dai termini Istituzione, Pubblico, Esposizione in Fig. 3).

 

Il museo sociale (17,4%) è una categoria leggermente più ristretta, che sottolinea una logica ancorata alla società. I termini più utilizzati sono 'culturale', 'sociale', 'istituzione', 'patrimonio', 'pubblico' (è indicato dai termini Culturale, Sociale in Fig. 3).


Fig. 3. Mappa delle corrispondenze dei quattro gruppi secondo i termini del corpus. 
I due assi riassumono il 76,8% delle informazioni, di cui il 44,2% per l'asse orizzontale

La figura 3, in base all’analisi delle corrispondenze, presenta la distanza tra le diverse parole utilizzate nelle definizioni e le quattro tipologie di musei proposte. Notiamo subito la vicinanza tra i primi due gruppi (classico e comunitario), che condividono un gran numero di parole, come 'spazio', 'presentazione', 'persone', 'visitatore', ecc. Questi primi due gruppi sono piuttosto distinti dagli altri due.

Il terzo gruppo include termini più tecnici come “obiettivo”, “organizzazione”, “funzione”, “bene”, ma è anche vicino alla funzione di esposizione (display, esposizione, interpretazione). A questo gruppo viene attribuito il termine 'museologico'. Il quarto gruppo - il museo sociale - è vicino a termini parzialmente legati a principi di ricerca ("ricerca" e "studio"), ma anche a valori che fanno appello alle nozioni di accessibilità, impegno, servizio o sviluppo sostenibile.

Queste quattro categorie sono presenti in tutte le regioni, ma alcune di esse sono chiaramente più rappresentate nell'una o nell'altra area geografica (Tab. 4 e Fig. 4).




Fig. 4. Le quattro categorie di definizioni individuate dal modello


La rappresentazione grafica di queste quattro categorie, a seconda delle regioni, rivela un certo numero di connessioni che è interessante analizzare, anche se è opportuno relativizzare ogni analisi troppo frettolosa, tenendo presente che tutte e quattro le categorie sono rappresentate quasi in tutte le regioni del mondo. Ci sono, tuttavia, alcune connessioni interessanti: il modello del museo sociale è sovrarappresentato in America Latina, e sottorappresentato o inesistente in Asia-Pacifico e Nord America; il modello museale-espositivo appare invece sovrarappresentato in Asia-Pacifico e in Europa.

 

Discussione

Da un lato è opportuno ricordare che la banca dati stessa non offre tutte le garanzie di rappresentatività e che si hanno poche informazioni sulla natura dei contributori. Dall’altro, tuttavia, sappiamo che le proposte che ne derivano provengono da diverse regioni del mondo. Tali dati sono piuttosto circoscritti dato che la maggior parte delle analisi si concentra su una o due regioni specifiche. Possiamo ovviamente rammaricarci della mancanza di contributi in alcune regioni del mondo (in particolare in Nord America): la diversità museale di queste regioni è indubbiamente ridotta. Le risposte del Nord America sembrano presentare un quadro abbastanza simile a quello dell'Europa - fatta eccezione per il rapporto con la comunità, che lì appare più marcato anche se, curiosamente, mostra l'assenza di qualsiasi legame con il museo sociale. In tale prospettiva, i quattro gruppi di definizioni, suggeriti dal software, non possono essere presi alla lettera, come una nuova tipologia museale rigoroso-sensu. D'altra parte, però, consentono di oggettivare l'esistenza di differenze nella percezione del museo in tutto il mondo - e all'interno della stessa regione. Tali differenze non sembrano, peraltro, irrilevanti.

Si noterà, innanzitutto, la comparsa di un vocabolario comune che emerge attraverso le occorrenze più utilizzate nel corpus. Non sorprende che si disegnino i contorni di un museo abbastanza classico - si pensi alla definizione ICOM del 2007 - con nomi come 'istituzione', 'patrimonio', 'ambiente', 'pubblico', 'cultura', 'ricerca', 'società', 'collezione' e verbi come 'comunicare', 'conservare', 'conservare', 'acquisire', 'esibire', 'raccogliere', 'creare', 'ricercare'. E’ anche utile rilevare l'importanza di alcune parole, come 'comunità' o l'aggettivo 'sociale', che non compaiono nelle definizioni attuali, ma sono comunque utilizzate in un gran numero di definizioni.

Due delle categorie - quelle presentate qui come il museo classico e il museo comunitario - sono talvolta difficili da distinguere l'una dall'altra. Le altre due categorie sembrano presentare un'immagine singolare, particolarmente interessante da analizzare.

Per quanto riguarda il modello museale-espositivo, sovrarappresentato nelle definizioni dell'Asia-Pacifico (ma che si ritrova in modo importante anche in Europa), parte della trasformazione del mondo museale è avvenuta a partire dall'idea del museo come medium (a parziale scapito della collezione), cioè come spazio di operazione sociale (Davallon, 1992). Questa dimensione è stata notevolmente rafforzata negli ultimi anni, attraverso il ruolo sociale del museo, di cui si discuterà di seguito, ma anche da sviluppi più tecnologici o economici nel museo. L'epifenomeno della costituzione di filiali di alcuni celebri musei, storia di successo degli anni '90, ha trasformato gradualmente l'immagine del museo, non più basata sulle sue collezioni o sul suo ruolo educativo, ma sulle sue mostre, sulla sua immagine architettonica e sul suo ruolo economico all'interno della regione (Tobelem, Arana & Ockman, 2014). Molti nuovi edifici museali costruiti in Asia, soprattutto in Cina dove il fenomeno è notevolmente aumentato negli ultimi anni (Jacobson, 2014), sono stati progettati senza collezioni. Molti stabilimenti, che si definiscono "musei", giocano così di fatto un ruolo di centro espositivo (Morishita, 2010). Questo fenomeno è accentuato dallo sviluppo di nuove tecnologie, che vede - in Corea del Sud, ma anche in Francia, con l'Atelier des Lumières - la comparsa di strutture che presentano solo dispositivi immersivi basati sulla multimedialità, particolarmente spettacolari (Ji, 2018, p. 317-330). Si intuisce, attraverso il rafforzamento della dimensione espositiva, l'emergere di un nuovo tipo di edificio culturale, dedito essenzialmente ad attività destinate al pubblico, e poco se non affatto incentrato sulla costituzione o sulla conservazione delle collezioni.

