di Caterina Pisu
Il documento “Linee programmatiche dell’azione del ministro per i beni e le attività culturali”,
esposto dal ministro Massimo Bray lo scorso 23 maggio, fa riferimento in vari
punti al patrimonio museale. In particolare, al punto 4, “I Musei e gli
altri luoghi della cultura. La destinazione dei proventi dei biglietti”,
si legge:
“È assolutamente prioritario
un intervento normativo finalizzato a modificare le disposizioni normative
attualmente in vigore in virtù delle quali gli introiti derivanti dalla
vendita dei biglietti di ingresso dei musei, dalla concessione dei servizi
al pubblico (libreria, caffetteria, audioguide e simili) e dai canoni
dovuti per la riproduzione dei beni culturali statali vengono introitati
al bilancio dello Stato e riassegnati, ma solo in minima parte, al
Ministero per i beni e le attività culturali.
Se è già colpevole che il
nostro Paese finanzi in misura nettamente insufficiente la cultura, è
addirittura intollerabile che vengano sottratti al Ministero i proventi
derivanti direttamente dagli introiti dei musei e degli altri luoghi
della cultura. La ricchezza prodotta dalla cultura, in questo modo, viene
sottratta proprio ai soggetti che la hanno generata”.
Questo è un punto fondamentale ed
è certamente uno degli errori che hanno “disattivato” per anni la capacità
delle istituzioni museali di reinvestire su se stesse. Il rilievo fatto da
Massimo Bray, dunque, se attuato, potrà portare cambiamenti che non tarderanno
a produrre benefici, purché a ciò si congiunga la ricerca di nuovi modelli di
gestione museale che non considerino i musei tutti uguali, ma tengano conto
delle loro specifiche caratteristiche, delle dimensioni e delle varie realtà in
cui essi operano.
A questo riguardo, un altro passo
del documento ha attirato la mia attenzione. Si tratta del paragrafo 16, “La
valorizzazione del patrimonio culturale. Una migliore fruizione dei
luoghi della cultura. Una gestione efficace dei servizi accessori”. In questa parte si fa riferimento all’importanza
di realizzare alcuni degli obiettivi più importanti che i musei devono
perseguire: prima di tutto l’accessibilità, che è legata al diritto di tutti di
fruire del patrimonio culturale, senza ostacoli architettonici che limitino la
libertà di movimento o che, in vari modi, penalizzino le persone disabili; ma
anche senza ostacoli culturali, cioè senza barriere che tengano lontane le
persone per la loro razza, nazionalità, religione, sesso, cultura, età, ecc.
ecc.. I musei devono mettere in atto nuove strategie di avvicinamento
del pubblico che aiutino a superare le diversità e a favorire l’integrazione
dei cittadini. Si legge, infatti: “In
tema di valorizzazione gli obiettivi che richiedono di essere perseguiti
sono il miglioramento dell’accessibilità ai musei, non sempre assicurata a
tutte le fasce di utenti e con orari di apertura spesso penalizzanti (…). Anche la scelta degli orari può essere sfavorente
soprattutto se i musei non tengono conto che i propri visitatori non sono
soltanto i turisti che hanno a disposizione un’intera giornata per accedere ai
musei negli orari prestabiliti, ma sono anche i residenti, verso i quali
bisogna realizzare programmi culturali specifici e per i quali bisogna pensare
ad orari di visita più flessibili, che non coincidano con gli orari della
scuola e del lavoro.
Prosegue, quindi, il documento:
(…)una qualità dei servizi nei
Musei che sia adeguata agli standard internazionali, il rinnovo delle
concessioni dei servizi al pubblico nei Musei, ampiamente scadute e che, a
causa di contenziosi insorti rispetto alle procedure di gara avviate nel
2010, non è stato possibile rinnovare”.
