L'illusione degli ecomusei

Nel precedente post si è fatto cenno agli ecomusei e al loro particolare legame con la comunità. In questo articolo di Giovanni Pinna, direttore della rivista Nuova Museologia, tratto da n. 30 di Nuova Museologia, Giugno 2014 (www.nuovamuseologia.it), si approfondisce questa tematica evidenziando come spesso i progetti di ecomuseo esistenti si allontanino, invece, dai principi che sono stati formulati dai loro creatori e che, a loro volta, questi concetti - originariamente e nel loro evolversi - non siano mai stati disgiunti da forti ideologie politiche.
Si potrà mai parlare di una cultura veramente libera dalle influenze politiche? Il Modello della Red de Museos Municipales de los pueblos sperimentata in Argentina, può essere una valida alternativa agli ecomusei?


Che cosa penso degli ecomusei italiani


In un Paese in cui il potere politico si mantiene attraverso l’iper-burocratizzazione centralizzante è impensabile che possa essere lasciato alle singole comunità il diritto di gestire autonomamente le proprie memorie storiche e sociali. Il processo di controllo politico e sociale è evidente soprattutto nella burocratizzazione delle microstrutture museali locali - denominate spesso erroneamente ecomusei - realizzata attraverso il ricatto economico, imponendo cioè un certo tipo di organizzazione attraverso normative collegate alla erogazione di contributi pubblici.
Riporto qui di seguito due testi scritti anni addietro nei quali ponevo l’accento di come la politica di centralizzazione burocratica, attuata soprattutto a livello regionale, snaturi il ruolo delle comunità e le allontani dalla gestione del proprio patrimonio, tenda a omogeneizzare la culture locali e renda così del tutto improponibile il nome di ecomuseo che le amministrazioni pubbliche si ostinano ad attribuire alle piccole raccolte di me-morie storiche e sociali locali.

L’ecomuseo


(Estratto da Fondamenti teorici per un museo di storia naturale, Giovanni Pinna, Jaca Book, Milano, 1997)


Jean Clair sostiene che le prime idee di quella che diventerà l’ecomuseologia furono elaborate da Georges Henri Rivière nel 1936, come estensione dell’idea dei musei del folklore open-air, soprattutto di modello scandinavo, costruiti con l’intento di conservare le tradizioni popolari, e narra che lo stesso Rivière mise a punto la teoria dell’ecomuseo agli inizi degli anni Cinquanta, giungendo alla prima realizzazione pratica negli anni Sessanta.

[...] Nella mente di George Henri Rivière, di Jean Clair, di Hugues De Varine, l’ecomuseo doveva essere una struttura con forte incidenza sociale. Essa fu definita da De Varine “un’istituzione che gestisce, studia, esplora a fini scientifici, educativi e culturali in genere, il patrimonio globale di una certa comunità, comprendente la totalità dell’ambiente naturale e culturale di questa comunità”. Nella concezione originale, l’ecomuseo non era altro che la musealizzazione attiva del territorio di una comunità urbana o rurale, della comunità stessa, del suo ambiente naturale e culturale, delle sue tradizioni: attraverso la musealizzazione attiva, gestita e condotta direttamente dai membri della comunità, e cioè attraverso l’ecomuseo, strumento di conoscenza e di studio del territorio, della cultura e delle tradizioni della comunità, la comunità prendeva coscienza di se stessa, assumendo in proprio la responsabilità del suo sviluppo.
In questo senso va la definizione di ecomuseo, teorica e sotto molti aspetti velleitaria, proposta da Rivière come sintesi di una lunga elaborazione a più mani.
“Un ecomuseo è uno strumento che un potere e una popolazione concepiscono, fabbricano e esplorano assieme. Questo potere, con gli esperti, le agevolazioni, le risorse che fornisce. Questa popolazione, secondo le proprie aspirazioni, con le sue culture, con le sue capacità di accesso.

Uno specchio in cui questa popolazione si guarda, per riconoscersi, in cui essa cerca la spiegazione del territorio al quale appartiene, assieme a quelle popolazioni che l’hanno preceduta, nella discontinuità o nella continuità delle generazioni. Uno specchio che questa popolazione offre ai suoi ospiti, per farsi meglio comprendere, nel rispetto del suo lavoro, dei suoi comportamenti, della sua intimità.

Un’espressione dell’uomo e della natura. L’uomo vi è interpretato nel suo ambiente naturale. La natura lo è nel suo stato selvaggio, ma anche nella forma in cui la società tradizionale e la società industriale l’hanno adattata a loro immagine.

Un’espressione del tempo, quando la spiegazione risale al di qua del tempo in cui l’uomo è apparso, si svolge attraverso i tempi preistorici e storici che egli ha vissuto, sbocca nel tempo che egli sta vivendo. Con un’apertura sui tempi di domani, senza che, tuttavia, l’ecomuseo si ponga come elemento decisionale, ma all’occorrenza, giochi un ruolo d’informazione e di analisi.
Un’interpretazione dello spazio. Di spazi privilegiati, ove sostare o passeggiare.

