Divulgare con sapienza

Saper comunicare è un'arte, ci spiega la blogger Francesca Pontani 

A proposito della capacità di comunicare, che si tratti di professionisti museali o di specialisti che cercano di fare divulgazione, purtroppo c’è ancora poca consapevolezza di quanto sia importante conoscere i modi e gli strumenti più indicati per rapportarsi con il pubblico non specialista.

L’archeologa e blogger Francesca Pontani ha scritto un bellissimo articolo sul suo blog ArcheoTime, News di Archeologiaa seguito del Festival degli Etruschi. I pirati della bellezza*. Mi è gradito riportare qui alcuni stralci, invitandovi a leggere integralmente l’articolo.

Scrive Francesca:

«L’ho trovato molto evocativo (il titolo della manifestazione) e già da solo ti faceva viaggiare con la mente e l’immaginazione. Ma accanto a tutto questo enorme sforzo di creare una manifestazione apripista e volano anche economico per tutta la provincia, ci sono state una serie di occasioni perse da parte degli attori chiamati in campo in questa “partita”»

«…ma negli eventi pubblici mostriamo il meglio di noi e soprattutto proviamo a COMUNICARE, a TRASMETTERE IL VALORE di quello di cui stiamo parlando: museo/area archeologica/scavo archeologico, ecc. ecc.».

«Basterebbe essere più sicuri di se stessi e COMUNICATIVI per acquistare automaticamente autorevolezza. Anche perché si può essere professionali, precisi e “scientifici” ma anche divulgativi allo stesso tempo».

«Le slide: anche questo un capitolo a parte… pure queste (nella maggior parte) accademiche e “noiose” …tranne un caso in cui per mostrare i luoghi di cui si parlava ci si è rivolti a chi con la fotografia cerca di comunicare emozioni e viaggi interiori… (e ci riesce sempre davvero…) ecco: perché in occasione di questa manifestazione i vari relatori non hanno cercato di trovare immagini più accattivanti??…boh (…mistero…)».

«Si perché tu CI DOVEVI INVITARE A VENIRE a trovarti lì dove tu stai, ci dovevi coinvolgere, CI DOVEVI FAR VENIR VOGLIA DI VENIRE DI CORSA (dico: DI C-O-R-S-A) a vedere il tuo museo/area archeologica/reperto archeologico di cui stavi parlando … e invece no, solo (o quasi) analisi dettagliate con linguaggio tecnico».

«ESSERE COMUNICATIVI È UN’ARTE E UN TALENTO, su questo mi rendo conto: è un lavoro vero e proprio che a volte dobbiamo fare su noi stessi… però uno sforzo a calibrare e “adattare” le proprie (solite) didascaliche relazioni andava fatto, questa volta ne valeva la pena davvero…».

Riguardo, poi, i rappresentanti delle pubbliche amministrazioni che hanno patrocinato l’evento, scrive Francesca:

«Dico solo una frase: ma dove stavano?? Non hanno alcun interesse a dare valore a chi (a titolo gratuito) va lì a fare “pubblicità” alle bellezze storiche/archeologiche/naturalistiche del loro territorio comunale? Io non li ho visti per nulla: non hanno questi comuni degli assessori alla cultura? Qualcuno che si occupa del museo che è presente nel loro territorio?»

Non posso non essere d’accordo con Francesca Pontani. Troppo spesso le Istituzioni locali si preoccupano più del fatto che i propri musei sono un fardello da sostenere piuttosto che pensare ad essi come ad un una opportunità da sfruttare, iniziando proprio, tra le varie priorità, da una valida strategia comunicativa che faccia dei musei il miglior biglietto da visita soprattutto dei piccoli centri. Non ci si può meravigliare, poi, che quando i musei sono lasciati abbandonati a se stessi, dopo un iniziale entusiasmo ed investimento economico (magari in concomitanza con qualche campagna elettorale), subiscano l’inevitabile destino di scomparire.