L’affidamento dei servizi aggiuntivi a società esterne, è stato, fin dall’inizio,
molto problematico e non di rado anche conflittuale rispetto alla gestione
primaria del museo. Questo è un punto che non è stato messo in luce nelle linee
programmatiche del ministro Bray, ma che rappresenta un nodo da sciogliere per
superare il dualismo tra conservazione e valorizzazione, che tuttora persiste. Senza
una gestione più unitaria non si potranno neppure fornire servizi adeguati e
conformi alle finalità che si prefigge il museo e al suo “concept”.
Nel passo successivo si legge:
“(…) è inoltre necessario
favorire una maggiore integrazione tra i luoghi della cultura statali e
non statali, presenti nelle stesse città, anche mediante la promozione
degli itinerari culturali non inseriti nei principali circuiti turistici. Infine,
è necessario stimolare e favorire una maggiore attenzione delle giovani
generazioni per il patrimonio culturale”.
Porre l’attenzione sulla
promozione degli itinerari culturali non inseriti nei principali circuiti
turistici, è un obiettivo che mi auguro possa essere effettivamente portato a
compimento, perché, sebbene non si faccia preciso riferimento alla miriade di
piccoli musei che caratterizzano la vita culturale delle nostre province e dei
nostri borghi, si comprende finalmente che il patrimonio culturale non è
rappresentato soltanto dai grandi musei e dai monumenti più noti, ma anche e,
direi, soprattutto, dall'espressione della cultura locale delle piccole e medie
comunità e delle comunità periferiche delle grandi città. Se il 90% del
patrimonio museale italiano è rappresentato dai piccoli musei, perché questa ricchezza è abbandonata a se stessa e, anzi,
è spesso vista come un fardello o come uno spreco di risorse pubbliche? Secondo
il museologo croato Tomilav Šola, il crescente neoliberismo ha diffuso l'idea
che i musei siano un peso, ma essi, al contrario, possono produrre enormi
benefici alla società; i nuovi metodi econometrici mostrano che le ricadute
economiche che essi, indirettamente, riescono a produrre per la comunità
superano quelli che provengono dalle attività commerciali abituali. Addirittura
alcune ricerche hanno rilevato che un comprensorio in cui è attivo un museo,
può disporre di quasi il doppio dei posti di lavoro come esito delle attività
che si svolgono “per” e “intorno” al museo. Se non si demolisce la falsa
opinione che i musei conducano allo spreco di risorse pubbliche e che siano
enti inutili, si priverà la società di una potenziale e importantissima leva
economica per il suo sviluppo economico, sociale e culturale. Ma questa
convinzione deve essere smantellata a partire dalle istituzioni, dai soggetti
decisori nelle pubbliche amministrazioni e negli enti locali.
E’ interessante rilevare che nelle linee programmatiche del ministro
Bray, le necessità dei visitatori occupano un ruolo non secondario e, di
conseguenza, i servizi sono descritti in funzione del benessere dei primi e non
solo in funzione della ricerca di proventi, sebbene questo sia un aspetto cui
si dà ancora un’importanza rilevante.
Si legge, infatti:
“(…) è necessario impegnarsi
per il miglioramento della pubblica fruizione dei siti culturali
attualmente non aperti al pubblico o non adeguatamente valorizzati. I dati
in possesso del Ministero dicono che numerosi siti culturali statali sono
attualmente non visitabili o sono aperti solo in determinati giorni e
orari. In questi luoghi della cultura – è quasi inutile aggiungerlo – sono
del tutto carenti i servizi in favore del pubblico: dalle audioguide, alle
librerie, ai servizi di ristorazione. Si tratta di un fenomeno molto
grave, perché la mancata fruizione dei beni rappresenta un impoverimento
per la collettività. Un impoverimento anzitutto culturale, ma anche
economico, se si considerano le opportunità di lavoro che potrebbero
derivare dall’apertura di quei siti e l’indotto che potrebbe essere generato”.
Ma si aggiunge anche:
“Peraltro, l’attuale
situazione dei conti pubblici non consente di ipotizzare l’effettuazione
di assunzioni del grande numero di unità di personale, soprattutto
di custodia, che sarebbe necessario a tal fine”.
E’ chiaro che senza un piano finanziario che tenga conto della necessità
di nuove assunzioni, anche le migliori intenzioni resteranno sulla carta.