Questa tendenza può essere osservata allo stesso modo attraverso la dimensione sociale del museo. Indubbiamente uno dei dati più imponenti di questa analisi riguarda l'identificazione di un gruppo abbastanza coerente e in particolare sovrarappresentato in America Latina, legato alla dimensione sociale del museo. Questa tendenza era già chiara dalle prime conferenze organizzate da ICOFOM intorno alla definizione del museo, e in particolare quelle organizzate a Parigi, Buenos Aires, Rio e St Andrews (Brulon Soares, Brown & Nazor, 2018, Mairesse, 2017). Secondo i circa sessanta contributi presentati durante questi primi convegni, i termini che sarebbero stati aggiunti per modernizzare la definizione del museo erano quasi per metà legati al suo ruolo sociale.

Tale tendenza, ancora una volta, non è recente. La storia del ruolo sociale del museo ha radici lontane, rafforzandosi in particolare con le crisi economiche (Capart, 1930). La fine del primo decennio degli anni 2000, segnati dalle crisi , in tal modo ha dato luogo a un gran numero di pubblicazioni sul modo in cui il museo organizza la sua funzione sociale (Silverman, 2010), ma anche sui modi di sviluppare questo ruolo per adattarsi, negli anni a venire, ai cambiamenti della società (Black, 2010; Associazione Musei, 2012).

Questo fenomeno è in gran parte globale, ma sembra aver trovato un terreno particolarmente fertile in America Latina, dove le dimensioni sociali e politiche del museo sono molto presenti sin dalla Dichiarazione di Santiago del Cile (Teruggi, 1973). Ciò che i risultati sembrano illustrare, in questo contesto, è l'emergere di un'originale forma di concetto museale, fortemente radicato in America Latina. Questa ipotesi è ampiamente corroborata dall'importantissima attività del mondo museale in America Latina (Castilla, 2010), in particolare sul piano teorico, come si evince dall'attività svolta dal sottocomitato per la museologia operante in America Latina (ICOFOM LAM) da un quarto di secolo. Un concetto originale che si è formato nel continente latinoamericano sulla scia di pensatori come Paulo Freire (1992), molto impegnato socialmente, e attraverso gli scritti di autori come Waldisa Rússio, Felipe Lacouture, Norma Rusconi, Teresa Scheiner, ecc. (Escudero, 2019). Diversi di questi autori si sono ribellati a una certa egemonia del pensiero museologico globale, dominato dalle lingue dei vecchi imperi (inglese, francese) (Brulon Soares & Leshchenko, 2018; Scheiner, 2016), evocando implicitamente l'importanza di un pensiero originario, non sufficientemente riflesso dal pensiero museologico su scala mondiale. Va riconosciuto che la rete latinoamericana rimane relativamente piccola rispetto a quella presente in Nord America e in Europa: ci sono un totale di 7.810 musei in America Latina sui quasi 95.000 diffusi nel mondo, ovvero l'8,3% del patrimonio museale o 12, 2 musei per milione di abitanti (contro i 52 dell'Europa). Tuttavia, questa rete appare particolarmente dinamica, in particolare per quanto riguarda il suo impegno sociale e lo sviluppo di nuove forme museali, come Pontos de Memoria (IBRAM, 2016).

Se tale dinamica sembra essere presente soprattutto nel continente latinoamericano, sembra ancora troppo presto per parlare di un movimento simile in Asia, in Africa o nei paesi del mondo arabo che potrebbe altrettanto legittimamente pretendere l'affermarzione di un pensiero originale sul concetto di museo. È anche vero che queste regioni hanno senza dubbio conosciuto uno sviluppo più recente delle loro reti, rispetto al movimento museale già di vecchia data in America Latina (il primo insegnamento di museologia risale al 1932, a Rio de Janeiro in Brasile).

In generale, la percentuale di parole che erano già contenute nella definizione Icom del 2007 (Vienna) è dell'11,5% all'interno del corpus qui analizzato (Tab. 6); la percentuale di parole usate collegate alla definizione Icom del 2019 (Kyoto) è del 6,6% (contro il 3,7% delle parole comuni). Ciò significa, da un lato, che i termini legati a queste due definizioni ICOM sono molto più probabili nelle definizioni rispetto ad altre parole usate nella vita di tutti i giorni.

È particolarmente interessante notare, invece, che le proposte di definizione di museo provenienti dall'Europa utilizzano un numero maggiore di parole della definizione Icom del 2007 e significativamente meno quelle della definizione del 2019, mentre gli altri continenti presentano proposizioni nella media. A questo livello, invece, spicca l'America Latina: le proposte di questa regione sono infatti molto meno influenzate dalla definizione del 2007 e contengono significativamente più parole identiche a quelle che si trovano nella proposta presentata a Kyoto.