La comunicazione, dunque, è un gioco di squadra, un’arte – come ha ben scritto Francesca – ed è fatta di strategie sapienti che vanno oltre le “adunate” sul web, e che prendono in considerazione tutti gli strumenti a nostra disposizione, da quelli moderni, digitali e non, a quelli tradizionali, combinandoli insieme, sotto forma di racconto, di dialogo, di compartecipazione, senza trascurare alcuno e cercando di raggiungere tutti, dal bambino delle elementari all’ottantenne che non possiede né tablet né pc. 


* Manifestazione che si è svolta nei giorni 11-13 settembre a Viterbo, da un progetto degli ideatori di Caffeina Cultura. Qui il programma.

Ostriche e vino. In cucina con gli antichi Romani


La mostra sarà inaugurata sabato 19 Settembre presso presso l'Area archeologica di Palazzo Lodron, piazza Lodron 31, Trento.

La mostra sarà visitabile dal 22 settembre all'8 gennaio 2016, da martedì a venerdì con orario 10-12.30/14.30-17 (chiuso nei giorni festivi).
L'ingresso è libero. 




Arrivederci a Massa Marittima!

Il VI Convegno Nazionale dei Piccoli Musei sta per iniziare. Vi aspetto a Massa Marittima il 2-3 ottobre!


Tutte le informazioni a questo link. E se non potrete essere presenti e volete seguirci su Twitter, tenete d'occhio l'hashtag #convegnoapm!

Personal blogs sui musei: quanti se ne possono contare in Italia?

Ho iniziato una ricerca sui blog che abbiano come tema principale i musei. Non mi riferisco, però, né ai blog istituzionali dei musei né ai blog di associazioni ed organizzazioni, ma ai blog personali.

Da una prima indagine sul web, mi risulta che sia la prima categoria che la seconda siano decisamente più “affollate” rispetto alla terza, sebbene non si possa dire che sia un genere di blog molto diffuso se confrontato con altre tematiche culturali. Alcuni musei faticano ancora a gestire blog e account social, mentre le associazioni e le organizzazioni talvolta preferiscono optare per un sito web che richiede aggiornamenti meno frequenti rispetto ai blog e agli account social.

Ho stilato innanzitutto un elenco dei blog appartenenti ad associazioni e organizzazioni che sono riuscita a reperire sul web con una rapida ricerca. Si tratta, pertanto, dei blog più visibili sui motori di ricerca. Vi sono compresi anche i blog delle associazioni di amici dei musei che spesso svolgono un grande lavoro di promozione dei musei cui sono dedicati e sono più efficaci dei siti istituzionali in termini di diffusione di informazioni e notizie.
Nell’elenco è inserito anche il blog piccolimusei.blogspot.it che, in realtà, è un ibrido perché è a metà strada tra un blog di organizzazione (nel caso specifico dell’Associazione Nazionale Piccoli Musei) e un blog personale (essendo curato esclusivamente dal Prof. Giancarlo Dall’Ara).

Blog di organizzazioni



















Di seguito, i blog appartenenti alla seconda categoria, ovvero i blog istituzionali dei musei. Come è preavvisato, si tratta di una ricerca appena iniziata, per cui l’elenco è parziale. 

Questi sono i blog che compaiono con più facilità sui motori di ricerca:

Blog di istituzioni museali

































Infine, la terza categoria, quella dei blog personali, su cui intendo svolgere la mia ricerca. Come si può osservare, sono riuscita a reperire un numero esiguo di link e tra questi ho forse forzatamente inserito anche alcuni blog che non sono incentrati esclusivamente sui musei, sebbene trattino saltuariamente questo argomento, come, per esempio, il blog di Giuliano Volpe e “Michelangelo Buonarroti è tornato”.

Blog personali











…e naturalmente…il mio blog!



Se qualcuno dei miei lettori volesse cortesemente aiutarmi in questa ricerca, gliene sarò molto grata. 

Inviatemi i link dei blog personali che conoscete, permettendomi di aggiornare l’elenco e di poter, al termine, scrivere un’analisi sulla presenza di personal blog incentrati innanzitutto sui musei e poi su museologia, museografia, mostre e temi affini. 

