Ancora a proposito di #no18maggio


Prosegue il dibattito sull'opportunità o meno di dare vita ad una protesta degli archeologi collegata alla Notte dei Musei del prossimo 18 maggio.
Per leggere l'inizio della discussione vi rimando al link:

Caro Alessandro, è un piacere avere l’opportunità di discutere questi temi così importanti che purtroppo spesso sono ignorati dall’opinione pubblica. Questo è anche il motivo per cui sono dispiaciuta che queste energie siano state bruciate per una occasione che a mio parere non riuscirà a mettere in evidenza i problemi reali della nostra professione e che, come ho già scritto, potrebbe dimostrarsi fuorviante per i media e per il pubblico in generale. 
In questi giorni mi è capitato di leggere alcuni articoli postati su blog o sui giornali locali in cui l’appello del MiBAC  è interpretato da tutti come rivolto ai professionisti che sarebbero stati invitati a prestare il proprio lavoro gratuitamente. Non è così, perché il MiBAC si è rivolto alle associazioni di volontariato e non ha certo indetto un bando per chiamare archeologi, storici dell’arte, ecc., a prestare la propria opera a titolo volontario e gratuito. Questo il testo dell’appello del 23 aprile:  «Apriamo alla collaborazione del mondo del volontariato per migliorare la fruizione del patrimonio culturale durante la Notte dei Musei 2013. Per maggiori dettagli potete chiamare al numero di tel. 06/67232197». Non si cercano professionisti e questo è il punto. Come poter innestare una protesta efficace su un comunicato che, in concreto, non richiede alcuna prestazione professionale altamente specializzata? Il ricorso ai volontari in queste occasioni, continuo a ripeterlo, è una consuetudine che non scandalizza nessuno in ogni parte del globo. Ho fatto una ricerca su internet in inglese e, se non mi è sfuggito qualcosa (potrebbe anche essere naturalmente), non ho trovato casi di contrasto tra volontari e professionisti in altre parti del mondo. Probabilmente perché compiti e competenze sono ben chiare e distinte. 
Nessuno impedisce a uno studente di archeologia o anche ad un neo-laureato di fare un po’ di esperienza mediante il volontariato, anzi, in alcuni casi può anche essere una opportunità formativa interessante, ma questo non vuol dire farsi sfruttare. Lo diventa se il laureato, una volta acquisita coscienza della sua professionalità continua a prestare la propria opera gratuitamente. Ma questa, allora, è una responsabilità personale. 
Credo che siano molto più diffusi e molto più gravi, piuttosto, i casi di archeologi sfruttati, questo sì che è un termine che si può usare, da cooperative che sottopagano i propri collaboratori o che talvolta si dimenticano perfino di remunerarli. Questo non è volontariato, è sfruttamento del lavoro professionale, ed è contro queste realtà che bisogna reagire con forza, per esempio cercando di organizzarsi sindacalmente, dato che, se non mi sbaglio, per ora il lavoro dell’archeologo nei cantieri di scavo è regolato dalle norme che riguardano il comparto edile, e forse bisognerebbe pensare a proteggere la categoria con norme più specifiche e adeguate. E se ci fosse una tutela sindacale specifica si potrebbe anche impedire alle associazioni di volontariato archeologico di svolgere compiti che esulano dagli ambiti del puro volontariato e che sottraggono occasioni di lavoro ai professionisti. 
Tutto questo per sottolineare che la questione degli archeologi è molto complessa e non può essere banalizzata con un slogan sbagliato che penalizza ulteriormente la dignità della nostra professione, paragonandola a occupazioni molto meno specializzate. Non si tratta di creare dei “compartimenti stagni”, ma di definire correttamente il ruolo e le competenze di un archeologo. Faccio un esempio: un medico se vuole, per necessità o per stravaganza, può anche fare il portantino, ma ciò non significa che questa “anomalia” determini un’estensione delle funzioni del medico alle pulizie degli ambulatori, che diventano conseguentemente un compito suo di diritto. Questo non significa essere “elastici”, vuol dire creare il caos. 
E chi scrive è una persona che ha vissuto il disagio essere stata sottostimata per la propria professione, sentendosi dire perfino da un sindaco che “quella dell’archeologo è una professione curiosa”. Puoi ben immaginare se io non sono indignata quanto voi per la poca stima che circonda la nostra categoria. Proprio per questo considero #no18maggio un’occasione sprecata in cui non c’è stata ponderazione ed è mancata una vera pianificazione che lanciasse una protesta comprensibile e capace di colpire nel segno. A me è sembrato che sia prevalsa soprattutto l’emotività e forse anche un po’ di improvvisazione. Una protesta incisiva necessita di altre premesse e, soprattutto, la circostanza in cui svolgerla deve essere scelta con la massima cura perché sarà questa a caratterizzare il movimento di protesta. Per me #no18maggio continua ad essere una scelta infelice e non un’occasione colta al volo.
Se vogliamo davvero che “il Paese si riappropri della sua Storia e anche del Valore economico che questo, di fatto, costituisce per restituirli ai Cittadini tutti”, non possiamo impedire che i volontari offrano il loro contributo soprattutto in queste occasioni, proprio perché la cultura deve essere partecipativa. E i musei, se non hanno bisogno di dieci custodi perché durante il resto dell’anno possono conteggiare solo un numero esiguo di visitatori, devono per forza ricorrere ai volontari in occasioni straordinarie. 
E’ necessario un maggior controllo istituzionale questo sì, perché, all’opposto, è inammissibile che musei che hanno due visitatori al giorno, abbiano uno staff di 20 custodi, come è stato messo in rilievo dalla stampa riguardo il caso dei musei della Regione Sicilia, nel 2011. A volte il ricorso ai volontari, quindi, rappresenta anche un risparmio di denaro pubblico. Si può obiettare, invece, quando musei di una certa importanza (chiaramente non mi riferisco ai piccoli musei civici o ai musei privati) utilizzano continuativamente i volontari, ma qui si entra in questioni che riguardano la gestione dei musei che sono troppo complesse per poter essere affrontate in poche battute. In questi giorni ho letto affermazioni estreme quali: “se i musei non possono assumere personale (riferendosi alla Notte dei Musei!) allora che restino chiusi”. Ma ci si dimentica che la guardiania è spesso affidata alle società che gestiscono i servizi aggiuntivi ed è da queste che bisognerebbe pretendere l’assunzione di personale, cosa che non sarà facile dato che queste società devono necessariamente far quadrare i propri bilanci. E’ molto recente, per esempio, la notizia delle difficoltà di Zétema che, pur essendo a rischio di scomparire, “vittima” della spending review, è stata criticata proprio per aver assunto 22 custodi in questo clima di incertezza. Personale che a breve resterà senza lavoro.
E’ molto difficile, quindi, dar vita ad una protesta che riguarda la categoria degli archeologi, facendola poggiare su un terreno ancora più complicato e insidioso, come quello museale. Mi concentrerei, piuttosto, sui problemi che riguardano molto più direttamente l’ambito archeologico e che sono già sufficienti per avanzare lamentele più che fondate. 
Non intendo, con questo, convincere nessuno di coloro che entusiasticamente aderiscono a #no18maggio, ma spero almeno di aver fornito qualche spunto per ampliare il dibattito e pensare ad azioni future maggiormente mirate.

