Il riciclo che ispira l'arte

La mostra di David Booker, "Il gusto del recupero", presso il Museo Virgiliano, nel mantovano, dal 3 al 27 settembre



Il Museo Virgiliano è un piccolo museo inaugurato nel 1981, in occasione del bimillenario della morte del Poeta dell'Eneide, a Borgo Virgilio, provincia di Mantova, nella frazione di Pietole. Qui, dal 3 al 27 settembre, sarà possibile visitare la mostra "Il gusto del recupero", una selezione di opere su carta disegnate a matita da David Booker, artista australiano noto soprattutto per le sue opere monumentali in marmo.
La mostra avrà come protagonisti alcuni soggetti molto particolari: scatole vuote, imballaggi usati, pezzi di motore...ogni genere di rifiuti trasformati in opere d'arte.

La mostra è promossa dall'Assessorato alla cultura del Comune di Borgo Virgilio e sarà aperta grazie ai volontari della Pro Loco tutti i fine settimana, dal 3 al 27 di settembre, con orario dalle 16 alle 19. In particolare, il 3-4 e il 9-13 settembre sarà visitabile in concomitanza con il Festival Internazionale della Letteratura di Mantova. L'organizzazione è curata da Valeria Giovagnoli.

Un esempio interessante di come anche i piccoli musei possano produrre eventi di alto livello culturale in grado di coinvolgere intensamente la comunità. Lo sforzo compiuto dal Comune di Borgo Virgilio dimostra anche quanto sia importante che le Istituzioni locali abbiano la consapevolezza delle potenzialità offerte dai musei quali spazi culturali vivi e vivificanti delle nostre città.

L'inaugurazione della mostra avrà luogo giovedì 3 settembre alle 17.30 con ingresso gratuito. Sarà offerto un aperitivo dalle Cantine Giubertoni di San Biagio, un bel gesto di collaborazione alle iniziative culturali locali da parte di un'azienda del territorio. All'inaugurazione sarà presente David Booker che illustrerà personalmente il significato dell'esposizione.


Il pomeriggio del 6 settembre, inoltre, sarà in programma un laboratorio sensoriale didattico dedicato ai bambini, incentrato sulle eccellenze alimentari di questa zona del mantovano, collegando così l'evento alle iniziative di Expo Milano 2015. La partecipazione è libera.

Silvana Sperati illustra il metodo Bruno Munari

Riporto qui un’intervista a Silvana Sperati, presidente dell’Associazione Bruno Munari, pubblicata sulla rivista online La vita scolastica.Bruno Munari fu artista, designer e scrittore tra i maggiori del secolo scorso. Dedicò un interesse particolare al mondo dell’infanzia e dell’educazione. Alla scuola di oggi consegna una proposta assai attuale: il laboratorio come luogo della migliore educazione, la creatività come “ricerca sincera di varianti”, un metodo che risiede nel “creare relazioni tra gli elementi conosciuti”. L’Associazione Bruno Munari ne prosegue ufficialmente il metodo e la ricerca che indicò l’artista. Promuove seminari, laboratori, eventi, mostre in Italia e nel mondo ed è l'unica deputata alla formazione sul Metodo Munari. Per maggiori informazioni è possibile consultare il sito www.brunomunari.it.
Foto tratta da:
http://www.artribune.com/2014/03/munari-artista-politecnico-in-attesa-della-grande-mostra-a-milano/3-614/
  
Una sua intervista a Bruno Munari del 1997 si chiude con questa domanda: “Munari è per tutti o per pochi?”. E Munari risponde: “Mah, io direi per tutti”. Che cos’è oggi Munari per la scuola?

Intanto vorrei dire che, secondo me, questa risposta che diede Munari: “Mah, io direi per tutti” descrive in modo assolutamente chiaro il pensiero dell’artista. Ho motivo di credere che negli ultimi anni della sua vita Bruno Munari abbia riservato un’attenzione particolare al mondo dell’infanzia e all’educazione. Diceva lui stesso che quello che voleva restasse era il laboratorio. In questa sua affermazione, io riconoscevo l’accezione vera del laboratorio, come luogo, spazio, tempo, occasione per la costruzione della conoscenza a partire dalla sperimentazione. Lì, nel laboratorio, c’è Munari. E nel laboratorio c’è gran parte del futuro di tutti noi che si costruisce qui e ora attraverso la migliore educazione, proprio quella che ci venne insegnata da questo grande artista.
Pablo Picasso lo paragonò al genio di Leonardo da Vinci, perché si esprimeva con agilità in tanti settori (l’arte, la grafca, la scultura, la scrittura, la progettazione...) e per la tipologia di pensiero, così attenta alla conoscenza, che sempre espresse in tutti i campi. Nonostante questa poliedricità e intensità, Munari sente sempre, e lo ribadisce nell’intervista, di voler essere “per tutti”. Questo vuol dire che dalla lezione di Bruno Munari possiamo trarre anche delle indicazioni necessarie al mondo della scuola. Perché la scuola cos’è, se non il luogo deputato alla costruzione del sapere? Certo si va a scuola per imparare, ma soprattutto per scoprire, per aguzzare la curiosità, per conoscere. Ecco io credo che nell’approccio che Bruno Munari mostrò nei laboratori possiamo trovare indicazioni per portare in aula l’apprendimento, in senso pieno. E questo atteggiamento è quello richiesto proprio oggi dalla scuola, non solo italiana, ma anche europea, quando insiste su quello che viene defnito “imparare a imparare”: quindi fare in modo che l'individuo apprenda, fin da piccolo, a diventare fautore del proprio apprendimento.

Foto tratta dal sito http://www.labogattomeo.it/?page_id=279

L’Associazione di cui è presidente lavora per la comprensione e la diffusione del “metodo Munari”. Vuole illustrarlo ai nostri lettori?