Un laboratorio, nella misura in cui contribuisce allo studio storico e contemporaneo di questa popolazione e del suo ambiente e favorisce la formazione di specialisti in questo settore, in collaborazione con le organizzazioni di ricerca esterne.

Un luogo di conservazione, nella misura in cui aiuta alla conservazione e alla valorizzazione del patrimonio naturale e culturale di questa popolazione.

Una scuola, nella misura in cui associa questa popolazione alle sue azioni di studio e di protezione, o nella misura in cui la incita a meglio comprendere i problemi del suo avvenire.

Questo laboratorio, questo luogo di conservazione, questa scuola si ispirano a principi comuni.
La cultura che essi rivendicano deve intendersi nel suo senso più ampio, e essi si applicano per farne conoscere la dignità e l’espressione artistica, da qualsiasi strato della popolazione provengano le rinvendicazioni. La diversità è senza limite, tanto diversi sono i dati da un campione all’altro. Essi non si richiudono in se stessi, ma ricevono e danno.”

Questa funzione sociale dell’ecomuseo, di per se stessa lodevole, sottintendeva però una precisa ideologia politica, e diveniva così, fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, la risposta popolare e progressista alla museologia borghese delle grandi istituzioni francesi. L’ecomuseo era, di fatto, sia il popolo stesso, sia lo strumento per il controllo popolare del territorio, lo strumento per proteggere, e quindi conservare, l’ambiente naturale, le tradizioni e la cultura di una certa comunità messe in pericolo dal capitalismo selvaggio e dalla legge del profitto.

Tutto ciò è evidente negli scritti sull’ecomuseo degli anni Settanta. “Per andare al fondo delle cose – ha scritto per esempio De Varine – si può concludere che bisogna mettere in discussione il concetto di proprietà individuale. Certo, il solo istituire un ecomuseo non sopprime il diritto di proprietà che ogni membro della comunità mantiene. Il diritto di uso e di godimento resta intatto e non è il caso di utilizzare procedure quali l’esproprio o la confisca con l’unico pretesto che un individuo possiede un bene di cui l’ecomuseo ha bisogno! Nondimeno rimane il fatto che dalle considerazioni sul patrimonio della comunità che precedono deriva l’esistenza di fatto e il riconoscimento progressivo di un diritto morale della collettività su ciascun elemento del proprio patrimonio.”

Ma come dovrebbe funzionare un ecomuseo? De Varine, Rivière e gli altri teorici di questa istituzione hanno formulato tutta una serie di norme, che, nel loro entrare nei minimi particolari, raggiungono altissime vette burocratiche. Essi hanno ipotizzato ogni finalità, ogni meccanismo di gestione, hanno ipotizzato ogni procedura attraverso cui la comunità dovrebbe partecipare alla gestione dell’ecomuseo. Questa verrebbe affidata a comitati composti da delegati di gruppi spontanei o delle varie categorie che costituiscono la comunità, ovvero dai rappresentanti eletti della comunità, affiancati da tecnici o “consiglieri” che non avrebbero teoricamente il diritto né di proporre, né di decidere. Questo in teoria! Ma in pratica molti scritti inducono a pensare che l’ecomuseo non sarebbe in realtà guidato direttamente dalla comunità, ma, secondo una prassi politica ben consolidata, dall’azione di tipo missionario dei consiglieri, che diverrebbero così gli strumenti di un potere superiore per l’indottrinamento della comunità, o, se preferite una frase meno brutale (ma di identico significato), per convogliare in una precisa direzione lo sviluppo della comunità stessa.
L’ecomuseo, museo totalizzante, che ingloba e indirizza il pensiero di ogni individuo della comunità, che espropria moralmente i beni di ciascuno, condizionandone di fatto l’uso quotidiano, che cristallizza la vita quotidiana della comunità, appare come un mostro tentacolare in grado di spiare l’intimità di ogni individuo. Io non so se De Varine, Rivière e gli altri si sono resi conto di ipotizzare un mostro degno di Orwell, ma mi confortano due fatti: che l’ecomuseo come da essi ipotizzato non ha avuto molta fortuna sul piano pratico, e che essi stessi si sono accorti che la critica maggiore alla loro costruzione teorico-politica è stata che si trattava di pura utopia: “Una delle critiche che più spesso sono state indirizzate ai sostenitori dell’ecomuseo – ha scritto De Varine – si riassume in una parola: utopia. Ciò che dà consistenza a questo attacco è il carattere spesso teorico e esageratamente ottimista della descrizione dell’istituzione, in confronto alla relativa mediocrità dei risultati ottenuti fino ad oggi dagli ecomusei esistenti. Secondo la maggior parte degli osservatori, quello di Landes non è altro che un museo all’aperto migliorato; quello di Creusot è per essi solo un amalgama di attività e di esposizioni tradizionali all’interno di una struttura vaga e solo potenzialmente realizzata.”

L’insuccesso dell’ecomuseo, il suo trasformarsi di fatto in una struttura museale tradizionale, come De Varine notava nelle righe precedenti riferendosi alla Comunità Urbana di Creusot-Mon-ceau-les-Mines, dimostrano non solo la difficoltà della realizzazione pratica dell’utopia politico-sociale ecomuseologica, ma anche la forza del museo tradizionale in quanto struttura delegata dalla comunità alla conservazione del proprio patrimonio e quindi appartenente alla comunità, anche se non direttamente da essa gestita.