Grazie di cuore per la collaborazione!

Tutti mecenati per amore della cultura



Volete che il vostro nome compaia nel catalogo della mostra “Il giovane Salvator Rosa. Gli inizi di un grande maestro del ‘600 europeo”? 
Potete avere questa soddisfazione con una erogazione di appena 10 euro ma, soprattutto, avrete il grande merito di aver dato una mano al settore della cultura e non è poco in tempi così difficili.

La possibilità di trasformarci tutti in piccoli mecenati è data dal progetto “Innamorati della cultura”, una piattaforma di crowdfunding ideata e prodotta da Emanuela Negro-Ferrero e Lorenzo Pennacchioni . Si tratta di una Start Up incubata presso l’acceleratore “Rinascimenti Sociali” di Torino, hub dedicato alle imprese sociali.

La mostra di cui sopra sarà realizzata presso il Museo Correale di Terranova, Sorrento per i 400 anni della nascita del grande artista del ‘600. Per realizzarla sono necessari 15.ooo Euro. Si vorrebbe aprirla dal 7 novembre 2015 al 7 gennaio 2016 e conterrà una quindicina di opere ad olio provenienti da collezioni pubbliche e private fra le quali alcune che non sono mai state mostrate al pubblico. Sarà creata anche una sezione di disegni dell’artista.

La mostra sarà curata da Viviana Farina con la consulenza scientifica di Stefan Albl (Biblioteca Hertziana, Roma), Catherine Loisel (Musée du Louvre, Parigi), Caterina Volpi (Università della Sapienza, Roma) e Nicholas Turner (già British Museum, Londra e Getty Museum, Los Angeles).

Grazie alle donazioni sarà possibile:

- trasportare le opere al Museo;
- stipulare la polizza assicurativa;
- allestire una piccola sezione temporanea al secondo piano del Museo;
- pubblicare il catalogo della mostra;
- promuovere la mostra e dare visibilità al Museo Correale.


Si può partire con un cifra minima di 10 Euro fino al contributo di 1.000 e, in base all’importo, si avrà diritto a differenti omaggi. Per esempio, i sostenitori che verseranno 1.000 Euro, il massimo previsto, avranno in omaggio un ritratto a mezzo busto 50x70 cm ad olio in stile Seicento realizzato dall'artista Goshaa; inoltre saranno loro offerti: una serata cocktail, una visita guidata con la curatrice, il catalogo della mostra, il poster del quadro immagine della mostra, la pubblicazione del proprio nome nel catalogo e l’ingresso al Museo e alla mostra.

Per ulteriori informazioni e per effettuare una donazione, visitare la pagina dedicata. 


Musei senza identità

Riporto qui l’intervista a Jean Clair: "I manager sono la rovina dei musei", pubblicata su Repubblica lo scorso 21 agosto, il quale si esprime a proposito della Riforma Franceschini e della cultura del marketing che si sta affermando sempre di più nel settore dei musei.  “Ho paura che la riforma” – afferma lo storico e critico d’arte francese – “non rispetti l'identità di un museo, la specificità della cultura locale che vi è custodita e che va tutelata. (…) Un direttore di un museo non deve fare grandi mostre, ma far conoscere il patrimonio spirituale di una nazione”.