Proverò, attingendo ai testi di Munari e in particolare al suo libro Fantasia (Universale Laterza, Bari, 1977). Qui Munari prova a defnire alcune parole molto spesso confuse tra di loro: fantasia, immaginazione, creatività, invenzione. Quando parla della fantasia, Munari dice che è la facoltà più importante di tutte, perché ci permette di fantasticare di cose e di oggetti che possono anche essere assolutamente irrealizzabili. Si parla di una fantasia che va a briglie sciolte, dunque, di una possibilità del pensiero in cui tutto può essere immaginato. Però, quando parla di fantasia, Munari dice anche che la fantasia usa lo stesso metodo, e sottolinea proprio la parola metodo, di altre facoltà: per esempio dell’invenzione, o della creatività. E dunque: che cos’è questo metodo? Questo metodo, dice Munari, risiede nel “creare relazioni tra gli elementi conosciuti”.
Dunque la persona, prima di tutto, è invitata a “costruirsi” delle informazioni attraverso la sperimentazione che avviene nel laboratorio e nel vissuto quotidiano. Nel laboratorio di Munari posso esplorare un materiale, una tecnica, per scoprire tutto quello che si può fare. Questo mi dà la possibilità di “costruirmi” delle informazioni. Ma se queste informazioni rimanessero ferme, non utilizzate in nessun progetto – Munari dice “come un magazzino di dati inerti” – non servirebbero a nulla. Dunque l’importante è creare una situazione, un'attività che inviti ciascuno a creare relazioni tra queste informazioni, relazioni che poi portano a progettare, costruire, immaginare un qualcosa di nuovo.
Questo “qualcosa di nuovo” non deve essere necessariamente finalizzato, perché può essere anche qualcosa di cui ancora non immaginiamo un uso possibile. Munari dice: quando un oggetto è così preciso, descritto, come un trompe-l’oeil, non stimola il soggetto come un’immagine che invece può essere tante cose, per esempio un ippopotamo o una cavalletta. Massima apertura, dunque, verso materiali “imperfetti”, semplici e più vari possibile, in modo che il bambino possa realizzare sperimentazioni diverse. A livello educativo, inoltre, occorre tempestività: se un bambino riceve un’educazione che lo invita a vedere quello che si può fare con le cose fin da piccolo, è verosimile che manterrà questa attitudine per sempre. Se, invece, già nei primi anni a un bambino si dice: “Stai attento, No!... Si deve fare così, si deve fare cosà!... Il cielo è sempre azzurro... Il pulcino è sempre giallo... La mela è sempre rossa...”, quel bambino avrà poche possibilità di emancipare i propri pensieri, di contemplare le infinite variabili, di costruire i propri apprendimenti...

Tornando all’intervista del 1997, Munari dice che la creatività è “ricerca sincera di varianti”. Come possiamo tradurre, anche per il mondo della scuola, questa definizione?

Questa frase sulla creatività è molto bella e mi permette di precisare la risposta sul metodo che ho dato prima, perché ogni parola della frase è un elemento di metodo. La parola “ricerca” ci porta all'approccio scientifco, così vicino all’attenzione di Munari, che ha sempre cercato di analizzare ogni aspetto, di non dare nulla per scontato. L’atteggiamento del ricercatore è l’atteggiamento di colui che con curiosità guarda a tutte le espressioni che il mondo gli presenta. E Bruno Munari aveva fatto suo questo atteggiamento, manifestato anche con la grande attenzione che ha sempre riservato al mondo della natura. Per tutta la vita Munari osservò la natura, i suoi processi, i suoi cambiamenti, le sue variabili e io credo che dalla lezione di Munari ci venga anche lo stimolo di tornare alla natura con uno sguardo di stupore per tutto quello che ci può insegnare.

Questa ricerca, dice Munari, deve essere “sincera”. Una ricerca sincera è una ricerca “vera”. Dal nido all’università proponiamo ricerche viziate, non vere ogni volta che si dà il risultato per scontato. Per esempio: se provo a fare un’esperienza di mescolamento dei colori, come il blu e il giallo, so bene che il risultato sarà il verde, ma non posso fermarmi lì. Infatti quante variabili ci possono essere in quell’esperienza, a partire dall’intensità e tipologia dei pigmenti, da quanto blu e quanto giallo metto, dal materiale su cui spalmo, spremo o stendo il colore? In questo senso la dimensione della ricerca deve essere “sincera”. Perché la dimensione della ricerca “sincera” coinvolge, appaga l’individuo e, soprattutto, diventa realmente generativa di nuovi saperi. La ricerca non deve essere millantata, su questo dobbiamo essere molto attenti. Come il laboratorio: deve essere il luogo della ricerca, non può essere il luogo del “facciamo finta che facciamo la ricerca”. Ormai anche intorno alla parola “laboratorio” è andato un po’ a perdersi questo elemento costitutivo della ricerca: dobbiamo rileggere il senso delle parole, ritornare al loro significato come definizione di azioni realmente congruenti. “Ricerca sincera di varianti”, dice Munari. Ecco, qui entriamo nell’orizzonte molto creativo del “quanti ce ne sono” e del “come sono”. Proviamo a immaginare delle domande: un sasso: quanti ce ne sono di sassi?; è rosso: quanti ce ne sono di rossi?; fino a quando questo materiale che è rosso è rosso, e quando invece da rosso diventa scuro scuro, e forse stiamo passando nel marrone? La ricerca delle varianti mi “apparecchia davanti” le possibilità del mondo, ma insieme mi descrive anche i suoi confini, portandomi in quel territorio dello “sfumato” dove posso descrivere un fenomeno con un’esattezza che non è solo mero dato, numero, definizione ma consapevolezza del mondo. Entrare in questo tipo di processo significa prendersi in mano il gusto, la gioia dell’apprendere. E sarà proprio ritornando a questa gioia che potremmo dare ai nostri studenti una grande chance. Si tratta di un movimento da compiere all’insegna del festina lente, dove l’investimento nell’educazione, oggi, è l’azione più importante che possiamo fare.

Casa Museo Stanze al Genio: mecenati, piccoli e grandi, cercasi.



Al via la campagna di crowdfunding #adottaunamaiolica per sostenere un progetto di ampliamento della Casa Museo Stanze al Genio, situata nel centro storico di Palermo, all'interno di Palazzo Torre-Piraino, dove il collezionista Pio Mellina ha raccolto, restaurato e salvato la preziosa collezione di maioliche. 

Tramite questa iniziativa di raccolta fondi chiunque lo desideri potrà adottare una mattonella in maiolica e gli introiti serviranno a finanziare il raddoppio dell'esposizione di una delle più grandi collezioni di maioliche al mondo: 5.000 pezzi per un excursus di 400 secoli della storia della ceramica italiana. 

