A mio parere,
una comunità locale rafforza il proprio senso di identità proprio nel momento
in cui si apre agli altri, cioè quando decide di condividere la ricchezza del
proprio patrimonio culturale con il mondo esterno. E’ importante, però, che
questa apertura implichi una profonda conoscenza di sé, non dettata da un
banale orgoglio campanilistico che in un momento successivo potrebbe generare,
al contrario, chiusure e intolleranze. Ciò che conta è una piena consapevolezza
dell’importanza delle proprie radici, delle tradizioni e della cultura del
luogo in cui si vive. Ho usato volontariamente l’espressione “in cui si vive” e
non “in cui si è nati” perché la sensibilità culturale e spirituale cui mi
riferisco non è necessariamente legata alle origini ma, piuttosto, all’indole
delle persone: può accadere, infatti, che chi vanta antiche ascendenze locali
sia poi, all’atto pratico, più indifferente nei riguardi della propria cultura
rispetto a chi ha acquisito più di recente il diritto di sentirsi parte della
comunità.
Il confronto con
gli altri aiuta a capire se stessi e i musei possono avere un ruolo determinante
nel processo formativo e nel mantenimento dell'autocoscienza della collettività.
E’ importante che questo concetto si rafforzi anche grazie a momenti di
pubblico dibattito. Il convegno di Viterbo ha portato in città persone
provenienti da tutta Italia e anche dal resto del mondo - Brasile, Slovenia e,
a distanza, la Spagna – con la presenza di delegazioni i cui rappresentanti,
specialisti di organizzazioni ministeriali e regionali dei rispettivi Paesi di
origine (Instituto Brasileiro de Museus – IBRAM; Museo regionale di Ptuj; rete
locale dei Musei andalusi, REC CIE), hanno potuto osservare e comparare con le
proprie le forme di gestione dei piccoli musei di Viterbo e della provincia.
Ciascuno ha portato la propria esperienza e l’ha condivisa con tutti. Sono
emersi aspetti positivi e problematiche, ma ritengo che uno dei risultati più
apprezzabili di questo avvenimento sia stato il clima di grande collaborazione
e cordialità che si è creato tra i partecipanti.
Durante il
convegno sono state numerose le presenze di uditori da tutta Italia (circa 200 nel
corso delle due giornate) e anche di viterbesi, della città e della provincia.
Tale presenza locale è da evidenziare a prescindere dalla sua entità. Non
ritengo essenziale, infatti, che i residenti presenti al convegno siano stati molti
o pochi; più importante è che dai presenti sia stata accolta o consolidata
l’idea che il patrimonio culturale appartiene all’intera comunità (la cui
salvaguardia è imprescindibile da una forte presa di coscienza civica) e che i
piccoli musei, indipendentemente dal tipo e dalla natura giuridica, sono il
luogo per eccellenza in cui poter dare forma e concretezza al desiderio di compartecipazione
della gente.

Durante il
convegno di Viterbo abbiamo avuto l’opportunità di confrontarci direttamente
con i direttori di alcuni musei locali e abbiamo percepito una grande voglia di
fare da parte di questi professionisti che spesso operano in condizioni di
semi-volontariato o di puro volontariato, con entusiasmo ma anche con un senso
di avvilimento perché senza il sostegno convinto delle istituzioni si finisce
con il dover lavorare al minimo delle potenzialità. Il mondo variegato e
complesso dei musei risente della mancanza di un sistema di standard efficace
che considera più importanti gli aspetti qualitativi piuttosto che quelli
quantitativi. I direttori dei musei con cui ci siamo confrontati nella Tuscia,
hanno lamentato, da parte della Regione (e questo è un problema che non
riguarda solo la Regione Lazio) una costante richiesta di dati sul numero di
ingressi e nessun tipo di processo valutativo della qualità delle iniziative
culturali prodotte nei loro musei.
E’ necessario
invertire la rotta premiando le buone pratiche e incentivando il più possibile l’attività
culturale ed educativa dei musei, cioè quella che si dovrebbe svolgere ogni
giorno all’interno delle strutture museali (e non solo l’impegno limitato a
poche “giornate speciali” cui il Ministero dei Beni culturali e i media danno così
tanto risalto). E’ importante incoraggiare le attività “dal basso”, quelle che
nascono grazie al coinvolgimento diretto della comunità, migliorare il rapporto
con le scuole, che non si limiti a episodiche visite scolastiche programmate
saltuariamente, ma che sia veramente continuativo e interattivo, intra ed extra
muros; altrettanto importante è lavorare per l’inclusione sociale e per aiutare
la comunità a risolvere i problemi. Per
capire quanto sia incisiva l’azione di un museo, la sua realtà deve essere
analizzata in modo completo, tenendo conto anche di tutto ciò che si muove
intorno ad esso: le professionalità che ad esso afferiscono, le varie forme di
volontariato e, in particolare, l’associazionismo, espressione dell’impegno
civico collettivo. Ogni luogo, inoltre, ha caratteristiche sue proprie e anche
questo incide sulla scelta del tipo di pianificazione culturale da parte
dell’ente museale.
Una strategia
gestionale orientata verso la collettività non mette in secondo piano il lavoro
di ricerca e di divulgazione delle conoscenze che ogni museo deve compiere, ma
significa fare in modo che le “collezioni” e lo studio della materia di
riferimento (che si tratti della storia dell’arte o dell’antropologia o delle
scienze naturali, o di qualunque altra disciplina) servano a rendere attivo il
ruolo sociale del museo, “il suo essere
elemento di aggregazione, di continuità e di identità di una comunità (che) si
esplica, dunque, nel conservare per la comunità e nel mostrare alla comunità i
prodotti della propria storia” (Giovanni Pinna).
Caterina Pisu
Coordinatrice nazionale
Associazione Nazionale Piccoli Musei
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