Jean Clair è lo pseudonimo dello storico e critico d'arte francese Gérard Régnier (n. Parigi 1940). Laureatosi alla Sorbona di Parigi, ha studiato alla Harvard University e presso la National Gallery di Ottawa. A Parigi è stato conservatore al Musée national d'art moderne (dal 1982) e redattore capo dei Cahiers del museo, da lui fondati nel 1978; dal 1989 direttore del Musée Picasso. Direttore del settore arti visive della Biennale di Venezia dal 1994, ne ha diretto la 46ª edizione (1995); dal 2008 è membro dell'Académie française. Ha redatto monografie di artisti contemporanei (Bonnard, 1975; Marcel Duchamp ou le grand fictif, 1975, trad. it. 1979; Delvaux, 1975) e ha curato numerose mostre, tra le quali Last paradise: symbolist Europe (1995) e Cosmos (1999-2000). Ha pubblicato vivaci scritti polemici e critici sull'arte contemporanea, sulla teoria dell'arte e sul ruolo delle istituzioni: Considérations sur l'état des beaux-arts (1983; trad. it. Critica della modernità, 1984); Le nu et la norme: Klimt et Picasso en 1907 (1988); Méduse: contribution à une anthropologie des arts du visuel (1989; trad. it. 1992); La responsabilité de l'artiste: les avant-gardes entre Terreur et Raison (1997; trad. it. 1998); La barbarie ordinaire (2001); si segnalano, inoltre, le raccolte di saggi Éloge du visible: fondements imaginaires de la science/">science (1996); Malinconia. Motifs saturniens dans l'art de l'entre-deux guerres (1996); Le voyageur égoïste (1999); De immundo (2004); Lait noir de l'aube (2007); Malaise dans les musée (2007); Journal atrabilaire (2008); Zoran Music: apprendre à regarder la mort comme un soleil (con C. Juliet e I. Barbarigo, 2009); L'hiver de la culture (2011); Dialogue avec les morts (2011).

(Biografia tratta da Enciclopedia Treccani)

Immagine tratta da http://www.lefigaro.fr/


Di seguito, l'intervista realizzata da Raffaella De Santis: 

In questi giorni Jean Clair è a Venezia, in giro con la moglie per calli e mostre. Vent'anni fa curò una Biennale dedicata al volto e al corpo umano, ma oggi è deluso. Non gli piacciono le esposizioni affollate di turisti e quando gli si chiede di commentare la nuova riforma dei musei, all'inizio sembra possibilista, ma poi di fronte all'idea di una nuova figura di direttore-manager si accalora:

"Un direttore di un museo non deve fare grandi mostre, ma far conoscere il patrimonio spirituale di una nazione. È la fine. L'arte ha perso ogni significato".

L'argomento lo appassiona. Risale ormai a qualche anno fa un suo saggio intitolato "La crisi dei musei", mentre nel più recente "L'inverno della cultura" ha disseminato pagine durissime contro i musei-luna park ridotti a magazzini di opere preziose. Per il grande critico e storico dell'arte, il sistema museale è ormai asservito alla logica mercantile, come qualsiasi altro prodotto. Nel suo ultimo libro, intitolato Hybris. La fabbrica del mostro nell'arte moderna (Johan & Levy), studia la morfologia dell'arte moderna, le sue deformazioni morbose, il suo progressivo allontanamento dalla bellezza. Il fatto che Jean Clair sia stato anche direttore del Centre Pompidou e del museo Picasso, lo spinge a guardare con curiosità a quanto sta accadendo nel nostro paese.

Che cosa non la convince nella riforma italiana dei musei?
"Prima di tutto ho paura che non si rispetti l'identità di un museo, la specificità della cultura locale che vi è custodita e che va tutelata".

Un direttore straniero potrebbe essere inadatto a questo compito?
"Un direttore di un museo deve per prima cosa essere un critico e uno storico dell'arte. Da questo punto di vista, scorrendo la lista dei nomi selezionati, mi pare che ci siano professionalità di rilievo. Conosco Sylvain Bellenger, che a Capodimonte farà un ottimo lavoro. Ma il problema è un altro. È un problema spirituale e culturale più ampio. Si stanno trasformando i musei in fondi bancari, in macchine finanziarie, hedge fund specializzati in speculazioni. Non abbiamo più idea di che cosa sia l'arte, di quale sia il suo compito".

Non pensa sia anacronistico tentare di arginare l'internazionalizzazione della cultura?
"Sono curioso di vedere cosa accadrà in Italia. Il fatto che molti dei prescelti siano stranieri è in sé un fatto positivo, se non fosse che dovranno operare dentro musei ridotti a macchine per incassare soldi. Io stesso prima di essere nominato al Beaubourg e al museo Picasso ho studiato in America. Ricordo il sorriso del direttore del Louvre quando decisi di partire. Mi disse: "Che vai a fare in America?" Non lo ascoltai. Sono rimasto ad Harvard tre anni. Era il 1966. Da lì sono poi andato in Canada, al museo nazionale".