L’attuale collezione, infatti, conta 2.648 pezzi ma più del doppio dei pezzi non sono ancora esposti e si attende il restauro di nuovi spazi per dare vita ad una delle più grandi collezioni aperte al pubblico di antiche mattonelle in maiolica italiane.

Per aderire alla campagna di crowdfunding ed effettuare una donazione, questo è il sito: https://www.indiegogo.com/projects/wearegenio#/story


A fronte di una donazione di qualsiasi importo il nome completo del donatore e la città di provenienza verranno riportati sul retro del supporto ligneo su cui è fissato il pezzo di maiolica che grazie a quell’aiuto potrà essere esposto. 


Quando i musei funzionano: una mente aperta e buoni amministratori possono fare miracoli!

Il caso del Museo Civico di Castelbuono

Laura Barreca

Spesso ci si chiede perché i musei non funzionano, perché sono vuoti, perché non riescono a suscitare interesse nonostante le opere d’arte o le collezioni di grande interesse che contengono. Talvolta il motivo è l’assenza di motivazioni in coloro che li dirigono. Quando, invece, oltre alle competenze ci sono passione, entusiasmo e voglia di sperimentare, i risultati non tardano ad arrivare. Lo dimostra il caso del Museo Civico di Castelbuono, nel Palermitano, guidato ora da una mente aperta e che, grazie anche alla sensibilità e alla collaborazione del Comune, è riuscita a far decollare questo museo in modo impressionante. I giornalisti lo definiscono “il piccolo miracolo”. Lei è la curatrice e critica palermitana Laura Barreca, rientrata in Sicilia dopo vent'anni di prestigiosi incarichi di ricerca e lavoro all'estero. 

In un articolo su Meridione News, ha dichiarato: «Abbiamo una struttura che ci permette di funzionare a pieno ritmo e di accogliere in ogni stagione i turisti provenienti dall'America come dal nord Europa. La comunità di Castelbuono recepisce positivamente il progetto che stiamo portando avanti in quanto è abituata a maneggiare la cultura nelle sue diverse forme. Attraverso un management culturale, cerchiamo anche di intrecciare legami con il territorio, lavoriamo con le professionalità locali e raccontiamo il territorio attraverso progetti comuni agli altri attori del sistema culturale locale, come i ragazzi di Ypsigrock». 

Grazie alla Barreca oggi il museo ha 40mila visitatori l'anno. Eppure anche lei ha avuto le sue esperienze negative: «Non c'è traccia di redenzione per questa terra» - afferma duramente - «Ho avuto a che fare con funzionari e amministratori trogloditi. Il gap generazionale è inaccettabile. I giovani hanno le capacità, una velocità e un'abilità che la generazione precedente non possiede». Trovare spazio in ambito culturale e mettere a frutto le proprie competenze è un sogno irraggiungibile per tanti giovani e spesso l'unica soluzione è trasferirsi all'estero.

Nel caso della città siciliana c’è anche un progetto preciso portato avanti dal sindaco Antonio Tumminello che ha voluto svincolare il museo dalla politica, scegliendo di affidarne la gestione a chi ha veramente le competenze per farlo e la voglia di far crescere il museo. «Finché i musei saranno avamposti di politicanti senza competenza si va verso una morte. Inoltre è sotto gli occhi di tutti l'inaccettabile gap generazionale. I giovani hanno le capacità, una velocità e un'abilità che la generazione precedente non possiede e non può inventarsi, rimanendo incastrata in logiche anacronistiche e di spreco. Finché la Sicilia non decide di intraprendere un percorso di rilancio sarà sempre peggio» - ha dichiarato la Barreca. 


Mi piace soprattutto l’impostazione in chiave sociale che la nuova direttrice ha voluto dare al museo, evidentemente forte delle esperienze di cui si è arricchita all’estero:  «Il museo deve avere una funzione sociale.» - ha affermato - «Nel corso dei laboratori didattici i bambini hanno ad esempio utilizzato materiali di riciclo per creare dei manufatti oggi esposti al Museo dei piccoli. Abbiamo pensato inoltre ad una pubblicità ecologica e facciamo la comunicazione con gli asinelli che a Castelbuono vengono utilizzati per la raccolta differenziata». Si è parlato anche di immigrazione. La giornalista Imma Vitelli è stata nostra ospite al liceo di Castelbuono insieme ad alcuni sopravvissuti agli sbarchi per raccontare ai ragazzi la drammatica esperienza dei migranti del Mediterraneo. Una conferenza che ha permesso ai ragazzi di ascoltare una storia vera e contemporanea che appartiene alla nostra identità. Bisogna avere consapevolezza delle richieste del territorio, essere glocal è determinante per programmare attività».

L'Uganda promuoverà il turismo internazionale attraverso i suoi musei

Negli anni scorsi mi sono occupata più volte della questione dell’Uganda National Museum che rischiava di essere abbattuto per fare posto ad un grattacielo. 
Ora sembra che l’Uganda abbia finalmente voltato pagina e si stia dedicando a valorizzare il patrimonio culturale, in particolare quello ancora poco conosciuto, proprio per mezzo dei propri musei. Anzi, se ne vorrebbero creare ancora altri con la convinzione che un maggior impulso al turismo culturale aiuterebbe non solo a preservare il patrimonio culturale ma anche a creare opportunità di sviluppo locale. La richiesta di costruire nuovi musei non è un’idea velleitaria, ma una necessità reale.
Attualmente, infatti, l'Uganda ha solamente quattro musei funzionanti: tre sono statali, l’Uganda National Museum, a Kampala, il Karamoja Museum di Moroto  e il Kabale Museum; uno è un museo privato, l’Igongo Museum a Mbarara Town.
Si ritiene che proprio la mancanza di musei sia la causa dei problemi legati alla conservazione del patrimonio culturale locale e della poca presenza attiva della comunità nel settore del turismo. Un altro problema importante, però, è la mancanza di personale qualificato nei musei dato che non esistono istituzioni preposte alla formazione e all’aggiornamento dei professionisti museali. E questo è un ostacolo da superare se si vorranno istituire altri musei. Si sta cercando, pertanto, di attivare delle collaborazioni internazionali, per esempio con il Museo Etnograficodell'Università di Zurigo che darà l’opportunità agli amministratori locali di interagire con gli esperti dei musei svizzeri.