 

Conclusioni

Sebbene richieda una certa cautela nell'interpretazione dei risultati, il database formato dalle 269 proposte di definizione dei musei, risultanti dalla consultazione dei membri dell'ICOM, costituisce un campo di analisi particolarmente interessante.

Dalle prime analisi, infatti, sembra emergere una regione del globo che presenta una visione originale e parzialmente diversa del museo: l'America Latina. C'è certamente un vocabolario comune utilizzato nella maggior parte delle definizioni, che ricorre in tutto il mondo (e che ricorda molti dei termini usati nella definizione Icom del 2007), ma una certa visione del museo, essenzialmente centrata sulla sua dimensione sociale, sembra emergere attraverso l'uso di alcune parole, oltre che attraverso la tipologia calcolata dal software Sphinx. Se infatti esaminiamo le quattro categorie - qui identificate come museo classico, museo comunitario, il museo-mostra e il museo sociale - quello che più spicca è infatti legato a nozioni legate al ruolo sociale del museo. Non si può non collegare questi risultati con l'emergere, negli ultimi decenni, e con maggiore intensità negli ultimi anni, del pensiero museologico latinoamericano contemporaneo. Le idee discusse in quell’ambito, in gran parte basate su questioni politiche e sociali, sembrano corroborare questa analisi.

Ciò non impedisce, ovviamente, che questi primi risultati possano essere affinati mediante la costituzione di una banca dati più ampia, costituita in modo tale da rafforzare la rappresentatività dei risultati, includendo anche maggiori informazioni sugli autori delle definizioni - che non sono state oggetto di alcuna analisi in questa sede. Comunque sia, i metodi utilizzati in questo articolo sembrano auspicare risultati promettenti nell'analisi del pensiero museologico e del modo in cui si sviluppa nel mondo.

Per la bibliografia si veda l’articolo originale: https://journals.openedition.org/iss/2630 


Musei e disabilità nel periodo post-pandemia

 Un riassunto dell’analisi di Rafie R. Cecilia, “Pandemia COVID-19: svantaggi oppure opportunità per i visitatori del museo non vedenti e ipovedenti?”, Journal of Conservation and Museum Studies, 19(1), p.5. 

 

Le nuove misure attuate in risposta alla pandemia COVID-19 hanno avuto un impatto significativo sui musei e sul settore culturale nel Regno Unito e in tutto il mondo. L'attuale crisi ha dato impulso a dibattiti sull'accesso alle collezioni museali sia fisiche che digitali. I musei stanno rivalutando le proprie politiche di accessibilità e stanno cercando nuovi modi per raggiungere e coinvolgere il pubblico con disabilità. Questo articolo presenta i risultati di interviste semi-strutturate condotte da aprile a luglio 2020 (durante il primo lock-down nel Regno Unito) con persone non vedenti e ipovedenti sulle loro preoccupazioni e aspettative alla luce della riapertura dei musei. Si discute di come la pandemia ha cambiato il modo in cui le istituzioni pensano e forniscono accessibilità e inclusione. Infine, include una riflessione sull'esperienza maturata durante la pandemia.

Negli ultimi 30 anni, diversi progetti di ricerca e pubblicazioni hanno analizzato in che modo gli ambienti museali siano accessibili per le persone disabili e, in particolare, per i visitatori non vedenti e ipovedenti. Diversi progetti hanno esaminato l'esperienza delle persone cieche e ipovedenti per identificare sfide e opportunità al fine di creare ambienti museali fisici e digitali più inclusivi. Gli studi hanno riconsiderato il ruolo del tatto nella comprensione sia dei ciechi/ipovedenti che dei visitatori vedenti come parte del cambiamento nel valore della cultura materiale e nella comunicazione del patrimonio culturale. I ricercatori hanno esaminato risorse come modelli tattili, stampe 3D, calchi e repliche per comunicare le caratteristiche degli oggetti esposti, in particolare la consistenza, il peso, la temperatura, la forma e le dimensioni, al fine di creare anche una comprensione alternativa degli oggetti e dei valori intangibili che rappresentano.

In un quadro socioculturale, alcuni studiosi sostengono come la possibilità di visitare i musei faccia parte del processo di normalizzazione sperimentato dalle persone cieche o ipovedenti, in quanto consente loro di rimanere in contatto con la realtà che forse conoscevano prima di perdere la vista e con i propri interessi precedenti. Inoltre, ciò assicura il mantenimento di un normale livello di coinvolgimento da parte delle persone vedenti, senza esclusioni. Sebbene negli ultimi anni lo sviluppo di risorse accessibili e servizi inclusivi sia stato significativo, il processo per superare l'esclusione e creare parità di pratiche di accesso nei musei è ancora in corso e richiede un impegno maggiore a livello istituzionale.

L'attuale pandemia di Coronavirus (COVID-19) sta avendo un effetto diretto sul modo in cui le persone con cieche e ipovedenti accedono agli spazi museali fisici e alle esperienze museali digitali. Da un lato si assiste a un impatto negativo dovuto alle limitazioni alla mobilità, alle nuove barriere fisiche, all'impossibilità di toccare gli oggetti, alla mancanza di assistenza dedicata e alla difficoltà di mantenere il distanziamento sociale. D'altra parte, stanno emergendo segnalazioni di esperienze positive generate da nuove possibilità di lavorare, studiare, socializzare e partecipare alle opportunità culturali da casa, superando le barriere di accesso fisico.