Nei suoi scritti ha però attaccato più volte il sistema museale contemporaneo. Mercato e cultura sono forze antagoniste?
"Molti musei sono in mano a mercanti senza cultura. Il compito di un museo dovrebbe invece essere educare e dilettare. Il direttore dovrebbe preoccuparsi di tutelare il patrimonio d'arte che gli è affidato senza venderlo. Prenda l'idea di portare il Louvre ad Abu Dhabi. Una follia".

Crede si arriverà a questo anche in Italia?
"Ho l'impressione che tra un po' di tempo ci sarà l'esigenza di mettere sul mercato qualche opera per rimpinguare le casse della macchina-museo. Nel 2006, Françoise Cachin, che è stata la prima donna a essere eletta direttrice dei musei di Francia, scrisse un articolo contro l'idea di vendere i musei e venne allontanata dal suo incarico. Invece aveva ragione. Le opere d'arte sono ormai ridotte a merce senza qualità, senza identità".

Immagino che l'idea di affittare un museo per eventi privati non le piaccia affatto...
"L'idea del neo direttore tedesco degli Uffizi, Eike Schmidt, di dare in affitto delle stanze della galleria segna l'inizio della fine. O piuttosto la continuazione di una decadenza della quale lui stesso sarà il responsabile finale".

Lei ha guidato grandi musei. Ora ai direttori si richiede di essere anche dei manager. Quali possono essere dal suo punto di vista le conseguenze di un tale cambiamento?
"Guardi cosa succede al Centre Pompidou, dove si è chiusa da poco una retrospettiva dedicata a Jeff Koons. La mostra è stata appaltata a privati. Duemila metri quadrati di esposizione per mettere in scena una buffoneria. Una buffoneria che prende però autorevolezza dalle collezioni del Beaubourg, che sono il vero patrimonio del museo, come l'oro conservato nei caveau delle banche. Sono Cézanne e Picasso a dare valore a Koons. I musei sono utilizzati come riserve auree per dar credito a operazioni di manipolazione finanziaria, forniscono quel deposito che dà pregio alle proposte del mercato privato. Quella di Koons è chiaramente un'operazione fraudolenta, un falso, una bolla speculativa. È quanto accade quando si preferiscono direttori manager. Come nel caso di Alain Seban, alla guida del Pompidou".

Ma per far funzionare il sistema museale servono soldi, dove trovarli?
"Il costo per mantenere un museo è ridicolo rispetto a quello della sanità o dei trasporti".

Al centro della riforma c'è l'idea di "valorizzazione"? Le piace?
"È un termine delle banche. Si valorizzano i soldi non le opere d'arte. Leggo che nei musei si apriranno ristoranti e bookshop. C'è bisogno di un manager per aprire un ristorante?"

Ha visitato la Biennale Arte?
"Tantissimi padiglioni da tutto il mondo, tutti uguali. Sono a Venezia da qualche settimana e quello che vedo mi spaventa. I musei sono molto frequentati, come le spiagge, ma non sono più frequentabili".

Come ridare significato all'arte?
"L'opera d'arte non significa più nulla, è autoreferenziale, un selfie perpetuo. I jihadisti dell'Is hanno decapitato l'archeologo Khaled Asaad. Da una parte abbiamo paesi che credono nell'arte al punto da uccidere e dall'altra pure operazioni di mercato".

Meglio tornare al passato?

"Non è possibile. Viviamo nel tempo dell'arte cloaca. Il museo è il punto finale di un'evoluzione sociale e culturale. È una catastrofe senza precedenti. Il crollo della nostra civiltà".

Lo sharing fotografico è vera comunicazione?