Igongo Museum
Secondo Raphael Schwere dell’università di Zurigo, che collaborerà con l’Igongo Museum, si dovrà iniziare valorizzando le specificità locali. L’Uganda, forse non tutti ne sono al corrente, è un grande produttore di latte (ne produce più di un miliardo di litri all’anno) e dei suoi derivati, come il Ghee che è un latte fermentato tipico di queste zone. 

Il latte rappresenta una voce importante nell'economia ugandese 
Foto tratta da http://www.newvision.co.ug/newvision_cms/newsimages/file/Jesa-28.jpg

Esiste una ricca documentazione riguardo le tecniche di produzione del latte da parte dei mandriani ugandesi e tutto questo può rappresentare un motivo di interesse per quei musei che tratteranno questi argomenti, valorizzando le tipicità e le tradizioni locali.

Anche Miss Uganda, Leah Kalanguka, alle prese con la mungitura!
Foto tratta da 
http://modernfarmer.com/2014/11/miss-uganda-beauty-contest-demands-contestants-milk-cow/

“L'Uganda ha un vasto patrimonio culturale” – ha dichiarato Schwere – “ma non è conosciuto”. Le agenzie governative per il Turismo internazionale non dovrebbero concentrarsi solo sulla promozione delle più note bellezze naturalistiche, ma anche di quel patrimonio meno conosciuto che è situato in aree poco frequentate dal turismo internazionale e che necessitano di politiche adeguate. I musei potranno aiutare a farlo conoscere. 

L'illusione degli ecomusei

Nel precedente post si è fatto cenno agli ecomusei e al loro particolare legame con la comunità. In questo articolo di Giovanni Pinna, direttore della rivista Nuova Museologia, tratto da n. 30 di Nuova Museologia, Giugno 2014 (www.nuovamuseologia.it), si approfondisce questa tematica evidenziando come spesso i progetti di ecomuseo esistenti si allontanino, invece, dai principi che sono stati formulati dai loro creatori e che, a loro volta, questi concetti - originariamente e nel loro evolversi - non siano mai stati disgiunti da forti ideologie politiche.
Si potrà mai parlare di una cultura veramente libera dalle influenze politiche? Il Modello della Red de Museos Municipales de los pueblos sperimentata in Argentina, può essere una valida alternativa agli ecomusei?


Che cosa penso degli ecomusei italiani


In un Paese in cui il potere politico si mantiene attraverso l’iper-burocratizzazione centralizzante è impensabile che possa essere lasciato alle singole comunità il diritto di gestire autonomamente le proprie memorie storiche e sociali. Il processo di controllo politico e sociale è evidente soprattutto nella burocratizzazione delle microstrutture museali locali - denominate spesso erroneamente ecomusei - realizzata attraverso il ricatto economico, imponendo cioè un certo tipo di organizzazione attraverso normative collegate alla erogazione di contributi pubblici.
Riporto qui di seguito due testi scritti anni addietro nei quali ponevo l’accento di come la politica di centralizzazione burocratica, attuata soprattutto a livello regionale, snaturi il ruolo delle comunità e le allontani dalla gestione del proprio patrimonio, tenda a omogeneizzare la culture locali e renda così del tutto improponibile il nome di ecomuseo che le amministrazioni pubbliche si ostinano ad attribuire alle piccole raccolte di me-morie storiche e sociali locali.

L’ecomuseo


(Estratto da Fondamenti teorici per un museo di storia naturale, Giovanni Pinna, Jaca Book, Milano, 1997)


Jean Clair sostiene che le prime idee di quella che diventerà l’ecomuseologia furono elaborate da Georges Henri Rivière nel 1936, come estensione dell’idea dei musei del folklore open-air, soprattutto di modello scandinavo, costruiti con l’intento di conservare le tradizioni popolari, e narra che lo stesso Rivière mise a punto la teoria dell’ecomuseo agli inizi degli anni Cinquanta, giungendo alla prima realizzazione pratica negli anni Sessanta.

[...] Nella mente di George Henri Rivière, di Jean Clair, di Hugues De Varine, l’ecomuseo doveva essere una struttura con forte incidenza sociale. Essa fu definita da De Varine “un’istituzione che gestisce, studia, esplora a fini scientifici, educativi e culturali in genere, il patrimonio globale di una certa comunità, comprendente la totalità dell’ambiente naturale e culturale di questa comunità”. Nella concezione originale, l’ecomuseo non era altro che la musealizzazione attiva del territorio di una comunità urbana o rurale, della comunità stessa, del suo ambiente naturale e culturale, delle sue tradizioni: attraverso la musealizzazione attiva, gestita e condotta direttamente dai membri della comunità, e cioè attraverso l’ecomuseo, strumento di conoscenza e di studio del territorio, della cultura e delle tradizioni della comunità, la comunità prendeva coscienza di se stessa, assumendo in proprio la responsabilità del suo sviluppo.
In questo senso va la definizione di ecomuseo, teorica e sotto molti aspetti velleitaria, proposta da Rivière come sintesi di una lunga elaborazione a più mani.
“Un ecomuseo è uno strumento che un potere e una popolazione concepiscono, fabbricano e esplorano assieme. Questo potere, con gli esperti, le agevolazioni, le risorse che fornisce. Questa popolazione, secondo le proprie aspirazioni, con le sue culture, con le sue capacità di accesso.

Uno specchio in cui questa popolazione si guarda, per riconoscersi, in cui essa cerca la spiegazione del territorio al quale appartiene, assieme a quelle popolazioni che l’hanno preceduta, nella discontinuità o nella continuità delle generazioni. Uno specchio che questa popolazione offre ai suoi ospiti, per farsi meglio comprendere, nel rispetto del suo lavoro, dei suoi comportamenti, della sua intimità.

Un’espressione dell’uomo e della natura. L’uomo vi è interpretato nel suo ambiente naturale. La natura lo è nel suo stato selvaggio, ma anche nella forma in cui la società tradizionale e la società industriale l’hanno adattata a loro immagine.

Un’espressione del tempo, quando la spiegazione risale al di qua del tempo in cui l’uomo è apparso, si svolge attraverso i tempi preistorici e storici che egli ha vissuto, sbocca nel tempo che egli sta vivendo. Con un’apertura sui tempi di domani, senza che, tuttavia, l’ecomuseo si ponga come elemento decisionale, ma all’occorrenza, giochi un ruolo d’informazione e di analisi.
Un’interpretazione dello spazio. Di spazi privilegiati, ove sostare o passeggiare.