Oltre alla riapertura dei musei nel luglio 2020, dopo il primo lockdown nel Regno Unito, il governo ha rilasciato una guida dettagliata per assistere le istituzioni in questa fase. Questa linea guida considera l'accessibilità come un problema di mobilità e fornisce principalmente consigli generali per "considerare e soddisfare le esigenze di accesso" quando si sviluppano nuovi percorsi e sistemi di distanziamento sociale. Tuttavia, poco viene offerto in termini di come attuare praticamente tali misure. Diverse organizzazioni hanno, a loro volta, rilasciato proprie linee guida e messo in atto risorse per coinvolgere il pubblico sia da remoto che di persona, nell'era post-lockdown. Sebbene queste risorse siano state costantemente aggiornate per tutto il 2020 e abbiano iniziato a considerare la risposta dei visitatori agli sforzi di riapertura, non sono ancora altro che una soluzione temporanea. I professionisti dei musei devono intensificare il proprio impegno per misurare l'impatto a lungo termine della pandemia e per garantire che non pregiudichi gli sforzi per rendere i musei spazi inclusivi, accessibili e accoglienti.

Ci si chiede quanto tempo ci vorrà per tornare a un'esperienza pre-pandemia "normale". Per esempio, una grande preoccupazione per le persone cieche e ipovedenti riguarda il mantenimento di una corretta distanza dalle altre persone. I problemi di vista rendono difficile (se non impossibile) misurare indicativamente una distanza di 2 metri dalle persone che sono intorno. Inoltre, i cani guida non sono addestrati né in grado di valutare la nuova distanza "corretta". Le difficoltà aumentano se lo spostamento avviene in spazi museali complessi e non lineari. Tali ostacoli, quindi, sono dovuti in egual misura alla disabilità visiva e alle complesse modalità di progettazione e organizzazione degli spazi museali.

Diversi studi hanno dimostrato come il tatto sia una risorsa preziosa per il coinvolgimento dei visitatori con disabilità visiva. Le esperienze tattili, insieme ad altre forme di coinvolgimento multisensoriale, sono tradizionalmente considerati i principali strumenti per rendere accessibili le esposizioni. Purtroppo, la maggior parte dei musei ha sospeso tutte le attività pratiche e le installazioni tattili a seguito della pandemia. Sebbene sia difficile prevedere quando sarà considerato di nuovo sicuro toccare superfici non igienizzate, queste esperienze non possono essere sospese per sempre in attesa che la pandemia finisca. La comunità scientifica sta già iniziando a riflettere sul rischio che il contatto con le superfici può comportare. A seguito di questi recenti sviluppi scientifici, i professionisti museali, in particolare i conservatori, devono prepararsi a sperimentare materiali e tecniche di pulizia per essere pronti a ricominciare a offrire opportunità tattili non appena sarà possibile. Mentre alcuni fattori legati alla conservazione (ad esempio i danni agli oggetti causati dall'igienizzante per le mani, la difficoltà di pulire e disinfettare regolarmente gli oggetti, ecc.) rendono difficile l'accesso tattile agli oggetti originali, è possibile iniziare a pensare di utilizzare delle repliche più facili da pulire, come stampe 3D in plastica o repliche di carta monouso.

È probabile, quindi, che le nuove regole di distanziamento sociale produrranno un effetto sul comportamento delle persone e un impatto sul loro coinvolgimento nei musei, con potenziali effetti a lungo termine. Siamo diventati più consapevoli della necessità di igienizzare le mani prima di toccare i nostri volti o altre superfici. Le nostre strategie di movimento sono cambiate, così come la nostra risposta al contatto con gli oggetti. La pandemia e il senso di incertezza a lungo termine rischiano di minare i livelli di indipendenza e fiducia sviluppati dai visitatori con disabilità visive. Ancora più preoccupante è che si possano creare barriere insormontabili che potrebbero scoraggiare definitivamente le persone disabili ad entrare nei musei. La pandemia non può diventare l'ennesimo pretesto per non offrire esperienze inclusive alle persone con disabilità.

Quindi la domanda che dovremmo porci ora è: cosa possono fare i musei per garantire che le nuove pratiche in presenza e digitali diventino un'opportunità per migliorare l'accessibilità, piuttosto che creino un'altra barriera per le persone disabili? Tutti i professionisti museali sono ora tenuti ad agire rapidamente per elaborare strategie che garantiscano un grado di accessibilità sicuro. È tempo di sperimentare diversi materiali, tecniche di pulizia, tecnologie e risorse digitali. È tempo di raggiungere un pubblico tradizionalmente emarginato e comunicare in modo efficace che i musei sono "luoghi per tutti", dove possono sentirsi accolti, rappresentati, inclusi e al sicuro. I musei hanno la responsabilità sociale di guardare e agire oltre la crisi.

 

Link originale: https://www.jcms-journal.com/articles/10.5334/jcms.200/

 

Musei africani: il Museo di Dundo, Angola

Il Museo di Dundo nasce nel 1936 in Angola (allora colonia portoghese), nel distretto di Lunda,  grazie alla Compagnia dei Diamanti dell'Angola (Diamang). Scopo del museo era ed è salvare e proteggere la cultura tradizionale africana, minacciata di estinzione a causa della colonizzazione e dalla modernizzazione. A tale scopo i curatori hanno organizzato diverse campagne per raccogliere oggetti, reperti archeologici e naturalistici (fauna e flora), campioni geologici, nonché raccolte etnografiche di letteratura orale. Si tratta, quindi, di un museo multidisciplinare. 