Grazie per l'opportunità che mi hai dato di replicare e di dare vita a questo interessante dibattito!

Caterina

Musei liberi e non politicizzati: la realtà britannica




di Caterina Pisu


Nel 2001, la giornalista e scrittrice Josie Appleton, scrisse un articolo che potrebbe sembrare disorientante per i museologi, in maggioranza assertori convinti dell’importanza del ruolo di mediazione e di inclusione sociale dei musei nell’ambito delle comunità. 
In realtà, un po’ di autocritica non fa mai male e allora mi sembra opportuno riportare qui il pensiero della Appleton che, a distanza di anni, può risultare ancora di una certa attualità, sebbene le sue considerazioni facciano specifico riferimento all’ambito britannico e ad un determinato momento storico.

Il tema che oggi propongo è il primo di una serie che desidero dedicare al ruolo sociale dei musei, in vista del Quarto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei, in programma ad Assisi 11-12 novembre 2013, in cui si affronterà, tra gli altri, anche questo argomento, in relazione ai cosiddetti “musei di quartiere” (v. qui il programma provvisorio).

Nell’articolo intitolato “Museums for the people”,  pubblicato su http://www.spiked-online.com/site/article/10827/, la Appleton si chiedeva perché l’inclusione sociale fosse diventata una delle finalità perseguite dai musei, in realtà non per una spinta venuta dall’interno del settore museale, ma a seguito della politicizzazione dei musei (si fa riferimento, come già accennato, al Regno Unito).
A seguito della pressione del governo New Labour, infatti, non solo musei e gallerie, ma anche altre istituzioni pubbliche, come gli ospedali, le università e le scuole, furono incoraggiati a considerare l’inclusione sociale come una delle proprie funzioni essenziali. Fu così che i musei cominciarono a riorganizzarsi cercando di occuparsi il più possibile delle relazioni con la comunità.
Per la Gran Bretagna dei New Labour la parola “inclusione sociale” sembrava essere di gran moda, ma restava comunque un concetto oscuro, non pienamente compreso, che nasceva piuttosto da un’ansia del pericolo di frammentazione sociale e dalla possibilità che potessero esistere individui isolati, senza un proprio scopo nella vita, e che quindi dovevano assolutamente essere aiutati. Laddove esistono persone abbandonate a se stesse è più alto, infatti, il livello di criminalità, più basso il livello culturale e la pratica di attività sportive. In sostanza, si possono creare situazioni o fasce sociali in cui la qualità di vita è molto bassa.

Per ovviare a questo inconveniente, il Dipartimento britannico per la Cultura, i Media e lo Sport (DCMS), adottò una strategia che vedeva i musei e le gallerie coinvolti in prima linea nell'impegno sociale, tesi a responsabilizzare le persone nel saper individuare il loro posto nel mondo e nel riuscire a svolgere un ruolo attivo nella società.