Un laboratorio, nella misura in cui contribuisce allo studio storico e contemporaneo di questa popolazione e del suo ambiente e favorisce la formazione di specialisti in questo settore, in collaborazione con le organizzazioni di ricerca esterne.

Un luogo di conservazione, nella misura in cui aiuta alla conservazione e alla valorizzazione del patrimonio naturale e culturale di questa popolazione.

Una scuola, nella misura in cui associa questa popolazione alle sue azioni di studio e di protezione, o nella misura in cui la incita a meglio comprendere i problemi del suo avvenire.

Questo laboratorio, questo luogo di conservazione, questa scuola si ispirano a principi comuni.
La cultura che essi rivendicano deve intendersi nel suo senso più ampio, e essi si applicano per farne conoscere la dignità e l’espressione artistica, da qualsiasi strato della popolazione provengano le rinvendicazioni. La diversità è senza limite, tanto diversi sono i dati da un campione all’altro. Essi non si richiudono in se stessi, ma ricevono e danno.”

Questa funzione sociale dell’ecomuseo, di per se stessa lodevole, sottintendeva però una precisa ideologia politica, e diveniva così, fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, la risposta popolare e progressista alla museologia borghese delle grandi istituzioni francesi. L’ecomuseo era, di fatto, sia il popolo stesso, sia lo strumento per il controllo popolare del territorio, lo strumento per proteggere, e quindi conservare, l’ambiente naturale, le tradizioni e la cultura di una certa comunità messe in pericolo dal capitalismo selvaggio e dalla legge del profitto.

Tutto ciò è evidente negli scritti sull’ecomuseo degli anni Settanta. “Per andare al fondo delle cose – ha scritto per esempio De Varine – si può concludere che bisogna mettere in discussione il concetto di proprietà individuale. Certo, il solo istituire un ecomuseo non sopprime il diritto di proprietà che ogni membro della comunità mantiene. Il diritto di uso e di godimento resta intatto e non è il caso di utilizzare procedure quali l’esproprio o la confisca con l’unico pretesto che un individuo possiede un bene di cui l’ecomuseo ha bisogno! Nondimeno rimane il fatto che dalle considerazioni sul patrimonio della comunità che precedono deriva l’esistenza di fatto e il riconoscimento progressivo di un diritto morale della collettività su ciascun elemento del proprio patrimonio.”

Ma come dovrebbe funzionare un ecomuseo? De Varine, Rivière e gli altri teorici di questa istituzione hanno formulato tutta una serie di norme, che, nel loro entrare nei minimi particolari, raggiungono altissime vette burocratiche. Essi hanno ipotizzato ogni finalità, ogni meccanismo di gestione, hanno ipotizzato ogni procedura attraverso cui la comunità dovrebbe partecipare alla gestione dell’ecomuseo. Questa verrebbe affidata a comitati composti da delegati di gruppi spontanei o delle varie categorie che costituiscono la comunità, ovvero dai rappresentanti eletti della comunità, affiancati da tecnici o “consiglieri” che non avrebbero teoricamente il diritto né di proporre, né di decidere. Questo in teoria! Ma in pratica molti scritti inducono a pensare che l’ecomuseo non sarebbe in realtà guidato direttamente dalla comunità, ma, secondo una prassi politica ben consolidata, dall’azione di tipo missionario dei consiglieri, che diverrebbero così gli strumenti di un potere superiore per l’indottrinamento della comunità, o, se preferite una frase meno brutale (ma di identico significato), per convogliare in una precisa direzione lo sviluppo della comunità stessa.
L’ecomuseo, museo totalizzante, che ingloba e indirizza il pensiero di ogni individuo della comunità, che espropria moralmente i beni di ciascuno, condizionandone di fatto l’uso quotidiano, che cristallizza la vita quotidiana della comunità, appare come un mostro tentacolare in grado di spiare l’intimità di ogni individuo. Io non so se De Varine, Rivière e gli altri si sono resi conto di ipotizzare un mostro degno di Orwell, ma mi confortano due fatti: che l’ecomuseo come da essi ipotizzato non ha avuto molta fortuna sul piano pratico, e che essi stessi si sono accorti che la critica maggiore alla loro costruzione teorico-politica è stata che si trattava di pura utopia: “Una delle critiche che più spesso sono state indirizzate ai sostenitori dell’ecomuseo – ha scritto De Varine – si riassume in una parola: utopia. Ciò che dà consistenza a questo attacco è il carattere spesso teorico e esageratamente ottimista della descrizione dell’istituzione, in confronto alla relativa mediocrità dei risultati ottenuti fino ad oggi dagli ecomusei esistenti. Secondo la maggior parte degli osservatori, quello di Landes non è altro che un museo all’aperto migliorato; quello di Creusot è per essi solo un amalgama di attività e di esposizioni tradizionali all’interno di una struttura vaga e solo potenzialmente realizzata.”

L’insuccesso dell’ecomuseo, il suo trasformarsi di fatto in una struttura museale tradizionale, come De Varine notava nelle righe precedenti riferendosi alla Comunità Urbana di Creusot-Mon-ceau-les-Mines, dimostrano non solo la difficoltà della realizzazione pratica dell’utopia politico-sociale ecomuseologica, ma anche la forza del museo tradizionale in quanto struttura delegata dalla comunità alla conservazione del proprio patrimonio e quindi appartenente alla comunità, anche se non direttamente da essa gestita.

Come ho affermato con decisione nel corso di questo volume, il museo tradizionale è una struttura socialmente forte, ed è quindi inevitabile che ogni forma di partecipazione di una comunità alla gestione del proprio patrimonio si concretizzi alla fine, prima o poi, in una struttura museale che colleziona, studia e espone il patrimonio della comunità in modo tradizionale.