Ingresso del Museo di Dundo

In passato, soprattutto negli anni Quaranta si iniziò a formare gruppi folkloristici che lavoravano per il museo realizzando spettacoli di folklore indigeno; inoltre furono sviluppate campagne sistematiche per dare vita a collezioni etnomusicologiche. Dopo l'indipendenza dell'Angola, l'11 novembre 1975, la Compagnia dei Diamanti fu sciolta e fu sostituita da Endiama — Empresa Nacional dos Diamantes de Angola. Durante questo periodo, segnato dalla guerra civile e dalla successiva ristrutturazione del paese, il museo continuò a custodire le collezioni. Nel 2003 ha ufficialmente chiuso i battenti al pubblico per poi riaprire nel 2012 con il nome di Museu Regional do Dundo con la mostra permanente "Memoria vivente della cultura nella regione orientale dell'Angola". 

Maschere ancestrali
Maschere ancestrali

 
Attualmente la collezione espositiva conta circa 9.000 oggetti e 30.000 esemplari di storia naturale e dispone di un erbario con vari campioni di piante di questa regione alcune delle quali con effetto terapeutico; possiede, inoltre, una collezione archeologica ancora da inventariare.

Comprende 14 sale espositive (12 permanenti, 1 temporanea e una folcloristica), ed anche una biblioteca. 

Il Museo di Dundo è considerato uno dei più importanti patrimoni culturali africani. 


Fonti: 

https://www.africanews.com/2021/04/22/come-with-us-on-a-tour-to-discover-the-first-museum-built-in-angola/

http://www.taag.com/pt/Destinos/Guia-de-destinos/Sugest%C3%A3o-Simples/museu-do-dundo

https://pt.euronews.com/2021/04/22/museu-do-dundo-guardiao-da-memoria-do-leste-de-angola

https://www.berose.fr/rubrique724.html?lang=en

Musei a prova di Covid

La primavera scorsa è stato diffuso uno studio del Berlin Institute of Technology in base al quale è stato determinato che il rischio di trasmissione di COVID-19 è molto più basso nei musei e nei teatri rispetto a supermercati, ristoranti, uffici o trasporti pubblici.

Lo  studio, condotto da Martin Kriegel e Anne Hartmann, si basa su una valutazione comparativa degli ambienti interni per valutare il rischio di infezione tramite particelle di aerosol. L'analisi considera la durata media della permanenza in un determinato spazio (due ore al museo; otto ore in un ufficio; un'ora al supermercato; ecc.), la qualità del flusso d'aria, il tipo di attività svolta nello spazio e la dose di particelle di aerosol inalate dalle persone in una stanza, tra le altre variabili. Ad ogni ambiente è stato assegnato un valore R, che indica il numero di persone che in media un portatore di COVID-19 può infettare.

Questa tabella rappresenta il risultato delle analisi:


I ricercatori hanno scoperto che se mantenuti al 30% della capacità, rendendo obbligatoria la mascherina e seguendo le dovute precauzioni, musei, teatri e opere sono più sicuri di qualsiasi altra attività che è stata oggetto dell'analisi. 

Nei musei, il valore R si attesta a 0,5 rispetto, per fare un esempio, allo 0,6 nei parrucchieri e allo 0,8 nei trasporti pubblici.

Fare shopping in un supermercato con una mascherina è due volte più rischioso che visitare un museo, secondo lo studio, con un valore R a 1,1. Il rischio di infezione è più che raddoppiato quando si cena al chiuso in un ristorante con una capacità del 25% (1.1) o si fa esercizio in una palestra con una capacità del 30% (1.4).

Interessante l'opinione del critico d'arte Carolina A. Miranda che in un articolo sul Los Angeles Times ha definito "assurde" le politiche del governatore della California Gavin Newsom:

"I criteri adottati, estremamente irregolari, fanno pensare più a lobby potenti e ben finanziate che aiutano a plasmare la politica sulla salute pubblica piuttosto che all'applicazione di criteri realmente scientifici o persino al buon senso", ha scritto Miranda. 

Fonti: 

American Alliance of Museums

Hyperallergic

Domusweb


L'appello dei Professori universitari Francesco Benozzo e Luca Marini contro il greenpass che maschera l'imposizione del vaccino anche nei luoghi della cultura e nelle università

 Riporto, qui, il testo dell'appello che tutti possiamo condividere e inoltrare: 

Una lettera scritta dai Professori universitari Luca Marini (Diritto internazionale, La Sapienza) e Francesco Benozzo (Filologia romanza, Bologna) è stata inviata il 14 agosto 2021 alle massime cariche dello Stato (leggi e scarica la lettera).
Coloro che lo desiderano possono inviarla in massa - con oggetto "Condivido" o "Aderisco" - ai seguenti indirizzi:


Ecco il testo della lettera:

Appello al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Presidente del Senato, al Presidente della Camera, al Presidente della Corte costituzionale
Illustrissimo signor Presidente, desideriamo, con questo Appello, sottolineare e sottoporre alla Sua attenzione e valutazione le criticità e le contraddizioni che caratterizzano la campagna vaccinale in corso e di cui molti italiani stanno prendendo consapevolezza, talvolta con reazioni esasperate in assenza di informazioni corrette e verificabili. Sta diffusamente emergendo la consapevolezza che i vaccini anti-Covid sono stati autorizzati dall’Unione europea, sulla base del regolamento della Commissione n. 507/2006 del 29 marzo 2006, in assenza di evidenze scientifiche e di dati clinici relativi alla loro efficacia e alla loro sicurezza; sta diffusamente emergendo la consapevolezza che la disponibilità di terapie, già sperimentate in altri Paesi, farà venire meno uno dei presupposti richiesti dal citato regolamento della Commissione per il rilascio di nuove autorizzazioni, oltreché per il rinnovo di quelle già concesse; e sta diffusamente emergendo la consapevolezza che proprio lo stato emergenziale, continuamente prorogato pur a fronte della nuova realtà sanitaria, sia sostenuto e giustificato da un politica normativa ormai controversa e dibattuta. Con la mutata consapevolezza collettiva, gli italiani continuano ad assistere alle azioni del Governo volte a promuovere la campagna vaccinale, ora obbligando alla vaccinazione gli appartenenti alle professioni sanitarie, ora adottando provvedimenti che di fatto spingono surrettiziamente alla vaccinazione larghe porzioni di cittadini, nonché ulteriori, specifiche categorie professionali, come i docenti delle scuole e delle università. Queste azioni, se prefigurano possibili violazioni dei diritti e delle libertà fondamentali garantiti dalla Costituzione italiana, si pongono immediatamente in contrasto con alcuni principi generali di diritto internazionale e di bioetica, quali il principio di precauzione, recepito anche dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, il principio del consenso informato, sancito dal Codice di Norimberga del 1947 e, da allora, mai più messo in discussione, nonché il principio di beneficienza, di non maleficenza e di equo accesso alle risorse sanitarie, cui si ispira anche la Convenzione europea sui diritti dell’uomo e la biomedicina. Le azioni del Governo si pongono in contrasto anche con le dichiarazioni contenute nella risoluzione 2361 (2021) dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa del 27 gennaio 2021 – e con le relative norme della Convenzione europea sui diritti dell’uomo – secondo cui gli Stati devono assicurare che «i cittadini siano informati che la vaccinazione non è obbligatoria e che nessuno subisca pressioni politiche, sociali o di altro tipo affinché si vaccini, se non desidera farlo personalmente», nonché con le considerazioni contenute nel preambolo del regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio n. 2021/953 del 14 giugno 2021, secondo cui occorre evitare la discriminazione diretta o indiretta dei soggetti che «hanno scelto di non vaccinarsi». In qualità di componenti del mondo universitario, riteniamo indispensabile, nel silenzio generale di Rettori, Organi accademici, Sindacati, Associazioni, richiamare la Sua attenzione su comportamenti e azioni del Governo suscettibili di sviluppi e possibili derive che potrebbero incidere profondamente sui diritti e sulle libertà individuali e sul rapporto tra governanti e governati in una società che fa del metodo democratico il proprio baluardo. Nel fare ciò – in tempi durissimi per la libertà di pensiero, specialmente nella dimora che dovrebbe tutelarlo e farsene portavoce: l’università – intendiamo ribadire anche la nostra ferma volontà di cittadini di non accettare acriticamente i provvedimenti che hanno già colpito il mondo sanitario, che colpiscono ora l’università e la scuola, e che inevitabilmente finiranno per estendersi, anche surrettiziamente se accettati nel silenzio dei rappresentanti del pensiero critico, a tutta la comunità e a tutti gli individui. Abbiamo scritto questa lettera, illustrissimo Signor Presidente, perché ci sentiamo animati dalla passione che il nostro mestiere di studiosi e docenti ci ha insegnato, e riteniamo di averla scritta – col privilegio fino a questo momento concessoci di insegnare in due delle più antiche università del mondo – in nome di quanti ci hanno preceduto, erigendo i principi su cui si fonda la nostra società e di quanti hanno il diritto inalienabile a costruirvi la propria felicità. La ringraziamo, illustrissimo Signor Presidente, per l’attenzione che vorrà prestare al nostro Appello e, se lo riterrà fondato sul piano etico e giuridico, per le azioni che vorrà porre in essere secondo le Sue competenze.
Con i più distinti ossequi.
Francesco Benozzo e Luca Marini
(Alma Mater Studiorum / Università di Bologna - Università degli Studi di Roma “La Sapienza”)
14 agosto 2021