Un’analisi del fenomeno delle Invasioni Digitali in vista del convegno “Digital Think-In. La voce digitale dei musei”


Il prossimo 4 novembre si svolgerà, a Roma, il convegno “DigitalThink-In. La voce digitale dei musei”, organizzato dal MAXXI, che si annuncia come “il primo evento di cultura digitale rivolta ai musei in Italia”.

Tra i partecipanti al convegno, per il quale è aperta anche una #DITcall per la presentazione di casi studio inerenti il tema in oggetto, vi saranno James Davis, Program Manager di Google Art Project (Londra), Antonella Di Lazzaro, Direttore Media Twitter Italia (Milano), Conxa Rodà, Head of Strategy and Communication – Museu Nacional d’Art de Catalunya (Barcellona), Gruppo MUD Museo Digitale, MiBACT (Roma) e Prisca Cupellini, Comunicazione Online e Progetti Digitali, MAXXI (Roma), Francesco Russo, Consulente Web e blogger, Marianna Marcucci, Cofounder di Invasioni Digitali e Alessandro Bollo, Cofounder e responsabile ricerca della Fondazione Fitzcarraldo.

Il movimento Invasioni Digitali, dunque, è ancora una volta presente in un convegno in cui si discute di comunicazione digitale, ma il fenomeno Invasioni non è stato ancora oggetto di analisi approfondite da parte degli esperti. Siamo realmente di fronte ad un modello di comunicazione digitale? Tenterò di argomentare la mia personale opinione al riguardo.


Media tradizionali e media digitali

Rispetto alla comunicazione mediatica tradizionale, nella forma digitale si verifica il passaggio dalle relazioni lineari a quelle reticolari; il messaggio può essere veicolato attraverso vari ambienti digitali (sito Web, comunità virtuali), ma l’aspetto più importante della comunicazione digitale - e che la differenzia da quella tradizionale - è soprattutto la presenza di un dialogo interattivo tra gli utenti, basato sulla condivisione e la partecipazione. Senza che si verifichi questa condizione non è possibile ravvisare una effettiva diversità tra le due forme di comunicazione.

Se si analizza più nel dettaglio l’ultima Invasione Digitale, dal punto di vista della comunicazione social si rilevano poche interazioni effettivamente incentrate sui contenuti e solo un cospicuo numero di immagini (soprattutto le locandine che pubblicizzano gli eventi e le foto di “Invasione compiuta”): quindi le Invasioni sono sì avvenute ma non sono state sufficientemente raccontate durante il loro svolgimento. Durante alcune manifestazioni speciali non dichiaratamente “digitali” (pur avendo ugualmente una notevole propagazione sui social e su altri media) come le Giornate Europee del Patrimonio o altre iniziative similari, i musei hanno sempre dato vita ad iniziative interessanti con grande successo di pubblico; da cosa si dovrebbero distinguere, dunque, le Invasioni Digitali da queste manifestazioni speciali?

La coerenza vorrebbe che fosse una maggiore partecipazione “social” all’evento: ciò, infatti, è l’aspetto determinante in una manifestazione che si auto-definisce “digitale”. In termini molto semplici, ciascuno dei partecipanti dovrebbe essere la vista e l’udito di chi non è presente all’evento ma che verrà coinvolto come se lo fosse; dovrebbe mettere in rete le proprie sensazioni, esprimendo le emozioni e i pensieri che emergeranno dalla sua esperienza culturale e condividerla con altre persone, intessendo un dialogo con esse. Se la comunicazione consiste, invece, nella semplice informazione del luogo, data e ora che riguardano l’evento, in qualche breve nota descrittiva, in un grande numero di immagini poco commentate e, infine, nella notifica di “Invasione compiuta”, non si potrà parlare di vera comunicazione digitale. Nella maggioranza dei casi, infatti, come si è rilevato, l’interazione non è stata significativa soprattutto in termini di contenuti e non sono stati incoraggiati né live storytelling (pochi i casi) né altre forme di comunicazione partecipata. “Raccontare” gli eventi, dunque, è ciò che dovrebbe fare la differenza[1]. Scrive Tomaso Montanari che “Il patrimonio è un grande repertorio, proprio come il teatro o la musica: se nessuno lo esegue – e cioè se nessuno lo narra, facendolo risorgere – rimane inerte, morto, perduto”.