  
Intervento di Giovanni Pinna, Presidente dell’ICOM Italia, al convegno “Presente e futuro dell’ecomuseo”
(Sala conferenze IRES Piemonte, Torino, 16 maggio 2003)


Io non sono uno specialista in ecomusei, sebbene abbia studiato, almeno nelle grandi linee, la nascita e lo sviluppo del concetto di ecomuseo, dal dibattito che si era impostato prima del secondo conflitto mondiale, alle teorizzazioni e alle realizzazioni avvenute soprattutto in Francia fra il 1968 e il 1974, allo sviluppo quasi contemporaneo di un altro tipo di “ecomuseo”, quei neighborhood museums il cui modello principale rimane ancora il centro creato da John Kinard nel 1967 nel quartiere di Anacostia a Washington. Vorrei però ricordare in questa occasione che in un certo qual modo io stesso sono stato un precursore dell’ecomuseologia italiana, quando, da conservatore del Museo di Storia Naturale di Milano, fui sollecitato dai cittadini del paese di Besano a costruire con loro nel loro villaggio un piccolo museo dei fossili. Il villaggio di Besano, situato in provincia di Varese non lontano dalle sponde meridionali del Lago di Lugano, è noto perché nel suo territorio montuoso si apre un celebre giacimento paleontologico. Come documentai in un articolo apparso sulla rivista “Museum” nel 1976 (Création d’un musée des fossiles. Besano. Une initiative de la population, Museum, vol. 28, Paris, 1976), all’inizio degli anni Settanta i cittadini di Besano si erano convinti dell’importanza di quel giacimento, e vollero quindi che un piccolo museo fosse costruito nel loro villaggio. Questa semplice operazione museale condusse alla nascita di un vero e proprio ecomuseo, per il fatto che i cittadini non solo costruirono e iniziarono a gestire il loro museo, ma in qualche misura furono i promotori di nuove ricerche sul giacimento. Essi si offrirono volontari per riprendere gli scavi paleontologici e per difendere la zona dagli scavatori abusivi, impadronendosi così di un patrimonio culturale del loro territorio che per la prima volta sentirono veramente proprio. Il risultato è che il museo – oggi divenuto assai più ampio – è ancora aperto al pubblico e costituisce un punto di richiamo per visite turistiche e scolastiche, mentre gli scavi procedono ancora, fornendo ogni anno alla scienza materiali fossili di grande importanza[1]. L’interesse che alcune amministrazioni pubbliche italiane dimostrano nei confronti di istituzioni museali locali, cui viene attribuito il nome di ecomusei, e che in linea generale sembra concretizzarsi nella ricerca di un’organizzazione “a rete o a sistema” di tali istituzioni e di una normativa che determini la struttura organizzativa delle singole entità museali, fa sorgere in me due interrogativi:

•          è possibile che ecomusei, e cioè microstrutture museali che dovrebbero nascere spontaneamente dalla volontà delle comunità locali ed essere gestiti direttamente da queste comunità, senza intermediari, vengano organizzate da strutture politico-amministrative che prevedono una centralizzazione dei poteri decisionali, regioni, comunità montane o province?

•          è possibile che l’attività di questi ecomusei venga in qualche modo normata attraverso l’adozione di standard museali validi per tutti, dal momento che una loro caratteristica dovrebbe essere la diversità nei contenuti e nella gestione? Il concetto di ecomuseo è strettamente collegato alle idee di territorio e di identità, nel senso che l’ecomuseo è per una comunità il luogo della sua memoria, è il luogo in cui questa memoria viene conservata e interpretata dalla comunità stessa, senza intermediari. Se questo è l’ecomuseo, allora è chiaro che la diversità è una sua caratteristica intrinseca, e che l’organizzazione di un insieme di ecomusei di una data regione in un sistema creato, anche se non imposto, da un potere centrale non può non influire sulla diversità e quindi sulla natura e sul significato stesso dell’ecomuseo. L’organizzazione in sistema delle strutture museali da parte delle amministrazioni pubbliche è un’azione assai delicata, poiché rischia di scivolare verso la creazione di strutture di gestione autocratiche. Basta solo che la partecipazione a una rete organizzata (e normata) da un ente pubblico preveda per i partecipanti l’accesso a finanziamenti pubblici per creare le premesse per una centralizzazione del sistema decisionale.
Nella stessa direzione va l’ipotesi di proporre anche per gli ecomusei, come è stato fatto per la generalità dei musei italiani, standard di organizzazione e di gestione. Che lo si voglia o no, l’imposizione di standard conduce inevitabilmente alla omogeneizzazione, che contrasta con l’idea stessa di ecomuseo, in quanto organismo legato alle intime realtà territoriali. Ciò soprattutto se gli standard proposti non si limitano a suggerire le necessità primarie di un museo, ma entrano nell’intimo di ogni porzione dell’organizzazione della struttura museale e suggeriscono, o impongono, le azioni di gestione nei minimi dettagli. Questo è, a mio parere, il principale difetto degli ormai famosi “Atti di indirizzo” che costituiscono un pregevole trattatello di museologia, ma che non sono, come pretendono di essere, standard applicabili.

Analizzando per conto del governo delle Asturie il problema delle reti e dei sistemi museali (Redes y sistemas museisticos, introduzione al progetto della rete dei musei delle Asturie, maggio 2002), ho potuto notare come la tendenza delle amministrazioni vada verso la creazione di “sistemi” nei quali il potere decisionale non rimane ai singoli partecipanti al sistema, ma viene assunto dall’ente organizzatore del sistema. Sebbene venga dichiarato che tali sistemi di musei sono realizzati per l’ottimizzazione delle risorse (che si realizza per esempio con il mettere in comune alcuni servizi), in realtà nella maggior parte dei casi essi corrispondono a una logica di potere e di controllo, o vengono creati per sviluppare politiche culturali o per controllare interessi territoriali (sempre in campo politico-culturale).

Infine un’ultima annotazione sul delicato rapporto fra identità e alterità. L’ecomuseo è lo scrigno e la forgia della memoria di una comunità, e come tale è il luogo di conservazione della sua identità. Gli ecomusei tendono quindi, per loro stessa natura, a enfatizzare le identità delle comunità, un processo che include la consapevolezza della “diversità”, e il confronto con “l’altro”, colui che non condivide la mia stessa identità comunitaria. In questo senso gli ecomusei possono essere strumenti di esclusione e veicoli di rifiuto. E anche potenti strumenti politici, come ci insegna la gestione degli Heimatmuseen tedeschi negli anni del nazismo. Anche per questo seguo con apprensione la crescita di interesse di alcune amministrazioni pubbliche per i micro-musei locali e le ampie risorse che su di essi vengono riversate, e ricordo che André Desvallées ha scritto, parlando di quelli che egli chiama “musei di identità”, che essi “non devono mostrare mai le differenze senza mostrare anche le somiglianze” (1994).