Come ho affermato con decisione nel corso di questo volume, il museo tradizionale è una struttura socialmente forte, ed è quindi inevitabile che ogni forma di partecipazione di una comunità alla gestione del proprio patrimonio si concretizzi alla fine, prima o poi, in una struttura museale che colleziona, studia e espone il patrimonio della comunità in modo tradizionale.

  
Intervento di Giovanni Pinna, Presidente dell’ICOM Italia, al convegno “Presente e futuro dell’ecomuseo”
(Sala conferenze IRES Piemonte, Torino, 16 maggio 2003)


Io non sono uno specialista in ecomusei, sebbene abbia studiato, almeno nelle grandi linee, la nascita e lo sviluppo del concetto di ecomuseo, dal dibattito che si era impostato prima del secondo conflitto mondiale, alle teorizzazioni e alle realizzazioni avvenute soprattutto in Francia fra il 1968 e il 1974, allo sviluppo quasi contemporaneo di un altro tipo di “ecomuseo”, quei neighborhood museums il cui modello principale rimane ancora il centro creato da John Kinard nel 1967 nel quartiere di Anacostia a Washington. Vorrei però ricordare in questa occasione che in un certo qual modo io stesso sono stato un precursore dell’ecomuseologia italiana, quando, da conservatore del Museo di Storia Naturale di Milano, fui sollecitato dai cittadini del paese di Besano a costruire con loro nel loro villaggio un piccolo museo dei fossili. Il villaggio di Besano, situato in provincia di Varese non lontano dalle sponde meridionali del Lago di Lugano, è noto perché nel suo territorio montuoso si apre un celebre giacimento paleontologico. Come documentai in un articolo apparso sulla rivista “Museum” nel 1976 (Création d’un musée des fossiles. Besano. Une initiative de la population, Museum, vol. 28, Paris, 1976), all’inizio degli anni Settanta i cittadini di Besano si erano convinti dell’importanza di quel giacimento, e vollero quindi che un piccolo museo fosse costruito nel loro villaggio. Questa semplice operazione museale condusse alla nascita di un vero e proprio ecomuseo, per il fatto che i cittadini non solo costruirono e iniziarono a gestire il loro museo, ma in qualche misura furono i promotori di nuove ricerche sul giacimento. Essi si offrirono volontari per riprendere gli scavi paleontologici e per difendere la zona dagli scavatori abusivi, impadronendosi così di un patrimonio culturale del loro territorio che per la prima volta sentirono veramente proprio. Il risultato è che il museo – oggi divenuto assai più ampio – è ancora aperto al pubblico e costituisce un punto di richiamo per visite turistiche e scolastiche, mentre gli scavi procedono ancora, fornendo ogni anno alla scienza materiali fossili di grande importanza[1]. L’interesse che alcune amministrazioni pubbliche italiane dimostrano nei confronti di istituzioni museali locali, cui viene attribuito il nome di ecomusei, e che in linea generale sembra concretizzarsi nella ricerca di un’organizzazione “a rete o a sistema” di tali istituzioni e di una normativa che determini la struttura organizzativa delle singole entità museali, fa sorgere in me due interrogativi:

•          è possibile che ecomusei, e cioè microstrutture museali che dovrebbero nascere spontaneamente dalla volontà delle comunità locali ed essere gestiti direttamente da queste comunità, senza intermediari, vengano organizzate da strutture politico-amministrative che prevedono una centralizzazione dei poteri decisionali, regioni, comunità montane o province?

•          è possibile che l’attività di questi ecomusei venga in qualche modo normata attraverso l’adozione di standard museali validi per tutti, dal momento che una loro caratteristica dovrebbe essere la diversità nei contenuti e nella gestione? Il concetto di ecomuseo è strettamente collegato alle idee di territorio e di identità, nel senso che l’ecomuseo è per una comunità il luogo della sua memoria, è il luogo in cui questa memoria viene conservata e interpretata dalla comunità stessa, senza intermediari. Se questo è l’ecomuseo, allora è chiaro che la diversità è una sua caratteristica intrinseca, e che l’organizzazione di un insieme di ecomusei di una data regione in un sistema creato, anche se non imposto, da un potere centrale non può non influire sulla diversità e quindi sulla natura e sul significato stesso dell’ecomuseo. L’organizzazione in sistema delle strutture museali da parte delle amministrazioni pubbliche è un’azione assai delicata, poiché rischia di scivolare verso la creazione di strutture di gestione autocratiche. Basta solo che la partecipazione a una rete organizzata (e normata) da un ente pubblico preveda per i partecipanti l’accesso a finanziamenti pubblici per creare le premesse per una centralizzazione del sistema decisionale.
Nella stessa direzione va l’ipotesi di proporre anche per gli ecomusei, come è stato fatto per la generalità dei musei italiani, standard di organizzazione e di gestione. Che lo si voglia o no, l’imposizione di standard conduce inevitabilmente alla omogeneizzazione, che contrasta con l’idea stessa di ecomuseo, in quanto organismo legato alle intime realtà territoriali. Ciò soprattutto se gli standard proposti non si limitano a suggerire le necessità primarie di un museo, ma entrano nell’intimo di ogni porzione dell’organizzazione della struttura museale e suggeriscono, o impongono, le azioni di gestione nei minimi dettagli. Questo è, a mio parere, il principale difetto degli ormai famosi “Atti di indirizzo” che costituiscono un pregevole trattatello di museologia, ma che non sono, come pretendono di essere, standard applicabili.

