...e qualche considerazione personale a margine del Quinto Convegno Internazionale dei Piccoli Musei
di Caterina Pisu
Recentemente anche in Italia,
grazie al Decreto Cultura, varato dal Consiglio dei ministri il 22 maggio 2014,
si permette di scattare fotografie nei musei, purché non si utilizzi flash o
alcun altro tipo di illuminazione artificiale, né alcun tipo di treppiede o
stativo, e purché gli scatti siano solo per uso personale e assolutamente non a
scopo di lucro. Questa novità è stata accolta con un sospiro di sollievo perché
finalmente i musei non saranno più quei luoghi in cui abbiamo paura che un arcigno
custode ci rimproveri se ci scappa qualche click durante la visita a un museo.
E in effetti chi non si è sentito a disagio in queste situazioni?
In Italia le nuove disposizioni
non sembrano aver creato problemi, o almeno non ne è giunta notizia, ma si
cominciano a vedere gli effetti negativi di questo nuovo orientamento generale
in alcuni grandi musei stranieri. Uno di questi è la National Gallery di Londra
dove sembra che si sia generato il caos a seguito della concessione di
fotografare liberamente al suo interno. Da che cosa dipende la situazione che
si è venuta a creare? Lo spiega Nina Simon in un articolo sul suo blog Museum 2.0, tradotto da Ilaria Baratta per Finestre sull’Arte che mi offre lo spunto per qualche riflessione. Quando anche da noi, in
Italia, si è iniziato a parlare molto di musei partecipativi, mi sono subito
chiesta che cosa significasse esattamente questa parola. Da noi spesso si
associa il concetto di partecipazione collettiva all’utilizzo dei social media
o alla adesione a manifestazioni speciali come le Giornate Europee del
Patrimonio, le Notti dei Musei e le Invasioni Digitali che sicuramente hanno
avuto il merito di creare interesse e di sensibilizzare pubblico e
professionisti museali su un certo tipo di fruizione museale. Mi domando se
possiamo definire una vera partecipazione collettiva questi eventi o se si
tratta di avvenimenti sporadici che non incidono, poi, sulla quotidianità del
museo. Sarebbe interessante sapere se tra una manifestazione di questo tipo e
l’altra, il modo di concepire la programmazione culturale di quei musei sia
cambiato e se sia effettivamente mutato il loro modo di rapportarsi con i
visitatori e più in generale con la comunità. Giustamente la Simon, promotrice
del museo partecipativo, afferma che il caos che si è creato alla National
Gallery dimostra che questa folla è soprattutto ansiosa di essere parte di una
percezione collettiva, di una sorta di "rito religioso" che culmina
nella conquista dell’opera famosa per mezzo dell’obiettivo di una macchina
fotografica. Di chi è la "colpa" di questo fenomeno sociale?
Sicuramente degli stessi musei, i quali hanno “esasperato questo culto della
celebrità dando molta enfasi a mostre di successo e a spettacoli itineranti”;
viene detto alla folla che non deve perdere questa occasione e questa “si
affanna in una continua e frettolosa ricerca, macchina fotografica
rigorosamente in mano”. Le giornate speciali, come le Notti dei musei e le
Invasioni Digitali hanno contribuito anch’esse, involontariamente, a rafforzare
l’idea del patrimonio culturale come parte di un grande flash mob.
E’ opportuno fare tesoro della
lezione che ci viene dagli errori altrui e dai nostri e cominciare finalmente a
non confondere l’apparente partecipazione che deriva non dal risultato di un
processo di cambiamento o come effetto di una nuova pianificazione delle
attività culturali del museo, ma solo dalla voglia di essere parte di un evento
collettivo. Una moda che bisogna seguire per non essere esclusi dal grande
gioco. Si tratta di manifestazioni i cui risultati possono essere misurati,
forse, solo numericamente: successi straordinari che poi, all’atto pratico, producono
risultati insignificanti sul piano culturale e sociale, pur considerando le
eccezioni che meritano di essere riconosciute e lodate. Lo sappiamo bene tutti noi
che ci affanniamo ad organizzare eventi e giornate speciali ma che
siamo anche consapevoli che alcuni musei, una volta spenti i riflettori,
torneranno alla consueta immobilità. La gente è libera di fotografare nei musei
e molti accorrono per prendere parte ai grandi eventi speciali, ma poi continua
a non partecipare realmente alla produzione dei contenuti culturali del museo nell’arco
dei restanti 365 giorni. Questo, invece, è il rinnovamento che dobbiamo auspicare.
In occasione del Quinto Convegno
Internazionale dell'Associazione Nazionale Piccoli Musei che si è svolto a Viterbo
lo scorso 26 e 27 settembre, è stato evidenziato che il rapporto dei musei con
la propria comunità è un lavoro che richiede continuo stimolo e il
coinvolgimento di tutti. Si tratta di un lavoro costante, giornaliero, che può
prevedere certamente anche la preparazione di eventi speciali ma che non fa di
essi il perno intorno ai quali si basa l'attività del museo. Siamo in un
momento di passaggio tra la vecchia visione dei musei e la nuova: i continui
richiami a utilizzare la comunicazione 2.0 e le nuove tecnologie hanno avuto
l'effetto di produrre, talvolta, una sorta di rattoppo con stoffa nuova in un
tessuto vecchio. Il rinnovamento, invece, deve essere totale e non basta certo consentire
le riprese fotografiche o avere una pagina Facebook per essere "musei
moderni". Si tratta di elementi che vanno presi in considerazione,
certamente, nell’ambito di una realtà propositiva e partecipativa del museo, ma
sempre nella giusta proporzione e in relazione con tutti gli altri aspetti che
riguardano la comunicazione museale, la ricerca, la produzione di contenuti e
l'attività di mediazione sociale, di inclusione e di educazione a favore della
collettività.
Articolo correlato: http://museumsnewspaper.blogspot.it/2014/08/se-troppo-successo-famale-al-museo-di.html
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