[1] L’affidamento della gestione del museo a un’impresa commerciale dopo la metà degli anni Novanta ha trasformato lo spirito e la natura del museo allontanando così i cittadini di Besano dal museo e sottraendo loro il possesso morale del patrimonio.

La Rete dei Musei Municipali dei popoli: un modello attuabile anche in Italia?


La rivista online #emprendecultura (un progetto del portale Recursos Culturales), ha pubblicato un interessante articolo sulla Rete dei Musei Municipali dei popoli (Red de Museos Municipales de los pueblos) una iniziativa nata nel 2007 da un’idea dell’argentina Maribel García, che inverte la logica verticale dei musei classici per concentrarsi sulle persone stesse, interpretando lo spazio del museo come luogo di costruzione di una identità comunitaria. In questo nuovo tipo di museo, i protagonisti non sono le collezioni artistiche o storiche, non sono le opere d’arte o gli oggetti, ma sono le storie che si celano dietro di essi. Questi concetti derivano, in parte, dal pensiero del museologo Ariel Chiérico che è stato il primo a pensare ai “museos de los pueblos”, idea che è stata poi ampliata dall'attuale amministrazione cittadina grazie a Maribel Garcia che dirige la rete museale con il supporto della Subsecretaría de Cultura, Educación y Turismo di Olavarría (provincia di Buneos Aires).

Maribel García
Inizialmente la Garcia ha proposto al Sindaco di Olavarrìa di dare vita ad un progetto museale che prevedesse la partecipazione diretta della cittadinanza, affinché essa si appropriasse del museo per rivalorizzare la propria storia. Ogni comunità possiede caratteristiche proprie e storie che vale la pena conoscere, soprattutto in una nazione, l’Argentina, in cui si è avuta una grande immigrazione che ha portato qui persone di tante nazionalità, in particolare tedeschi, cecoslovacchi, spagnoli e italiani.
Finora la rete conta sette musei: Museo Municipal de sitio Calera la Libertadora de Sierras Bayas, Museo Municipal Ariel Chiérico de Colonia Hinojo, Museo Municipal de la Estación de Sierras Bayas, Museo Municipal Miguel Stoessell Muller de Colonia San Miguel, Museo Municipal de la piedra Ema Occhi de Sierra Chica, Museo Municipal de Espigas, Museo Municipal de Hinojo.
La caratteristica che li differenzia dai musei tradizionali è che  la volontà di creare uno spazio comune parte dagli stessi abitanti. Il progetto del museo, quindi, non è “imposto” dall’istituzione locale, ma è la gente che partecipa al processo di trasformazione del luogo, raccoglie gli oggetti, li crea e li documenta, nomina il direttore.
Non si tratta, quindi, di esperti con specifiche competenze in ambito museologico ma di persone che amano e che difendono il loro spazio e quando svolgono una visita guidata possono attingere alla propria vita e alla propria esperienza.

Foto tratta da: http://www.lu32.com.ar/nota/17622/los-chicos-del-colegio-nuevas-lenguas-visitaron-los-museos-municipales-de-los-pueblos
Per Maribel Garcia, la creazione di un museo vivo è innanzitutto un compito antropologico “in cui occorre fare un lavoro sul campo, vivendo e osservando, senza interferire nelle storie della gente”, perché lo scopo è che le persone capiscano che le proprie storie hanno un valore e che per questo esse saranno in seguito condivise nello spazio del museo.
La museografia di questi spazi è rappresentata, quindi, dalle interviste, dei racconti dei più anziani, dalle testimonianze scritte e dalla donazione di oggetti che vengono classificati in base alle storie dei donatori. Ciascuno è portatore di elementi identitari che sono discussi nel momento in cui si decidono le basi del progetto di allestimento del museo. In un determinato spazio del museo, per esempio, i mestieri possono essere rappresentati come una importante caratteristica identitaria della comunità, come è il caso degli scalpellini che arrivarono dall'Italia a Sierra Chica per estrarre le pietre che furono poi utilizzate nelle strade di tutta Buenos Aires. In questo caso il racconto si è sviluppato attraverso la rivalutazione del lavoro artigianale che facevano questi uomini ed intorno alle abitudini acquisite dalla città in relazione a questo mestiere.
In un altro caso, quello del Museo-Hogar de Villa Fortabat, le storie che vi sono raccontate ruotano intorno alla fabbrica di cemento di Loma Negra (che era quella che dava sostentamento agli immigrati di oltre 20 nazionalità che hanno attraversato l’oceano per trovare lavoro all’inizio del ‘900) e intorno alle case e alle strutture che sono state costruite nei pressi del cementificio.
Questa nuova visione di “museo vivo” ha ricevuto, nel 2011, una menzione nella prima edizione del Premio Iberoamericano de Educación y Museos.