Analizzando per conto del governo delle Asturie il problema delle reti e dei sistemi museali (Redes y sistemas museisticos, introduzione al progetto della rete dei musei delle Asturie, maggio 2002), ho potuto notare come la tendenza delle amministrazioni vada verso la creazione di “sistemi” nei quali il potere decisionale non rimane ai singoli partecipanti al sistema, ma viene assunto dall’ente organizzatore del sistema. Sebbene venga dichiarato che tali sistemi di musei sono realizzati per l’ottimizzazione delle risorse (che si realizza per esempio con il mettere in comune alcuni servizi), in realtà nella maggior parte dei casi essi corrispondono a una logica di potere e di controllo, o vengono creati per sviluppare politiche culturali o per controllare interessi territoriali (sempre in campo politico-culturale).

Infine un’ultima annotazione sul delicato rapporto fra identità e alterità. L’ecomuseo è lo scrigno e la forgia della memoria di una comunità, e come tale è il luogo di conservazione della sua identità. Gli ecomusei tendono quindi, per loro stessa natura, a enfatizzare le identità delle comunità, un processo che include la consapevolezza della “diversità”, e il confronto con “l’altro”, colui che non condivide la mia stessa identità comunitaria. In questo senso gli ecomusei possono essere strumenti di esclusione e veicoli di rifiuto. E anche potenti strumenti politici, come ci insegna la gestione degli Heimatmuseen tedeschi negli anni del nazismo. Anche per questo seguo con apprensione la crescita di interesse di alcune amministrazioni pubbliche per i micro-musei locali e le ampie risorse che su di essi vengono riversate, e ricordo che André Desvallées ha scritto, parlando di quelli che egli chiama “musei di identità”, che essi “non devono mostrare mai le differenze senza mostrare anche le somiglianze” (1994).




[1] L’affidamento della gestione del museo a un’impresa commerciale dopo la metà degli anni Novanta ha trasformato lo spirito e la natura del museo allontanando così i cittadini di Besano dal museo e sottraendo loro il possesso morale del patrimonio.

La Rete dei Musei Municipali dei popoli: un modello attuabile anche in Italia?


La rivista online #emprendecultura (un progetto del portale Recursos Culturales), ha pubblicato un interessante articolo sulla Rete dei Musei Municipali dei popoli (Red de Museos Municipales de los pueblos) una iniziativa nata nel 2007 da un’idea dell’argentina Maribel García, che inverte la logica verticale dei musei classici per concentrarsi sulle persone stesse, interpretando lo spazio del museo come luogo di costruzione di una identità comunitaria. In questo nuovo tipo di museo, i protagonisti non sono le collezioni artistiche o storiche, non sono le opere d’arte o gli oggetti, ma sono le storie che si celano dietro di essi. Questi concetti derivano, in parte, dal pensiero del museologo Ariel Chiérico che è stato il primo a pensare ai “museos de los pueblos”, idea che è stata poi ampliata dall'attuale amministrazione cittadina grazie a Maribel Garcia che dirige la rete museale con il supporto della Subsecretaría de Cultura, Educación y Turismo di Olavarría (provincia di Buneos Aires).

Maribel García
Inizialmente la Garcia ha proposto al Sindaco di Olavarrìa di dare vita ad un progetto museale che prevedesse la partecipazione diretta della cittadinanza, affinché essa si appropriasse del museo per rivalorizzare la propria storia. Ogni comunità possiede caratteristiche proprie e storie che vale la pena conoscere, soprattutto in una nazione, l’Argentina, in cui si è avuta una grande immigrazione che ha portato qui persone di tante nazionalità, in particolare tedeschi, cecoslovacchi, spagnoli e italiani.
Finora la rete conta sette musei: Museo Municipal de sitio Calera la Libertadora de Sierras Bayas, Museo Municipal Ariel Chiérico de Colonia Hinojo, Museo Municipal de la Estación de Sierras Bayas, Museo Municipal Miguel Stoessell Muller de Colonia San Miguel, Museo Municipal de la piedra Ema Occhi de Sierra Chica, Museo Municipal de Espigas, Museo Municipal de Hinojo.
La caratteristica che li differenzia dai musei tradizionali è che  la volontà di creare uno spazio comune parte dagli stessi abitanti. Il progetto del museo, quindi, non è “imposto” dall’istituzione locale, ma è la gente che partecipa al processo di trasformazione del luogo, raccoglie gli oggetti, li crea e li documenta, nomina il direttore.
Non si tratta, quindi, di esperti con specifiche competenze in ambito museologico ma di persone che amano e che difendono il loro spazio e quando svolgono una visita guidata possono attingere alla propria vita e alla propria esperienza.

