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MUSEI “A LUCI ROSSE”: È QUESTA LA SOLUZIONE?

Attrarre visitatori ad ogni costo sembra la priorità dei musei italiani in questo momento: l’ultima provocazione di Vittorio Sgarbi e il caso del Museo Madre.

Sempre più spesso, sia sulle riviste specializzate che sui quotidiani, si parla dei musei in relazione alla loro capacità di attrarre visitatori. Ed ecco che spuntano varie “hit parade”, statistiche, balletti di numeri. Il conteggio dei visitatori è diventato una notizia avvincente anche per i media da quando nell’ambito della cultura si è fatta strada la pericolosa teoria che i musei debbano essere assolutamente produttivi in termini monetari, pena la soppressione dei musei stessi. E’ notizia della scorsa estate, per esempio, la vicenda del Museo Madre di Napoli (Museo d’Arte Contemporanea Donna Regina), probabilmente il miglior museo di arte contemporanea del Sud Italia, che rischia la chiusura per debiti. E non è l’unico caso: lo stesso destino potrebbero avere il Museo della Liberazione di Via Tasso a Roma, la Città della Scienza di Napoli, il Museo archeologico Ridola di Matera, il Museo della Scuola di Torino e tanti altri.
Anche il mantenimento di monumenti ed aree archeologiche sembra ormai una missione impossibile: sono a rischio Pompei, la Domus Aurea, il villaggio preistorico di Nola, già in parte sommerso a causa di una falda acquifera affiorante. Questi sono solo i casi più eclatanti, ma da ogni parte sale l’allarme per le condizioni in cui è tenuto l’intero patrimonio culturale italiano, troppo spesso abbandonato a se stesso: forse non a tutti è noto che in provincia di Grosseto le antichissime vie cave stanno franando a causa della crescita delle radici degli alberi o che l’area archeologica di S. Maria del Mare di Stalettì (CZ), considerata da tutti gli studiosi del settore a livello nazionale ed internazionale, tra le più importanti per la storia dell’Alto medioevo italiano e del periodo bizantino in Calabria, è rimasta per anni in condizioni di estremo degrado ed ha subito gravi danni a causa del crollo di una delle torri di fiancheggiamento dell’entrata principale al castrum. Soltanto da circa un anno si sta provvedendo alla ristrutturazione dell’area e sono ricominciati gli scavi archeologici.
I finanziamenti pubblici alla cultura sono stati notevolmente ridotti e ciò sta causando non pochi problemi ovunque. A Roma, l'assessore alle Politiche culturali del Comune, Umberto Croppi, ha recentemente dichiarato che con il taglio del 20% dei fondi destinati all’organizzazione delle mostre, si dovranno chiudere molti musei. Con queste premesse, secondo Croppi, già a fine anno si verificherà una catastrofe, cioè la paralisi totale di uno dei settori produttivi più importanti di Roma e una perdita di indotto per la città di decine di milioni di euro all'anno che causerà gravi danni anche sul fronte dell'occupazione.
Per quale motivo i musei sono considerati ora, dopo decenni di illustre attività, un investimento in perdita, un peso per l’intera comunità che li ospita, un fardello pesante per gli enti locali e per lo Stato? Sicuramente un ruolo fondamentale nella genesi di questo stato di cose è stata l’applicazione delle teorie economiche all’ambito culturale. I manager ambiscono soprattutto al successo dei numeri, ma trasformare un museo in un’azienda porta con sé molti rischi. “Dirigere una fabbrica importante o i musei italiani non è la stessa cosa” ha dichiarato  Salvatore Settis. Ora è chiaro che coloro che pensano di applicare in modo irriflessivo le tecniche del modern management a tutti i settori dell’agire umano, dimostrano di conoscere poco i presupposti su cui si basa la stessa filosofia dell’economia che, per prima, riconosce la difficoltà di applicare senza distinzione un metodo univoco a tutti gli ambiti produttivi, ben sapendo che riforme sbagliate sono sempre suggerite da teorie sbagliate o da teorie giuste applicate erroneamente, soprattutto quando non si dispone di adeguati modelli di previsione, e chiaramente il comportamento umano non è sempre prevedibile. Un metodo che si ritiene essere efficace quando si fabbricano oggetti o si vendono beni di consumo può non esserlo altrettanto quando tocchiamo le sfere dell’emotività. L’economista Alberto Guala, nel suo volume sulla Filosofia dell’Economia (2006), afferma che non siamo in grado di “combinare gli effetti della religiosità con la ricerca del profitto”. Lo stesso si può dire, allora, per la cultura che, al pari della religione, è espressione delle più profonde esigenze dell’animo umano.
Si riversano tutte le colpe dell’attuale crisi sull’incapacità dei gestori di saper attrarre  i visitatori e di rendere i musei “appetibili” ad un più vasto pubblico. Ed ecco che allora si escogitano le trovate più strane e le campagne pubblicitarie più originali: già l’assessore Croppi, lo scorso luglio, vista l’impossibilità di allestire mostre nei musei romani, aveva lanciato la provocazione: "se al Macro non si possono fare mostre possiamo sempre portarci un torneo di bridge, oppure portare le slot machines  a La Pelanda". L’ultima trovata, poi, e la più clamorosa, è stata quella escogitata dal neo Soprintendente per il Polo Museale Veneziano, Vittorio Sgarbi, il quale, in occasione dell’inaugurazione della mostra del Giorgione allestita a Palazzo Grimani lo scorso 29 agosto, ha spiazzato tutti proponendo