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Perché è importante? Perché questo progetto riflette un fenomeno educativo e partecipativo che sta portando trasformazioni fondamentali a livello mondiale; perché nasce da una ricerca sull'identità e si sviluppa grazie ad un processo partecipativo; perché è una riformulazione dello spazio del museo, inteso non più come un luogo statico, chiuso, ma dove si dà vita a processi sociali di riflessione e soprattutto di comunione, condivisione e inclusione.
La Red de Museos Municipales de los pueblos funziona attivamente tutto l'anno in tutte le sue sedi ed effettua anche eventi itineranti, utilizzando i propri spazi per attività inclusive rivolte a tutte le fasce di età e ai vari gruppi sociali che vivono in questi luoghi. Uno degli eventi annuali più attesi da tutti i musei della rete è quello dei “Cincuenta que Cuentan”. Nel corso di tre giorni, narratori provenienti da tutto il Paese si riuniscono, insieme ad ospiti internazionali, e si recano nelle città vicine a Olavarría raccontando storie non solo nei vari musei, ma anche per le strade e nei locali pubblici.
In questi musei le persone hanno a propria disposizione degli spazi per incontrarsi, per organizzare seminari e vari tipi di attività e, soprattutto, per far conoscere tradizioni che sono state perse e che hanno bisogno di essere rivalorizzate. Per questo motivo il museo esce anche dalle sue mura per raggiungere le persone nelle strade, nei negozi, nei luoghi in cui si trova la gente. E’ questa l'idea di Maribel: avvicinarsi a ciò che è realmente importante nella costruzione della identità del popolo: “I nostri musei sono comunitari perché gli oggetti appartengono alla gente”. I progetti museali, inoltre, si basano molto sulla collaborazione reciproca: nel caso di Loma Negra, per esempio, è stato dato uno spazio ai giovani skaters in cambio della loro cooperazione al ripristino dell’edificio. La cultura, quindi, è intesa come medium e messaggio, come un trasmettitore di valori, come spazio di costante riflessione e di pensiero critico in cui l'esperienza del visitatore crea un dialogo non solo dal punto di vista intellettuale, ma anche affettivo.
 “Si tratta di guardare indietro al nostro passato per capire ciò che siamo stati e ciò che ora siamo. E’ lo stesso procedimento mentale e affettivo che si attivava quando gli anziani, al termine della giornata, si riunivano intorno al fuoco e si raccontavano storie e ricordi” – afferma la direttrice - “Tuttavia non siamo musei che pensano solo al passato. Siamo un presente che mentre ricorda il passato pensa anche al futuro”.
Nei Museos de los pueblos– afferma la García – ciascuno racconta la propria "storia." Ciò riafferma il concetto di "umanizzazione della Storia affinché questa non sia solo una successione di date in cui le persone sono assenti, bensì un ridare alla gente il proprio posto per dimostrare che le nostre personali esperienze sono la cosa più importante".

https://www.facebook.com/RedDeMuseosMunicipalesDeLosPueblos?fref=photo
In Italia non si è ancora affermato niente di simile, ovvero non si è sviluppato un movimento di “riappropriazione di spazi museali” da parte della cittadinanza. I singoli musei possono proporre programmi culturali che prevedono una partecipazione più o meno attiva della cittadinanza, ma si tratta di iniziative sporadiche che non nascono da un apparato teorico ben definito e che, quindi, non sono collegate da un pensiero comune in grado di produrre un cambiamento a più ampio spettro. Anche la filosofia degli ecomusei, sebbene sia quella che più si avvicina alla museologia sociale, affermatasi soprattutto in America Latina a partire dagli anni ’60, pur teorizzando il modello di “museo di comunità” attraverso il trinomio territorio-patrimonio-cittadini che si contrappone al trinomio tradizionale edificio-collezione-pubblico[1], non ha poi sempre trovato riscontri veramente efficaci in una partecipazione diretta della comunità alla creazione del museo oppure sono stati prodotti risultati parziali. In alcuni casi, per esempio, le attività sono risultate più pertinenti a quelle delle Pro Loco, quindi di semplice promozione e animazione locale, mentre sono venuti a mancare i momenti di approfondimento, di confronto e di ricerca che caratterizzano le attività museali anche quando sono gestite da non specialisti. Altre volte non si è riusciti a superare la “logica verticale” dei musei classici, continuando a mettere in atto gestioni di tipo tradizionale.  
I musei che appartengono alla Red de Museos Municipales de los pueblos prima di iniziare questo progetto di “democratizzazione” erano stati organizzati secondo il modello classico di museo, incentrando le attività intorno alle proprie esposizioni permanenti; il problema era che la gente del luogo, dopo averle viste una volta, non sentivano più il bisogno di ritornare. L’unico modo per avvicinare la gente al museo, quindi, era creare innanzitutto un senso di appartenenza e poi una ragione valida per dedicare ad esso il proprio tempo.
Tornando al confronto con l’Italia, la difficoltà di attuare questo modello, nasce da alcuni errori di fondo. Chi gestisce un museo ha bisogno di chiedersi, innanzitutto, a chi vuole rivolgersi. Ai turisti? Agli esperti di una specifica materia? Alla cittadinanza? E’ curioso immaginare che un museo possa volersi rivolgere ad una sola di questa categorie, eppure in molti casi è proprio questo che avviene. Prendiamo ad esempio un piccolo museo di un borgo con un buon afflusso di turisti nel periodo estivo. Il museo funzionerà discretamente nel periodo tra maggio e ottobre, soprattutto se si trova in una località vocata alle vacanze balneari, marine o lacustri. In altri casi, potrà essere attivo, invece, in altri periodi dell’anno, a seconda delle caratteristiche del luogo o degli eventi importanti che vi si svolgono. Ma che cosa succederà negli altri mesi dell’anno? Nella maggior parte dei casi questo genere di musei si ferma, rimane inattivo in attesa di un nuovo periodo di maggiore frequentazione.


Il secondo esempio è quello dei musei che si rivolgono principalmente agli specialisti o alle persone con una cultura medio-alta. Sono facilmente riconoscibili perché generalmente le principali iniziative da questi promosse consistono in conferenze e seminari che hanno come risultato certo quello di tenere fuori dal museo una buona parte di potenziale pubblico.


Queste considerazioni riguardano, in generale, tutti i musei piccoli o periferici. Nel caso, poi, dei piccoli centri che possiedono un solo museo, si può aggiungere una ulteriore riflessione: generalmente si tratta di musei civici, i quali, in base ai contenuti, sono definiti “storici”, “archeologici”, “antropologici” o altro. 


Il problema non è solo nella denominazione ma nel tipo di gestione. Infatti, se è del tutto logico e normale che una grande città, fra i vari musei, abbia necessariamente tali musei specialistici, è incomprensibile come l’unico museo di un piccolo borgo possa essere un museo specialistico con poco o nessun interesse per la vita della propria comunità, totalmente avulso dal luogo in cui risiede. 
E’ necessario, invece, focalizzare l’attenzione su quali possono essere le condizioni migliori da attuare per rendere un museo un luogo “vivo”, usando l’espressione di Maribel García, e questo non è pensabile senza un coinvolgimento della comunità. Non è importante che tipo di collezione permanente contenga il museo, ciò che conta è che esso sia capace di ampliare i propri orizzonti, recependo nuovi stimoli dalla partecipazione collettiva.  




[1] Giovanni Pratesi, Francesca Vannozzi (a cura di), I valori del museo. Politiche di indirizzo e strategie di gestione, Milano 2014, p. 152

 Cari amici, in questi anni in cui ho svolto l’incarico di direttore scientifico del Museo Civico “Ferrante Rittatore Vonwiller”, dal 2019 a...