Foto tratta da: http://www.lu32.com.ar/nota/17622/los-chicos-del-colegio-nuevas-lenguas-visitaron-los-museos-municipales-de-los-pueblos
Per Maribel Garcia, la creazione di un museo vivo è innanzitutto un compito antropologico “in cui occorre fare un lavoro sul campo, vivendo e osservando, senza interferire nelle storie della gente”, perché lo scopo è che le persone capiscano che le proprie storie hanno un valore e che per questo esse saranno in seguito condivise nello spazio del museo.
La museografia di questi spazi è rappresentata, quindi, dalle interviste, dei racconti dei più anziani, dalle testimonianze scritte e dalla donazione di oggetti che vengono classificati in base alle storie dei donatori. Ciascuno è portatore di elementi identitari che sono discussi nel momento in cui si decidono le basi del progetto di allestimento del museo. In un determinato spazio del museo, per esempio, i mestieri possono essere rappresentati come una importante caratteristica identitaria della comunità, come è il caso degli scalpellini che arrivarono dall'Italia a Sierra Chica per estrarre le pietre che furono poi utilizzate nelle strade di tutta Buenos Aires. In questo caso il racconto si è sviluppato attraverso la rivalutazione del lavoro artigianale che facevano questi uomini ed intorno alle abitudini acquisite dalla città in relazione a questo mestiere.
In un altro caso, quello del Museo-Hogar de Villa Fortabat, le storie che vi sono raccontate ruotano intorno alla fabbrica di cemento di Loma Negra (che era quella che dava sostentamento agli immigrati di oltre 20 nazionalità che hanno attraversato l’oceano per trovare lavoro all’inizio del ‘900) e intorno alle case e alle strutture che sono state costruite nei pressi del cementificio.
Questa nuova visione di “museo vivo” ha ricevuto, nel 2011, una menzione nella prima edizione del Premio Iberoamericano de Educación y Museos.

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Perché è importante? Perché questo progetto riflette un fenomeno educativo e partecipativo che sta portando trasformazioni fondamentali a livello mondiale; perché nasce da una ricerca sull'identità e si sviluppa grazie ad un processo partecipativo; perché è una riformulazione dello spazio del museo, inteso non più come un luogo statico, chiuso, ma dove si dà vita a processi sociali di riflessione e soprattutto di comunione, condivisione e inclusione.
La Red de Museos Municipales de los pueblos funziona attivamente tutto l'anno in tutte le sue sedi ed effettua anche eventi itineranti, utilizzando i propri spazi per attività inclusive rivolte a tutte le fasce di età e ai vari gruppi sociali che vivono in questi luoghi. Uno degli eventi annuali più attesi da tutti i musei della rete è quello dei “Cincuenta que Cuentan”. Nel corso di tre giorni, narratori provenienti da tutto il Paese si riuniscono, insieme ad ospiti internazionali, e si recano nelle città vicine a Olavarría raccontando storie non solo nei vari musei, ma anche per le strade e nei locali pubblici.
In questi musei le persone hanno a propria disposizione degli spazi per incontrarsi, per organizzare seminari e vari tipi di attività e, soprattutto, per far conoscere tradizioni che sono state perse e che hanno bisogno di essere rivalorizzate. Per questo motivo il museo esce anche dalle sue mura per raggiungere le persone nelle strade, nei negozi, nei luoghi in cui si trova la gente. E’ questa l'idea di Maribel: avvicinarsi a ciò che è realmente importante nella costruzione della identità del popolo: “I nostri musei sono comunitari perché gli oggetti appartengono alla gente”. I progetti museali, inoltre, si basano molto sulla collaborazione reciproca: nel caso di Loma Negra, per esempio, è stato dato uno spazio ai giovani skaters in cambio della loro cooperazione al ripristino dell’edificio. La cultura, quindi, è intesa come medium e messaggio, come un trasmettitore di valori, come spazio di costante riflessione e di pensiero critico in cui l'esperienza del visitatore crea un dialogo non solo dal punto di vista intellettuale, ma anche affettivo.
 “Si tratta di guardare indietro al nostro passato per capire ciò che siamo stati e ciò che ora siamo. E’ lo stesso procedimento mentale e affettivo che si attivava quando gli anziani, al termine della giornata, si riunivano intorno al fuoco e si raccontavano storie e ricordi” – afferma la direttrice - “Tuttavia non siamo musei che pensano solo al passato. Siamo un presente che mentre ricorda il passato pensa anche al futuro”.
Nei Museos de los pueblos– afferma la García – ciascuno racconta la propria "storia." Ciò riafferma il concetto di "umanizzazione della Storia affinché questa non sia solo una successione di date in cui le persone sono assenti, bensì un ridare alla gente il proprio posto per dimostrare che le nostre personali esperienze sono la cosa più importante".