Il Group for Large Local Authority Museums (GLLAM) sostenne questa strategia, nella convinzione che i progetti di inclusione sociale generino maggiore autostima, fiducia e creatività, contribuendo a sviluppare una vita sociale più attiva e soddisfacente.
Ma perché i musei hanno così prontamente adottato tra le proprie funzioni primarie, l’inclusione sociale? Forse perché, secondo la Appleton, la professione museale in quel momento, quando il partito del New Labour saliva al potere, stava vivendo uno stato di profonda crisi e di confronto aspro con il resto della società.
I musei avevano un grande bisogno di auto-giustificare la loro esistenza perché per almeno una decina d’anni erano stati messi sotto processo dalla società per il loro ruolo di “badanti” e per la loro troppo stretta connessione con lo studio e l’interpretazione di “oggetti”, che li aveva tenuti isolati dalla concretezza della vita reale.  
Le critiche erano state talmente dure che, a destra, l’ex Primo Ministro Margaret Thatcher aveva definito i musei “inutili”, e pertanto aveva cercato di “modernizzarli” e di renderli più “efficienti”, introducendo le logiche del marketing per la loro gestione e per la valutazione dell’efficacia del lavoro svolto. A sinistra, invece, si continuava ad attaccare i musei, considerandoli istituzioni tenute in vita da élite ideologiche che tendevano ad escludere le masse.
A questo punto, il Dipartimento per la Cultura, i Media e lo Sport dovette affrontare con decisione la crisi di identità dei musei. L’ordine del giorno fu, oltre che rendere esplicita la volontà di politicizzare i musei, il suggerimento di individuare, ogni anno, un tema sociale da mettere in luce e approfondire attraverso mostre o altri eventi di questo tipo.
Durante gli attacchi rivolti alla categoria, molti professionisti museali erano rimasti in silenzio. Forse erano talmente demoralizzati che i progetti di inclusione sociale a quel punto sembravano necessari non solo al pubblico ma soprattutto a se stessi. Grazie a questi progetti, infatti, il personale dei musei cominciò a sentirsi più utile e necessario, e a ritrovare nuove energie. Qualcuno affermò di sentirsi “più connesso”, “più integrato” nell'ambito della comunità, forse più vicino alla realtà di quanto non fosse prima, quando si occupava solo delle collezioni espositive.
Ma questa nuova funzione del museo era realmente un bisogno dei professionisti museali e della società o era stata imposta dall'esterno, dopo la demolizione del vecchio modello di museo, e poi attivamente promossa dalle nuove élite museali?
Nel Regno Unito le nuove generazioni di dirigenti museali avevano ricevuto la loro formazione soprattutto nei master della Leicester University; alcuni di essi provenivano dagli studi storici sociali che avevano una chiara impronta di sinistra e avevano iniziato le loro esperienze professionali presso i musei di enti locali. Essi propendevano, dunque, alla partecipazione attiva della gente comune nelle attività promosse dai musei.
Consentire ai visitatori di diventare una parte importante del lavoro di un museo o di una mostra, venne visto come una necessaria e radicale trasformazione dei musei in direzione dei bisogni della società.
Peter Jenkinson sembrava quasi citare “Stato e rivoluzione” di Lenin quando descriveva le “fasi della caduta del potere” dei professionisti museali conclusasi con la soluzione finale più radicale, forse utopica, della creazione di un museo veramente autonomo e popolare,  non più in mano ai professionisti museali.
E’ curioso – afferma la Appleton - che i musei specialistici potessero ipotizzare addirittura l’eliminazione dei professionisti museali a favore di una gestione collettiva dei musei!
In realtà, lungi dal determinare trasformazioni sociali così radicali, questi progetti hanno avuto il merito soprattutto di far sentire meglio le persone con se stesse. Nel contesto storico del declino industriale, la storia sociale dei musei aveva contribuito a rinnovare l’orgoglio della gente attraverso la riscoperta e il racconto delle loro storie, proprio nel momento in cui sembrava che l’orgoglio non esistesse più.
E’ significativo che nel 1983, nonostante fosse stato perso un referendum promosso per tentare di tenere aperto un museo a cielo aperto in un villaggio minerario del Galles, l’anno seguente fu ugualmente istituito un museo del villaggio che evidentemente era considerato irrinunciabile per i curatori e gli amministratori della cittadina. Il curatore Gaynor Kavanaugh affermò che “essere senza storia è come essere ignorato e dimenticato. Un posto riconosciuto nella storia significa ritrovare la propria autostima e i propri valori”. 