Pertanto si suggerisce:
“La via percorribile potrebbe,
pertanto, essere quella di consentire la concessione dei siti, sulla base
di un progetto di restauro e di valorizzazione condiviso
dall’Amministrazione, a soggetti privati, sulla base di procedure
selettive di evidenza pubblica e per un periodo di tempo determinato. Ove,
poi, la gestione imprenditoriale dei luoghi della cultura interessati
dovesse risultare non profittevole, potrebbe ipotizzarsi la concessione a
soggetti non lucrativi, che sarebbero in grado di assicurare almeno
l’apertura al pubblico”.
In entrambi i casi si tratta di soluzioni che possono essere adottate con
successo purché ciò non significhi la rinuncia da parte delle istituzioni
pubbliche ad occuparsi della gestione dei luoghi culturali del nostro Paese,
perché una privatizzazione generalizzata, affidata a soggetti che potrebbero
anteporre il profitto alla conservazione, alla ricerca e ad una adeguata
valorizzazione, potrebbe essere un’idea con esiti talora disastrosi. Bisogna
insistere, invece, affinché lo Stato consideri il patrimonio culturale come un
bene su cui investire, coinvolgendo sì i soggetti privati o il volontariato, ma
non demandando ad essi l’intera gestione, compresa la tutela dei luoghi
culturali, generando conflitti tra le parti, in particolare con le
Soprintendenze, che, invece, anziché perdere potere d’azione, dovrebbero essere
rinnovate, meglio finanziate e dotate di nuovo personale.
Nel documento, si prende atto anche di una attenzione decisamente accresciuta
del Ministero nei confronti delle moderne tecnologie di comunicazione. Il ministro
Bray, che utilizza normalmente i social networks, ha voluto dare ad essi la
giusta rilevanza anche nel settore culturale, cercando di superare quelle
reticenze che ancora sussistono, soprattutto tra i professionisti che
appartengono alle generazioni meno “tecnologiche”. E Bray sembra anche aver
tenuto nella debita considerazione il recente fenomeno delle Invasioni
digitali, cui non fa espresso riferimento, ma del quale esprime i concetti di
fondo, soprattutto in relazione ai diritti di riproduzione delle immagini:
“Le moderne tecnologie,
internet, i social networks, la tendenza a una circolazione sempre più
veloce delle informazioni e dei contenuti, prodotti oggi in modo diffuso,
da soggetti non professionali, costituiscono fattori di crescita
culturale, sociale ed economica e, soprattutto, di democrazia, e non
possono non spingere verso l’aggiornamento anche dell’attuale disciplina
in materia di riproduzione dei beni culturali. La normativa vigente,
infatti, prevede che per riprodurre l’immagine di un bene culturale
appartenente allo Stato, a una regione o a un comune sia sempre necessaria
un’apposita autorizzazione e che sia inoltre ordinariamente dovuto
un canone. La regola vale sia nel caso di riproduzione – per così dire –
“dal vivo” del bene, sia ove si tratti di riproduzione di un’immagine già
esistente, per esempio nel caso in cui si pubblichi una fotografia già
esistente di un’opera d’arte sulla propria pagina di Facebook. Non solo,
ma l’autorizzazione è rilasciata a titolo gratuito solo in caso di
riproduzione “per uso personale o per motivi di studio”, senza che
possa ritenersi del tutto chiaro se tale sia, ad esempio, la pubblicazione
della foto su un blog o su un social network. Si tratta, con tutta
evidenza, di una normativa che richiede di essere chiarita e messa al
passo con i tempi, soprattutto ove si consideri che a un tale astratto rigore nel
perseguire la pubblicazione di foto di beni culturali su internet da parte di
privati cittadini non si associa, purtroppo, altrettanta capacità di
trarre occasioni di introito, in favore dell’erario e, quindi, della
collettività, dalle utilizzazioni commerciali dell’immagine dei beni
culturali pubblici. Anche su tali aspetti, pertanto, è necessario e
urgente un intervento normativo”.
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