La crisi dei musei

Quando la crisi pandemica terminerà, probabilmente i musei vivranno una seconda crisi, questa volta non sanitaria, ma esistenziale. Negli ultimi sessant’anni circa si è affermato un concetto di museo come luogo di incontro e di superamento dei contrasti, delle differenze e delle esclusioni, per il quale, cioè, era considerata essenziale la capacità di instaurare un buon rapporto con la cittadinanza. Soprattutto nel caso dei musei locali, si è ripetuto all’infinito che se a una parte della cittadinanza è negato il diritto di usufruirne - perché, per esempio, vivono dei disagi profondi, delle situazioni di conflitto, di divisione o di esclusione sociale - il museo, che dovrebbe riflettere l’immagine di quella comunità, ma che vive distante dai suoi problemi, sarà, nella sostanza, incapace di incidere profondamente nella vita della società. «Senza valore sociale il museo è nulla» e «i musei devono esistere per qualcuno, non per qualcosa»- affermava il museologo americano Stephen Weil.
Negli ultimi anni, poi, si è parlato insistentemente di musei democratici, di musei inclusivi, di musei che superano i propri confini fisici e ogni tipo di barriera, soprattutto culturale, per incontrare la gente. Quanti di noi hanno fatto propri i principi della Convenzione di Faro e hanno ammirato, accogliendone i valori, il manifesto dei musei del premio Nobel turco Orhan Pamuk: come resistere all’ideale di un museo che non rappresenta uno stato, una nazione, una società o un determinato periodo storico, ma che, piuttosto, “è capace di rivelare l'umanità degli individui”. Concetti che nella circostanza attuale si sono rivelati molto difficili da mettere in pratica e che, invece, hanno messo a nudo la totale dipendenza dei musei dai poteri centrali. Anziché promuovere il dibattito e favorire il confronto, la maggior parte dei musei si è limitata, nei casi migliori, a prendere atto dell’introduzione del Green pass per l’accesso ai musei e ai luoghi della cultura, nei peggiori, a mostrarsi perfino entusiasta del compito di separare i cittadini “buoni” da quelli “cattivi”, colpevoli quest’ultimi di esprimere dei dubbi sulla legittimità di un’imposizione di questo tipo.
Le associazioni museali italiane tacciono, neppure una iniziativa di dibattito su un tema così scottante e delicato che rischia di cambiare per sempre la percezione che i cittadini avranno dei musei e di annullare decenni di lavoro finalizzati ad accorciare le distanze tra la ristretta comunità accademica e il grande pubblico. Ogni fatica per conquistare ai musei un ruolo più democratico nell’ambito della società, per favorire il coinvolgimento e la partecipazione del pubblico, cercando di far passare il messaggio che i musei non hanno paura del dialogo, del dibattito, della polemica, delle opinioni, ma anzi le sollecita, sta per andare in fumo.
In alcuni casi si è tentato di animare il dibattito sulla questione, ma la risposta di alcuni professionisti museali è stata lo sventolamento orgoglioso del proprio personale Green pass, accompagnato da emoticons sorridenti, quasi fosse un vessillo, un simbolo nazionale, un segno della nuova identità in cui parte della società sembra ora volersi riconoscere.
La domanda, allora, sorge spontanea: le convinzioni tanto amate da molti professionisti museali, basate sulla Convenzione di Faro e sul manifesto di Pamuk, erano state realmente assimilate o era solo un’operazione di marketing? La cultura e i musei sono mai stati veramente liberi dalle influenze politiche o sono stati sempre soggetti all’iper-burocratizzazione centralizzante? Giovanni Pinna scrisse (a proposito degli ecomusei, ma si può estendere il concetto a tutti i musei, soprattutto di natura locale) che “è impensabile che possa essere lasciato alle singole comunità il diritto di gestire autonomamente le proprie memorie storiche sociali. Il processo di controllo politico e sociale è evidente soprattutto nella burocratizzazione delle microstrutture museali locali - denominate spesso erroneamente ecomusei - realizzata attraverso il ricatto economico, imponendo cioè un certo tipo di organizzazione attraverso normative collegate alla erogazione di contributi pubblici”. Solo un’apparente libertà, dunque, che spiega, in parte, come nessun museo si sia posto come prioritario il dovere del dibattito e del confronto, uniformandosi ad una altrettanto schiava informazione pubblica, talmente a senso unico da essere imbarazzante.
Peraltro, è noto che in Europa la stessa spinta all’inclusione sociale è divenuta una delle finalità perseguite dai musei non tanto per una spinta venuta dall’interno del settore museale, ma a seguito della politicizzazione dei musei. Nel Regno Unito, per esempio, a seguito della pressione del governo New Labour, non solo musei e gallerie, ma anche altre istituzioni pubbliche, come gli ospedali, le università e le scuole, furono incoraggiati a considerare l’inclusione sociale come una delle proprie funzioni essenziali. La giornalista e scrittrice Josie Appleton ha descritto tale processo di cambiamento nel Regno Unito (“Museums for the people”, https://www.spiked-online.com/.../08/museums-for-the-people/): “fu così che i musei cominciarono a riorganizzarsi cercando di occuparsi il più possibile delle relazioni con la comunità. Per la Gran Bretagna dei New Labour la parola “inclusione sociale” sembrava essere di gran moda, ma restava comunque un concetto oscuro, non pienamente compreso, che nasceva piuttosto da un’ansia del pericolo di frammentazione sociale e dalla possibilità che potessero esistere individui isolati, senza un proprio scopo nella vita, e che quindi dovevano assolutamente essere aiutati. Laddove esistono persone abbandonate a se stesse è più alto, infatti, il livello di criminalità, più basso il livello culturale e la pratica di attività sportive. In sostanza, si possono creare situazioni o fasce sociali in cui la qualità di vita è molto bassa. Per ovviare a questo inconveniente, il Dipartimento britannico per la Cultura, i Media e lo Sport (DCMS), adottò una strategia che vedeva i musei e le gallerie coinvolti in prima linea nell'impegno sociale, tesi a responsabilizzare le persone nel saper individuare il loro posto nel mondo e nel riuscire a svolgere un ruolo attivo nella società. Il Group for Large Local Authority Museums (GLLAM) sostenne questa strategia, nella convinzione che i progetti di inclusione sociale generino maggiore autostima, fiducia e creatività, contribuendo a sviluppare una vita sociale più attiva e soddisfacente. In quel momento i musei britannici avevano un grande bisogno di auto-giustificare la loro esistenza perché per almeno una decina d’anni erano stati messi sotto processo dalla società per il loro ruolo di “badanti” e per la loro troppo stretta connessione con lo studio e l’interpretazione di “oggetti”, che li aveva tenuti isolati dalla concretezza della vita reale. Le critiche erano state talmente dure che, a destra, l’ex Primo Ministro Margaret Thatcher aveva definito i musei “inutili”, e pertanto aveva cercato di “modernizzarli” e di renderli più “efficienti”, introducendo le logiche del marketing per la loro gestione e per la valutazione dell’efficacia del lavoro svolto. A sinistra, invece, si continuava ad attaccare i musei, considerandoli istituzioni tenute in vita da élite ideologiche che tendevano ad escludere le masse”.
A questo punto, il Dipartimento per la Cultura, i Media e lo Sport dovette affrontare con decisione la crisi di identità dei musei. L’ordine del giorno fu, oltre che rendere esplicita la volontà di politicizzare i musei, il suggerimento di individuare, ogni anno, un tema sociale da mettere in luce e approfondire attraverso mostre o altri eventi di questo tipo.
Durante gli attacchi rivolti alla categoria, molti professionisti museali erano rimasti in silenzio. Forse erano talmente demoralizzati che i progetti di inclusione sociale a quel punto sembravano necessari non solo al pubblico ma soprattutto a se stessi. Grazie a questi progetti, infatti, il personale dei musei cominciò a sentirsi più utile e necessario, e a ritrovare nuove energie. Qualcuno affermò di sentirsi “più connesso”, “più integrato” nell'ambito della comunità, forse più vicino alla realtà di quanto non fosse prima, quando si occupava solo delle collezioni espositive.
Ma questa nuova funzione del museo era realmente un bisogno dei professionisti museali e della società, essendo stata imposta dall'esterno, dopo la demolizione del vecchio modello di museo, e poi attivamente promossa dalle nuove élite museali?
Il punto è: che cosa succede quando i progetti di inclusione sociale diventano parte di un programma di governo? A questo punto non è più il direttore di un museo che autonomamente decide di aumentare l’autostima degli individui della comunità in cui opera, ma le nuove élite museali promuovono questi progetti per veicolare le politiche governative in ambienti per lo più a rischio.
Questo discorso è utile per comprendere che probabilmente i cambiamenti dei musei non sono mai stati tali: è bastato il banco di prova della pandemia per dimostrarlo. I cambiamenti culturali non si possono imporre con un decreto governativo, ma i musei, se fossero stati veramente percepiti come espressione e memoria della collettività, avrebbero trovato in se stessi le motivazioni per una trasformazione più o meno radicale, cercando modelli più adeguati ai tempi ed anche alle nuove esigenze sociali, senza rinunciare alle proprie peculiarità. Abbiamo assistito, invece, alla rinuncia dei musei ad essere soggetti attivi, per diventare solo esecutori.
Sebbene sia chiaro che i direttori dei musei evidentemente non hanno il potere di impedire che venga attuato un provvedimento come il Green pass, tuttavia ciò non vuol dire farsi funzionari obbedienti e perfino devoti, rinunciando ad eseguire uno dei compiti essenziali di cui sono investiti i musei, cioè quello di offrire alla comunità strumenti per esercitare il pensiero critico. Allo stesso tempo, come si è accennato, in questa circostanza è mancato anche il dibattito interno all’ambito museale, il che ha fatto crescere il disorientamento.
Per tornare, quindi, all’incipit di questa riflessione, quando la crisi pandemica sarà terminata, il museo si troverà a doversi confrontare con se stesso, a fare i conti con la propria staticità e distanza dalle comunità. Guardarsi allo specchio non sarà facile perché emergeranno le tante contraddizioni e le debolezze che sono state così impietosamente mostrate alla nostra società e si dovrà rendere conto di ogni discriminazione attuata contro i cittadini e di aver alzato di nuovo quei muri e quelle barriere che tanto ci si vantava di aver abbattuto.