Bill Silvester, che aveva istituito the Abbeydale Industrial Hamlet  a Sheffield nel 1970, disse a sua volta che “l'idea era di dare un museo ai lavoratori e ai loro figli, con lo scopo di ripristinare l'orgoglio, troppo spesso negato o rubato da altri, e di lasciarlo in eredità”.
I progetti di inclusione sociale hanno sempre cercato, dunque, di trasmettere la percezione che la collezione del museo appartenga ai membri della comunità, i quali hanno contribuito a raccontare la propria storia e quella del proprio territorio.
Il punto è che cosa succede quando i progetti di inclusione sociale diventano parte di un programma di governo. A questo punto non è più il direttore di un museo che autonomamente decide di aumentare l’autostima degli individui della comunità in cui opera, ma le nuove élite museali promuovono questi progetti per veicolare le politiche governative in ambienti per lo più  a rischio.
E la Appleton a questo proposito cita, come esempio, il progetto tessile per le donne asiatiche del Birmingham Museum and Art Gallery che, con il pretesto di coinvolgere le donne nella creazione di tessuti ispirati alle collezioni del museo, ha operato un’indagine tra esse incoraggiandole a parlare della loro salute mentale. Sarebbe stato difficile, infatti, che queste donne si rivolgessero spontaneamente a degli assistenti sociali, ma un’attività culturale  ha facilitato questo lavoro di utilità sociale.
E si possono citare anche altri casi di progetti simili rivolti a varie categorie sociali “a rischio”. Questa trasformazione del ruolo del museo all'interno della società trasforma inevitabilmente anche i contenuti del museo: i progetti di integrazione sociale, in pratica, potrebbero anche ignorare le attività su cui è stato "costruito" il museo stesso. Il rischio, allora, è quello di creare una distorsione dei principi fondamentali sui cui poggia l'istituzione museale. Il ruolo tradizionale del museo, di raccolta, studio ed esposizione dei manufatti, ha sempre avuto una solida base nella società; i collezionisti e l’establishment accademico sono stati coinvolti in questa attività e hanno sviluppato gli standard e le modalità di valutazione del lavoro dei professionisti museali. Ciò ha dato al museo una struttura ben definita, una sua ragion d'essere, e in tutto questo l’esposizione degli oggetti era la base sostanziale attraverso la quale il museo si metteva in relazione con il suo pubblico.
 Oggi, la funzione di inclusione sociale, essendo stata presa in consegna dalla politica - afferma la Appleton, può apparire poco ben definita, priva di un senso di direzione chiaro, non fondata su pratiche sperimentate e consolidate. Ciò determina spazi di interpretazione troppo ampi e talora ambigui. 
Il Rapporto del Group for Large Local Authority Museums sull'inclusione sociale, che fa riferimento all'ambito dei musei locali che sono in prima linea in iniziative di questo tipo, riferisce che “la definizione di inclusione sociale è problematica; è 'difficile da vedere e difficile da cogliere nel suo insieme; è un concetto che può essere definito e utilizzato variamente dal governo e dai diversi enti locali”.
Quando un concetto è “sfumato” o “sfocato”, la tentazione è quella di usare il righello per definirlo meglio. Il Group for Large Local Authority Museums ritenne che fosse necessario dare impulso a studi trasversali per precisare innanzitutto lo spettro d’azione più coerente in cui poteva essere attuata una politica di inclusione sociale, cercando poi di puntualizzare le metodologie e gli standard di lavoro da utilizzare in questo ambito. E’ vero, però, che anche il sistema più elaborato e preciso che sia in grado di misurare l’impatto sulla società dei progetti di inclusione sociale, non risolverà il nodo fondamentale che è quello delle motivazioni.
Le comunità, infatti, sono formate da persone che decidono spontaneamente se condividere alcuni aspetti della loro vita, non dietro una sollecitazione “ben orchestrata” e, soprattutto, con finalità politiche.
La conclusione della Appleton è dunque che sia i politici che i musei sarebbero fortemente aiutati in questo discernimento  se la politica cominciasse ad apprezzare i musei innanzitutto perché essi esistono e sono una realtà concreta, inserita nelle nostre società, cui non è necessario imporre dall'alto la direzione da seguire.