https://www.facebook.com/RedDeMuseosMunicipalesDeLosPueblos?fref=photo
In Italia non si è ancora affermato niente di simile, ovvero non si è sviluppato un movimento di “riappropriazione di spazi museali” da parte della cittadinanza. I singoli musei possono proporre programmi culturali che prevedono una partecipazione più o meno attiva della cittadinanza, ma si tratta di iniziative sporadiche che non nascono da un apparato teorico ben definito e che, quindi, non sono collegate da un pensiero comune in grado di produrre un cambiamento a più ampio spettro. Anche la filosofia degli ecomusei, sebbene sia quella che più si avvicina alla museologia sociale, affermatasi soprattutto in America Latina a partire dagli anni ’60, pur teorizzando il modello di “museo di comunità” attraverso il trinomio territorio-patrimonio-cittadini che si contrappone al trinomio tradizionale edificio-collezione-pubblico[1], non ha poi sempre trovato riscontri veramente efficaci in una partecipazione diretta della comunità alla creazione del museo oppure sono stati prodotti risultati parziali. In alcuni casi, per esempio, le attività sono risultate più pertinenti a quelle delle Pro Loco, quindi di semplice promozione e animazione locale, mentre sono venuti a mancare i momenti di approfondimento, di confronto e di ricerca che caratterizzano le attività museali anche quando sono gestite da non specialisti. Altre volte non si è riusciti a superare la “logica verticale” dei musei classici, continuando a mettere in atto gestioni di tipo tradizionale.  
I musei che appartengono alla Red de Museos Municipales de los pueblos prima di iniziare questo progetto di “democratizzazione” erano stati organizzati secondo il modello classico di museo, incentrando le attività intorno alle proprie esposizioni permanenti; il problema era che la gente del luogo, dopo averle viste una volta, non sentivano più il bisogno di ritornare. L’unico modo per avvicinare la gente al museo, quindi, era creare innanzitutto un senso di appartenenza e poi una ragione valida per dedicare ad esso il proprio tempo.
Tornando al confronto con l’Italia, la difficoltà di attuare questo modello, nasce da alcuni errori di fondo. Chi gestisce un museo ha bisogno di chiedersi, innanzitutto, a chi vuole rivolgersi. Ai turisti? Agli esperti di una specifica materia? Alla cittadinanza? E’ curioso immaginare che un museo possa volersi rivolgere ad una sola di questa categorie, eppure in molti casi è proprio questo che avviene. Prendiamo ad esempio un piccolo museo di un borgo con un buon afflusso di turisti nel periodo estivo. Il museo funzionerà discretamente nel periodo tra maggio e ottobre, soprattutto se si trova in una località vocata alle vacanze balneari, marine o lacustri. In altri casi, potrà essere attivo, invece, in altri periodi dell’anno, a seconda delle caratteristiche del luogo o degli eventi importanti che vi si svolgono. Ma che cosa succederà negli altri mesi dell’anno? Nella maggior parte dei casi questo genere di musei si ferma, rimane inattivo in attesa di un nuovo periodo di maggiore frequentazione.


Il secondo esempio è quello dei musei che si rivolgono principalmente agli specialisti o alle persone con una cultura medio-alta. Sono facilmente riconoscibili perché generalmente le principali iniziative da questi promosse consistono in conferenze e seminari che hanno come risultato certo quello di tenere fuori dal museo una buona parte di potenziale pubblico.


Queste considerazioni riguardano, in generale, tutti i musei piccoli o periferici. Nel caso, poi, dei piccoli centri che possiedono un solo museo, si può aggiungere una ulteriore riflessione: generalmente si tratta di musei civici, i quali, in base ai contenuti, sono definiti “storici”, “archeologici”, “antropologici” o altro. 


Il problema non è solo nella denominazione ma nel tipo di gestione. Infatti, se è del tutto logico e normale che una grande città, fra i vari musei, abbia necessariamente tali musei specialistici, è incomprensibile come l’unico museo di un piccolo borgo possa essere un museo specialistico con poco o nessun interesse per la vita della propria comunità, totalmente avulso dal luogo in cui risiede. 
E’ necessario, invece, focalizzare l’attenzione su quali possono essere le condizioni migliori da attuare per rendere un museo un luogo “vivo”, usando l’espressione di Maribel García, e questo non è pensabile senza un coinvolgimento della comunità. Non è importante che tipo di collezione permanente contenga il museo, ciò che conta è che esso sia capace di ampliare i propri orizzonti, recependo nuovi stimoli dalla partecipazione collettiva.  




[1] Giovanni Pratesi, Francesca Vannozzi (a cura di), I valori del museo. Politiche di indirizzo e strategie di gestione, Milano 2014, p. 152

ArtLab 15: management e innovazione culturale.




Dal 23 al 26 settembre 2015 torna a Lecce ArtLab 15, l'appuntamento annuale dedicato alla comunità della cultura e organizzato dalla Fondazione Fitzcarraldo con Regione Puglia e Città di Lecce. Incontri, seminari, tavoli di lavoro e pillole formative per una decima edizione focalizzata sulle tematiche dell'innovazione culturale e della valorizzazione del patrimonio pubblico. 
In agenda sono previsti incontri, analisi di casi studio, laboratori formativi su tematiche gestionali e tavoli di lavoro che approfondiranno alcuni temi caldi del dibattito che anima gli operatori della cultura: 

• Innovazioni sociali e culturali: esperienze sul campo e programmi di sostegno
• Il ciclo di Programmazione 2014-2020: grandi attrattori e valorizzazione territoriale, il ruolo delle imprese culturali e creative 
• Allargamento e coinvolgimento di nuovi pubblici: buone pratiche in Italia e in Europa 
• Sviluppo e gestione di spazi e beni culturali: le sfide della costruzione della sostenibilità sociale ed economica 

La partecipazione agli incontri, che si svolgeranno nel centro storico della città salentina, è gratuita e materiali e spazi sono pensati all’insegna dell’accessibilità, tema da sempre centrale per ArtLab.  