l’allestimento di tableaux vivants  con l‘apporto di una nota porno-star. La provocazione di Sgarbi è riuscita, se non altro, a farci capire ancora meglio quanto ci si impegni poco nella ricerca delle vere cause della crisi dei musei, soffermandoci soltanto sui numeri, cioè sulla quantità di visitatori che li frequentano. Non si può contestare che in questi anni ci siano stati casi di cattiva amministrazione e che, pertanto, sia di prioritaria importanza che nell’ambito della gestione diretta del patrimonio culturale si adottino modelli organizzativi flessibili che diano il più ampio e doveroso spazio alla meritocrazia. L’incarico di direttore del museo, per esempio, non dovrebbe essere ricoperto a tempo indeterminato ma dovrebbe essere finalizzato allo svolgimento di progetti, che potranno essere rinnovabili ma anche revocabili. Ciò, in parte, già avviene nell’ambito degli enti locali, nei casi in cui sia necessario affidare a degli specialisti determinate funzioni, come l’allestimento museale, la revisione dei materiali, ecc.; più raramente, invece, si ricorre al contratto a tempo determinato anche per incarichi di direzione globale del museo. La recente riforma della pubblica amministrazione del Ministro Renato Brunetta prevede che, in base all’art. 110 del d. Lgs. 267/2000, lacopertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato di diritto pubblico o, eccezionalmente e con deliberazione motivata, di diritto privato, fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire”. Sicuramente, se il dirigente verrà messo in condizione di dover agire con la massima efficienza entro un arco temporale circoscritto (avendo gli strumenti necessari per poterlo fare) e se dovrà rendere conto del lavoro svolto, portando risultati concreti, il sistema museale non potrà che guadagnarne in termini di funzionalità e di ottimizzazione delle risorse disponibili. Ogni tipo di soluzione, in ogni caso, non può prescindere dalla consapevolezza che il patrimonio culturale italiano, unico al mondo per importanza e vastità, è un bene comune e ha bisogno di risorse che devono essere garantite dallo Stato senza alcun pretesto per evitarlo. Incolpare unicamente la cattiva gestione dei musei, incapaci di sostentarsi autonomamente, sembra piuttosto uno stratagemma per dirottare risorse da investire poi in settori con una migliore redditività. E’ assolutamente necessaria, invece, una maggiore consapevolezza da parte delle istituzioni e dei cittadini riguardo l’urgenza di salvaguardare ogni più piccola testimonianza dell’arte e della storia del nostro Paese, senza cercare profitti ad ogni costo, ma unicamente perché essi sono la nostra ricchezza e la nostra identità, e dovrebbe essere questo l’unico e più ragionevole motivo di investimento concreto. E’ necessario che la scuola e le istituzioni museali collaborino affinché questi concetti entrino a far parte del bagaglio di conoscenze dei più giovani, ed è altrettanto importante che i musei si aprano alle famiglie, che svolgano un ruolo di mediazione culturale e che siano perfettamente assimilati nel tessuto sociale, soprattutto quando appartengono alle piccole comunità.
Diverso è il caso dei grandi musei che non necessariamente devono dipendere totalmente dal comune che li ospita o dalle sovvenzioni dello Stato, potendo contare su un numero maggiore di visitatori, anche se è d’obbligo precisare che secondo una stima della UIL, ben il 50% di coloro che visitano i musei italiani hanno diritto ad entrare gratuitamente. E’ una percentuale altissima, composta per lo più di over 65, minori, militari, giornalisti, insegnanti, studenti universitari (ma inspiegabilmente non di laureati in archeologia e in storia dell’arte!): complessivamente sono circa 18 milioni.
Gianfranco Cerasoli, segretario generale UIL per i beni culturali, ha sottolineato che “per tenere aperti i musei 11 ore al giorno senza pause, come ora, occorrono almeno 12 mila persone e oggi ne abbiamo in servizio meno di 8 mila. Al Prado di Madrid e al Louvre di Parigi non ci sono gratuità, ma solo riduzioni. E poi, di fatto, in molti dei nostri musei la prenotazione è obbligatoria per tutti. Succede a Pompei, alla Galleria Borghese e altrove. Uno o due euro versati, anche dagli esenti, per lo più a società concessionarie private, come Pierreci, Gebart, Civita. Nulla di questi denari però arriva al Mibac. E se non si interviene in qualche modo, il rischio è la paralisi per tutti i musei”. In pratica, chi ha diritto ad entrare gratuitamente in molti casi deve comunque versare almeno un euro per la prenotazione obbligatoria, soltanto che questi incassi non entrano nelle casse dei musei ma vengono incamerati dalle società che si occupano di registrare le prenotazioni. La proposta della Uil, pertanto, sarebbe quella di abolire gli ingressi totalmente gratuiti e di far versare un simbolico euro anche agli esenti: con i proventi sarebbe così possibile finanziare progetti per rilanciare i musei stessi o per assumere nuovo personale. Un’idea interessante che bisognerebbe prendere in considerazione e forse questo potrebbe essere davvero il primo passo per un serio piano di risanamento economico del settore museale italiano, evitando di ricorrere ad altri curiosi escamotages che giochino a trasformare i musei in piccole “Las Vegas” o in théâtre des variétés.

Caterina Pisu (ArcheoNews, ottobre 2010)

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