Specialmente in quest’ultimo punto mi trovo molto d’accordo con Josie Appleton. I cambiamenti culturali non si possono imporre con un decreto governativo, ma i musei, se sono percepiti come espressione e memoria della collettività, potranno trovare in se stessi le motivazioni per una trasformazione più o meno radicale, alla ricerca di modelli più adeguati ai tempi ed anche alle nuove esigenze sociali, senza rinunciare alle proprie peculiarità. 

I governi si dovranno preoccupare soprattutto di sostenerli con risorse adeguate e di favorire l'apporto di sempre nuove energie professionali, ben qualificate. 

Una risposta al collega Alessandro D'Amore

Rispondo qui alla replica del collega Alessandro D'Amore al mio articolo "Muoia Sansone con tutti i Filistei". Il post di Alessandro può essere letto nel suo interessantissimo blog Le parole in archeologia.

Caro Alessandro, ho appena letto il tuo intervento, molto articolato, e che necessita, quindi, di una altrettanto compiuta risposta, anche per chiarire alcuni concetti che, soprattutto nel mio articolo pubblicato su ArcheoNews lo scorso autunno, citato nel mio precedente post, credo di aver in parte già focalizzato. 

Io non ho mai negato che possa esserci un impiego improprio del volontariato, e proprio perché il problema esiste, in occasione del IX Congresso Internazionale degli Amici dei Musei, tenutosi a Oaxaca, in Messico, dal 21 al 25 ottobre 1996 si evidenziò con particolare attenzione questo rischio: Evitare sovrapposizioni. Gli amici e i volontari possono trovare negli ambiti d’intervento non affidati al personale permanente del museo un terreno privilegiato in cui esercitare le loro iniziative e devono prestare attenzione onde evitare che le loro attività non si sovrappongano a quelle esercitate dal personale responsabile
Nel caso in cui questa clausola non venga rispettata, allora si è in pieno diritto di protestare e di esigere l’adempienza delle norme che regolano il lavoro dei volontari. 