Per informazioni contatta artlab@fitzcarraldo.it 

Associazione Nazionale Piccoli Musei e Artribune insieme per dare voce ai piccoli musei




L’APM ha stipulato un accordo con Artribune, importante testata di arte e cultura contemporanea, con la più ampia e diffusa redazione culturale del Paese (conta 250 collaboratori in tutto il mondo), per dare vita ad una partnership che prevede le seguenti azioni:
- Artribune sarà il referente editoriale dell’APM per il Convegno Nazionale del 2015 e per quello del 2016;
- pubblicazione su Artribune di notizie che riguardano l’attività istituzionale dell’APM;
- promozione di ‪#‎smallmuseumtour‬, diffusione delle date e dei nomi dei musei partecipanti;
- pubblicazione settimanale su Artribune di notizie selezionate ed innovative attinenti i piccoli Musei Italiani;
- pubblicazione mensile di un servizio, in esclusiva editoriale, su un piccolo Museo con immagini e con una intervista.
Invitiamo, pertanto, i Piccoli Musei, soci e non soci, che seguono le attività dell’APM, a collaborare, inviandoci settimanalmente notizie che riguardano i propri musei (mostre, convegni ed altre attività culturalmente rilevanti e significative) a questo indirizzo di posta elettronica.
Vi invitiamo, inoltre, a iscrivervi alla Newsletter e a seguire la Pagina Facebook di Artribune per rimanere sempre aggiornati.

Un primato italiano dimenticato o volutamente ignorato?

Una riflessione di Salvatore Settis mentre il Ddl Madia darà un ulteriore colpo di grazia al patrimonio culturale e ambientale del nostro Paese

"L’Italia è stata la prima a integrare la tutela del paesaggio e del patrimonio culturale nei principi fondamentali della sua Costituzione. La consistenza e la qualità del patrimonio da un lato, la cultura italiana della salvaguardia dall’altro sono le due facce della stessa medaglia. Le regole in merito alla conservazione non avrebbero visto la luce del giorno senza un senso civico risvegliato dalla densità del patrimonio culturale e la presenza di quest’ultimo non sarebbe mai stata così durevole se non fosse stata garantita da regole nel corso dei secoli. Che debbano esistere delle regolamentazioni pubbliche dei principi di tutela non è affatto dimostrato e, in effetti, la maggior parte dei Paesi non ne hanno avute per molto tempo. Nel XX secolo e in particolare all’inizio della seconda guerra mondiale, le leggi di tutela del patrimonio si sono moltiplicate in diversi Paesi (ad esempio in America Latina, in Africa e in Asia) seguendo modelli importati dall’Europa, ma i modelli europei si sono sviluppati a loro volta prendendo esempio dall’Italia".

("Settis: Perché gli italiani sono diventati nemici dell’arte", Il Giornale dell'Arte, numero 324, ottobre 2012)


La considerazione di Salvatore Settis, sopra riportata, dovrebbe sempre essere tenuta presente da tutti noi e dalle Istituzioni in primis, soprattutto ora che il Ddl Madia sancirà il silenzio assenso e la confluenza delle soprintendenze nelle prefetture. "Si tratta del più grave attacco al sistema della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale mai perpetrato da un governo della Repubblica" dicono intellettuali, costituzionalisti e associazionicome si legge nell'articolo di Giulio Cavalli.

Questo è il punto cruciale del Ddl Madia:
Con l'art. 3 si introduce il silenzio assenso nei procedimenti autorizzativi delle Soprintendenze, i cui uffici, dotati di poco personale con funzione tecnico-scientifica, dovranno esaminare e provvedere alle migliaia di istanze per autorizzazioni entro 90 giorni per i quali, in difetto, interverrà il silenzio assenso. 




Vedi anche:



Musei e paesaggi culturali 2015

Si è aperto il censimento di ICOM dedicato ai progetti incentrati sul tema "Musei e paesaggi culturali"




