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Un caffé al museo


di Caterina Pisu



Navigando su internet mi sono imbattuta in un blog che non aveva assolutamente niente a che vedere con i musei (un blog di ricette di cucina), ma in cui si faceva cenno al Caffé del Museo della Storia di Bologna. Quello che mi ha colpito è leggere l'entusiasmo con cui l'autrice lo ha descritto, decidendo addirittura di passarvi tutti i week-end dell'estate. 
Il bar, pur appartenendo alla struttura museale, consente l'ingresso indipendentemente dalla visita al museo, ma sarebbe interessante sapere quante persone hanno deciso o decideranno di entrare al museo solo perché attratte da questo bellissimo Caffè. Così mi è venuto in mente un articolo che avevo letto nel 2010 su corrieredellasera.it e che sono riuscita a ritrovare; l'articolo è di Francesca Bonazzoli e l'autrice scrive, a proposito dei bar dei musei di Roma: "Grazie alla dolcezza del clima, ai giardini lussureggianti e alle terrazze dalla vista spettacolare, regalano l’ebbrezza di farti sentire uno di quei turisti americani a Roma nei film degli anni Cinquanta, fra camerieri in candida divisa bianca, palme, alberi di agrumi, arredi di bambù, pianoforti a coda, chiacchericcio internazionale e tanto ghiaccio nei bicchieri". 
Nell'articolo ora citato si parla dei Caffé di alcuni dei musei più importanti di Roma: il Caffé delle Arti della Galleria d'Arte Moderna, il Bar di Villa Medici al Pincio, il bar ristorante Open Colonna del Palazzo delle Esposizioni e infine il Bar dei Musei Capitolini. Non sappiamo esattamente se in tutti questi casi, come pure in tanti altri luoghi di ristoro appartenenti a strutture museali di tutta Italia, si sia raggiunto davvero uno degli obiettivi che ci si era prefissati con la legge Ronchey, quello, cioè, di fare dei musei statali dei luoghi di aggregazione, ispirandosi alle collaudate esperienze straniere, in particolare nordamericane, e cercando così di "svecchiare" il sistema dei servizi museali italiani.
Purtroppo non sempre i risultati sono stati quelli voluti, soprattutto a causa di scelte gestionali non molto lungimiranti. Abbiamo citato, in apertura, il Caffé del Museo della Storia di Bologna che si presenta come un'area accessibile anche a chi deciderà di non entrare in un museo: una strategia indiscutibilmente intelligente. In un articolo comparso ne il Giornale del 2003, Camillo Langone ricorda altri casi simili, fuori dall'Italia, molto noti, come il Guggenheim e il Whitney Museum. All'opposto, ci sono musei che invece penalizzano la fruizione delle caffetterie; a questo proposito Langone ne cita alcune, note quasi solo agli addetti ai lavori, quasi "nascoste" dentro i musei, che oltretutto obbligano non solo a pagare conti più salati rispetto a un normale bar sulla strada, ma anche a caricarsi della spesa del biglietto d'ingresso al museo. La doppia spesa, secondo Langone, allontanerebbe qualsiasi persona che non sia decisamente un "art-maniaco"!
Non entro nel merito della complessa analisi sulle politiche di privatizzazione dei servizi museali, ma ciò che si è voluto evidenziare, molto semplicemente, è che le caffetterie museali possono avere, come si è visto, un appeal particolare sul pubblico, tale da renderli anche interessanti investimenti per le aziende private. Ma secondo Confcultura, perché ciò avvenga sarebbe necessaria una politica di incentivi che giovi anche al museo, per esempio con sconti in bassa stagione e alle famiglie. Inoltre le imprese avrebbero bisogno di più autonomia gestionale, senza dover rallentare il passo dietro il carro obsoleto del Mibac: "la soluzione potrebbe essere affidare ai privati la gestione diretta dei servizi museali, comprese le decisioni su marketing, orari, personale, prezzi ecc. Naturalmente in accordo e con il controllo delle Soprintendenze in una vera partnership" (Patrizia Asproni, Confcultura). Non ci resta che attendere tempi più propizi, tra un caffé e una brioche... 
 




Patrimonio museale da valorizzare

di Antonello Cherchi

tratto da Il Sole 24Ore


Non sarà il 70% rispetto a quello mondiale – dato mai verificato, ma che continua a essere citato – ma di certo l'Italia è tra i Paesi più ricchi di beni storici e artistici. A questa ricchezza non corrisponde, però, la capacità di metterla a frutto, di – ormai si può dirlo tranquillamente senza incorrere nelle ire dei puristi, perché la questione è stata ampiamente sdoganata – produrre reddito.
Ma è una questione più ampia, decisiva, strategica: proprio com'è auspicata nei cinque punti per una "costituente" che riattivi il circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione, lanciata dalla Domenica del Sole 24 Ore.
Che abbiamo tesori straordinari nei nostri territori – poco valorizzati - è indubbio. Basta consultare lo studio predisposto da Banca Intesa e università Bocconi, presentato lo scorso autunno e da cui si evince che il fatturato commerciale dei luoghi d'arte italiani vale quello di un solo grande museo Usa. Tradotto in cifre: negli ultimi anni i musei statali nostrani hanno incassato dai servizi aggiuntivi (ristorazione, bookshop, merchandising, strutture di accoglienza) 40 milioni, quanto è riuscito a fatturare da solo il MoMa, quasi la metà di quanto guadagnato dall'altro grande museo di New York, il Metropolitan (72 milioni di euro), e un terzo dei soldi prodotti dallo Smithsonian di Washington (132 milioni).
E non è un problema di visitatori, perché i musei d'oltreoceano raggiungono quelle cifre con numeri assai minori, anche perché relativi a una sola struttura. La questione è che i 5 milioni di visitatori del British museum non "valgono" le stesse presenze del Colosseo, perché a Londra a fine anno si ritrovano con in cassa 21 milioni provenienti dai servizi collaterali, mentre a Roma ne contano solo 6.
È ovvio che la spesa pro-capite dei turisti sia più bassa nei musei italiani rispetto a quanto avviene nei grandi luoghi d'arte stranieri. Ma perché? Uno dei motivi è – come spiega sempre il rapporto di Banca Intesa – di natura strutturale: da una ricerca su 128 musei statunitensi si capisce che la superficie media dei punti vendita è di 145 metri quadrati, mentre in Italia non arriva a 45. È, ovviamente, soltanto un aspetto del divario che ci separa dal resto del mondo. Ma esemplificativo, perché vuol dire che dalle altre parti sulle attività di contorno, in grado (insieme alla vendita dei biglietti) di produrre reddito, ci hanno creduto e investito. Senza nessuna pretesa – elemento anche questo ormai consolidato – di voler finanziare per intero le attività culturali, perché nessun museo riuscirà mai a camminare sulle proprie gambe. Occorrerà sempre un'iniezione di risorse esterne, siano esse di provenienza statale o privata.

 Cari amici, in questi anni in cui ho svolto l’incarico di direttore scientifico del Museo Civico “Ferrante Rittatore Vonwiller”, dal 2019 a...