Ora, il fatto che il MiBAC si sia appellato ai volontari per aiutare a tenere aperti i musei il 18 maggio, fornendo assistenza ai visitatori, significa invadere qualche specifico campo professionale? 
Si tratta di una funzione da archeologo o da storico dell’arte o da museologo o da antropologo? Non mi sembra. 

Il fatto, come tu dici, che nell’ultimo concorso MiBAC per assistenti alla vigilanza, il 90% dei partecipanti alla selezione fossero “archeologi specializzati, dottori di ricerca, parlanti fluentemente due o tre lingue”, non significa che quello sia diventato all’improvviso un lavoro da archeologo. 
E' la necessità di lavorare che costringe le persone non solo ad accontentarsi di fare i custodi nei musei, ma anche di fare i commessi nei supermercati o i venditori porta a porta, ma nessuno direbbe che quelli sono lavori che devono fare gli archeologi, e il fatto che il lavoro di custode si svolga in un museo non modifica questa realtà. In un museo si lavora anche nelle caffetterie o si fanno le pulizie o si gestisce il bookshop. Ma l'archeologia è un'altra cosa. 

Perciò, bisogna assolutamente evitare, innanzitutto, di creare confusione tra i vari ruoli, e i primi a farlo dobbiamo essere noi se non vogliamo che la nostra professione sia considerata inferiore ad altre che sono ritenute indispensabili per la società, e quindi molto più rispettate. 

Noi siamo archeologi, non custodi di museo, questo è il primo punto da mettere bene in chiaro. Quanto al significato del termine “volontario” rispetto all'altro termine “reclutato”, scusami, ma è una sottigliezza che non comprendo: i volontari devono essere informati della necessità del loro servizio e mi sembra che utilizzare i social networks sia un modo per raggiungere rapidamente un’ampia platea di persone. Niente di più, niente di meno.

L’unico appunto che si può fare al MiBAC è che, forse, impauriti dalla reazione dei professionisti al loro appello, non sono riusciti a mantenere la lucidità necessaria per fornire le corrette giustificazioni e hanno dato l’impressione di “annaspare” in acque agitate.

Il vostro errore, invece, a mio parere, è stato quello di organizzare una protesta che si fonda su argomentazioni sbagliate, perché in realtà la Notte dei Musei non c’entra proprio niente con i nostri problemi, che non sono certo legati all’impiego dei volontari in questa circostanza. 

C’è il rischio, come ho già detto, di creare confusione e contrapposizioni che non saranno comprese, perché è inutile che lo si neghi, ma se lanciamo un hashtag #no18maggio, significa che non vogliamo la Notte dei Musei perché il lavoro dei volontari abbiamo diritto di farlo noi! 

Questo è il messaggio che stiamo dando. E poi pretendiamo che la gente capisca che cos’è l’archeologia?

Perché non fare una protesta altrettanto vigorosa quando un concorso di dottorato si rivela non molto “trasparente” o quando in un concorso universitario per una docenza, la scelta cade sul candidato meno preparato? Perché si tace quando talvolta si viene trattati da “piccoli servitori” da alcuni docenti che sfruttano anche il nostro lavoro durante un dottorato? 
Io penso che tutto ciò sia molto grave, molto più grave di un volontario che viene chiamato a fare il custode in aiuto del personale strutturato. Eppure non si muovono le folle per questo tipo di ingiustizie che costringono tanti a lasciare la professione o a emigrare all’estero. 

Ma certo, se noi, dopo tanto studio e tanti sacrifici, ci accontentiamo di contendere il lavoro di custode nei musei ai volontari, allora vuol dire che forse noi stessi non abbiamo capito bene quali sono i reali problemi della professione. 

Caterina Pisu




Il caso dell’Art Institute of Chicago: fuori tutti i volontari bianchi dal museo

Fonte dell'immagine: The Federalist Negli Stati Uniti, presso l’Art Institute of Chicago (AIC) si è aperto un caso che potrebbe essere d...