Nel 2014 ICOM Italia ha iniziato la prima fase del censimento "Musei e paesaggi culturali" (MeP) per individuare i musei che si sono occupati e si occupano attivamente di paesaggio o che hanno promosso e promuovono attività legate al paesaggio culturale, offrendo una visione d'insieme della situazione attuale, consultabile on line in forma sintetica e analitica.
La seconda edizione 2015 del censimento "MeP" si è aperta da pochi giorni. Fino al 15 ottobre i musei italiani impegnati in progetti legati al tema potranno presentarli attraverso il portale realizzato per ICOM Italia da CINECA. Le indicazioni per la compilazione della scheda, la presentazione del progetto e materiali di approfondimento sul tema sono disponibili sul sito di ICOM Italia.
L'obiettivo principale di questa seconda fase del censimento "MeP" 2015 sarà l'individuazione e la valorizzazione delle "buone pratiche" realizzate dai musei italiani in relazione al tema. Tutti i progetti acquisiti saranno presentati attraverso i siti web di ICOM Italia e di "ICOM Milano 2016". Le iniziative più interessanti saranno valorizzate attraverso diverse occasioni di comunicazione, tra cui il "Premio ICOM 2015-2016" e le iniziative collegate alla Conferenza generale "ICOM Milano 2016".
L'augurio di ICOM Italia è che "MeP" 2015 possa contribuire a promuovere, in ambito nazionale e nei confronti dei professionisti museali stranieri che parteciperanno alla Conferenza internazionale, la qualità dell'offerta culturale proposta dai musei italiani.
L’area tematica
"Musei e paesaggi culturali" è il tema scelto per la 24a Conferenza generale dell'ICOM che si svolgerà a Milano dal 3 al 9 luglio 2016. 
Il tema è stato proposto dal Comitato nazionale italiano di ICOM per individuare in che modo i musei possono contribuire a far riconoscere universalmente l'importanza del patrimonio naturale e culturale.
Il rapporto fra musei e territorio è stato oggetto di ricorrenti dibattiti e di numerosi quanto vani tentativi di integrazione, concettuale e operativa, tra tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e pianificazione territoriale e urbanistica.
Da tempo ICOM Italia si batte per affermare un nuovo modello di "tutela attiva" in cui i musei svolgano il ruolo di presidi territoriali integrandosi all'interno del sistema statale di tutela, come illustrato nella Carta di Siena.
Oggi la riforma dei musei statali e la creazione di un Sistema Museale Nazionale di cui faranno parte musei pubblici e privati, propone un nuovo orizzonte di integrazione fra tutela e valorizzazione e permette di pensare ai musei come centri di responsabilità impegnati nella conservazione e nella valorizzazione non solo delle proprie collezioni, ma del patrimonio e dunque anche del paesaggio culturale.
Le azioni
Acquisizione delle schede (15 luglio-15 ottobre 2015)
I musei interessati a partecipare al Censimento possono iscriversi al portale preparato da CINECA e compilare l'apposita scheda (un solo progetto per ogni museo).
Nella sezione FAQ del sito sono presenti tutte le informazioni necessarie per la compilazione.
Validazione e valutazione delle schede (ottobre-dicembre 2015)
Ogni scheda caricata sul portale verrà registrata nel database e resa visibile al Coordinatore regionale ICOM di competenza che ne accerterà la corretta compilazione. Nel caso siano necessarie modifiche o integrazioni (es. voci di scheda fraintese, incomplete o non risposte) la scheda verrà rinviata al mittente  per l'implementazione e la correzione necessaria. 
Se la Regione in cui opera il museo non possiede un Coordinamento regionale, la scheda sarà assegnata ad uno dei coordinatori di Area. 
Le schede validate saranno valutate da gruppi di lavoro territoriali e successivamente dal Gruppo di Coordinamento nazionale.
Approfondimento e prima valorizzazione dei progetti più interessanti (dicembre 2015-maggio 2016)
I componenti del Gruppo di Coordinamento nazionale verificheranno le modalità di pubblicazione e valorizzazione delle schede più interessanti (conferenze, premi, pubblicazioni, inserimento nelle proposte pre e post conference, etc), tenendo conto delle collaborazioni attivate e delle capacità di comunicazione offerte dai progetti selezionati.
I componenti del Gruppo di lavoro e i contatti
Coordinatori regionali (i contatti sono reperibili sul sito di ICOM Italia)
Paola Di Felice (Abruzzo), Marianella Pucci (Campania), Valentina Galloni (Emilia Romagna), Maria Masau Dan (Friuli Venezia Giulia), Maria Antonella Fusco (Lazio), Fiorangela di Matteo (Liguria), Federica Manoli (Lombardia), Giuliana Pascucci (Marche), Patrizia Petitti (Piemonte, Valle D'Aosta), Raphael Aboav (Puglia), Valeria Patrizia Li Vigni (Sicilia), Serena Nocentini (Toscana), Giovanni Delogu (Umbria), Giuliana Ericani (Veneto).
Coordinatori di Area
Nord Federica Manoli, lombardia@icom-italia.org (Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Trentino Alto Adige, Valle d'Aosta, Veneto)
Centro Valentina Galloni, emilia-romagna@icom-italia.org (Emilia Romagna, Lazio, Marche, Sardegna, Toscana, Umbria)
Sud Raphael Aboav, puglia@icom-italia.org (Basilicata, Puglia, Sicilia); Marianella Pucci, campania@icom-italia.org (Abruzzo, Calabria, Campania, Molise). 
Gruppo di coordinamento nazionale 
Comprende, oltre i Coordinatori d'Area: Annalisa Besso, Stefano Filipponi, Daniele Jalla, Tiziana Maffei, Cecilia Sodano:  coordinamento.mep2015@gmail.com.

Altre informazioni sul sito di ICOM.

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