I musei possono influenzare la vita delle persone, ma, proprio perché sono investiti di questo importante compito, se falliscono, tradiscono la società” (D. Fleming).

Intervista di Tusciaup: il museo deve essere un orecchio in ascolto


Pubblico qui il link all'intervista che mi è stata rivolta dalla giornalista Sara Grassotti della testata Tusciaup, che ringrazio: http://www.tusciaup.com/caterina-pisu-museo-deve-un-orecchio-ascolto/63445
 
 
 
Uno stralcio dell'intervista:
 
Il Museo della Navigazione nelle Acque Interne, un museo archeologico e antropologico progettato per offrire ai visitatori una più approfondita conoscenza della storia della navigazione nelle acque interne in Italia centrale. Risponde a questa logica?
Sì, assolutamente. Mi preme dire che Capodimonte può vantare un museo con un progetto museografico e museologico avanzato che merita di essere valorizzato e potenziato. Dopo averlo conosciuto, mi sono immediatamente appassionata non solo alle tematiche trattate dal museo, ma soprattutto all’idea progettuale di Carlo e Anna Maria Conti, titolari della Cooperativa Arx, e di Patrizia Petitti, funzionaria archeologa della Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale. In particolare, ho apprezzato proprio l’idea di mettere insieme gli aspetti archeologici e quelli antropologici, una modalità di rappresentazione del tema della navigazione nelle acque interne in Italia centrale che offre infinite prospettive di narrazione, perché permette di spaziare dal passato al presente, favorendo la riflessione, il confronto, il recupero della memoria storica locale.
 
Conferenze, proiezioni, dibattiti, attività ludiche, presenze autorevoli e svariate, una nuova gestione del  museo…
Nella programmazione degli eventi del Museo mi piace che le iniziative abbiano carattere eterogeneo sia per le tematiche trattate che per il genere: si spazia dalla classica conferenza accademica ad altri generi più sperimentali, come la conferenza tenuta da Katia Maurelli sull’archeologa lituana Marija Gimbutas, alla quale è seguita una riflessione collettiva con ricerca di parole chiave, oppure la mia conferenza “teatralizzata” su Roberto Rossellini, con letture dell’attrice Anna Maria Civico. Quando progetto la programmazione è per me molto importante tenere presente ciò che interessa alla comunità e accoglierne le proposte. Questo lo ritengo un mio preciso dovere. Il museologo americano John Kinard sosteneva che il museo deve essere un “orecchio in ascolto” e credo che questa frase esprima perfettamente il mio modo di intendere la gestione di un museo locale.
 
 


Il caso dell’Art Institute of Chicago: fuori tutti i volontari bianchi dal museo

Fonte dell'immagine: The Federalist Negli Stati Uniti, presso l’Art Institute of Chicago (AIC) si è aperto un caso che potrebbe essere d...