di Antonello Cherchi
tratto da Il Sole 24Ore
Non sarà il 70% rispetto a quello mondiale – dato mai verificato, ma
che continua a essere citato – ma di certo l'Italia è tra i Paesi più
ricchi di beni storici e artistici. A questa ricchezza non corrisponde,
però, la capacità di metterla a frutto, di – ormai si può dirlo
tranquillamente senza incorrere nelle ire dei puristi, perché la
questione è stata ampiamente sdoganata – produrre reddito.
Ma è una questione più ampia, decisiva, strategica: proprio com'è
auspicata nei cinque punti per una "costituente" che riattivi il circolo
virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione, lanciata
dalla Domenica del Sole 24 Ore.
Che abbiamo tesori straordinari nei nostri territori – poco
valorizzati - è indubbio. Basta consultare lo studio predisposto da
Banca Intesa e università Bocconi, presentato lo scorso autunno e da cui
si evince che il fatturato commerciale dei luoghi d'arte italiani vale
quello di un solo grande museo Usa. Tradotto in cifre: negli ultimi anni
i musei statali nostrani hanno incassato dai servizi aggiuntivi
(ristorazione, bookshop, merchandising, strutture di accoglienza) 40
milioni, quanto è riuscito a fatturare da solo il MoMa, quasi la metà di
quanto guadagnato dall'altro grande museo di New York, il Metropolitan
(72 milioni di euro), e un terzo dei soldi prodotti dallo Smithsonian di
Washington (132 milioni).
E non è un problema di visitatori, perché i musei d'oltreoceano
raggiungono quelle cifre con numeri assai minori, anche perché relativi a
una sola struttura. La questione è che i 5 milioni di visitatori del
British museum non "valgono" le stesse presenze del Colosseo, perché a
Londra a fine anno si ritrovano con in cassa 21 milioni provenienti dai
servizi collaterali, mentre a Roma ne contano solo 6.
È ovvio che la spesa pro-capite dei turisti sia più bassa nei musei italiani rispetto a quanto avviene nei grandi luoghi d'arte stranieri. Ma perché? Uno dei motivi è – come spiega sempre il rapporto di Banca Intesa – di natura strutturale: da una ricerca su 128 musei statunitensi si capisce che la superficie media dei punti vendita è di 145 metri quadrati, mentre in Italia non arriva a 45. È, ovviamente, soltanto un aspetto del divario che ci separa dal resto del mondo. Ma esemplificativo, perché vuol dire che dalle altre parti sulle attività di contorno, in grado (insieme alla vendita dei biglietti) di produrre reddito, ci hanno creduto e investito. Senza nessuna pretesa – elemento anche questo ormai consolidato – di voler finanziare per intero le attività culturali, perché nessun museo riuscirà mai a camminare sulle proprie gambe. Occorrerà sempre un'iniezione di risorse esterne, siano esse di provenienza statale o privata.
È ovvio che la spesa pro-capite dei turisti sia più bassa nei musei italiani rispetto a quanto avviene nei grandi luoghi d'arte stranieri. Ma perché? Uno dei motivi è – come spiega sempre il rapporto di Banca Intesa – di natura strutturale: da una ricerca su 128 musei statunitensi si capisce che la superficie media dei punti vendita è di 145 metri quadrati, mentre in Italia non arriva a 45. È, ovviamente, soltanto un aspetto del divario che ci separa dal resto del mondo. Ma esemplificativo, perché vuol dire che dalle altre parti sulle attività di contorno, in grado (insieme alla vendita dei biglietti) di produrre reddito, ci hanno creduto e investito. Senza nessuna pretesa – elemento anche questo ormai consolidato – di voler finanziare per intero le attività culturali, perché nessun museo riuscirà mai a camminare sulle proprie gambe. Occorrerà sempre un'iniezione di risorse esterne, siano esse di provenienza statale o privata.