Inoltre, la stessa sovrapproduzione di immagini produce effetti negativi in quanto rende il pubblico meno sensibile e attento ai dettagli.

Insieme alla perdita di attenzione per le foto e per i soggetti delle foto, si rischia di banalizzare e di disperdere nell’eccesso di immagini anche gli “sfondi” di questi selfie che sono i musei e tutti gli altri luoghi di interesse storico e monumentale. Le foto, dunque, e tanto più i selfie, non possono essere considerati dei veri e propri contenuti se non sono adeguatamente didascalizzati e commentati a meno che non possiedano l’eloquenza visiva delle opere di grandi fotografi come Robert Capa. Ma per la maggioranza di noi non è così. Giustamente uno dei più noti fotografi italiani, Ferdinando Scianna, ci ricorda che “nessuno segue con interesse chi sta continuamente in posa”.

Un contesto che non produce contenuti, non perché le iniziative che pubblicizzano non siano valide, ma perché è mancato l’impegno nel trovare adeguate forme di trasferimento delle informazioni che vadano oltre lo sharing fotografico, non porterà alcun tipo di beneficio nemmeno al soggetto culturale che avrebbe dovuto promuovere.

Scrive, a questo proposito, Valentina Vacca:

Per #InvasioniDigitali il pubblico non è più tale, ma è «partecipativo all’offerta culturale». Nel loro manifesto essi proclamano di credere: «in un nuovo rapporto fra il museo e il visitatore basato sulla partecipazione di quest’ultimo alla produzione, creazione e valorizzazione della cultura attraverso la condivisione di dati e immagini. Crediamo nella semplificazione delle norme per l'accesso e riuso dei dati dei Beni Culturali per incentivarne la digitalizzazione. Crediamo in nuove forme di conversazione e divulgazione del patrimonio artistico non più autoritarie, conservatrici, ma aperte, libere, accoglienti ed innovative». Per tradurre tali parole, è sufficiente compiere un’esplorazione nel sito dedicato alle #InvasioniDigitali: al suo interno si trovano una serie di selfie scattati entro musei e luoghi della cultura che hanno come soggetti i visitatori. E’ come se “invadere” –come loro stessi definiscono la visita da parte del pubblico i musei, i monumenti e in generale i luoghi della cultura e poi caricare una foto su internet, equivalga in automatico a trasmettere la conoscenza. Come se digitalizzare la cultura coincida con il mero, semplicistico quanto banale processo di sharing delle immagini delle opere d’arte, delle performance, dei beni immobili. Che sia proprio come disse Baudrillard (1995), ossia che «la maggioranza silente ricerca l’immagine e non il significato».


Il fatto che a prevalere siano più l’apparenza, più il volume della partecipazione e meno il contenuto, mi è stato in qualche modo dimostrato, in occasione della recente Social Media Week, dalla community manager di un museo, la quale ad una mia osservazione riguardo il fatto che le Invasioni Digitali non sono uno strumento di diffusione culturale vero e proprio, replicò che “a loro bastava veder entrare la gente nel museo”: ciò equivale a dichiarare che l’unico scopo che si vuole perseguire è quello di “conteggiare” il numero di visitatori. Sono convinta che questo pensiero non sia quello che contraddistingue tutte le istituzioni museali che hanno aderito in questi anni ad Invasioni Digitali, ma in ogni caso è indicativo che questa iniziativa abbia potuto generare in alcune persone un tale tipo di ragionamento, supportato dall'errato concetto, troppo spesso avallato dai media, che sia più rilevante la quantificazione degli ingressi piuttosto che la misurazione dell’efficacia delle proposte culturali offerte dai musei. E’ fondamentale, allora, che i musei assumano il ruolo di mediatori tra i fabbricanti della comunicazione digitale e la società, ma per farlo non devono restare essi stessi imprigionati dalle logiche del “Viral Style” e da ogni forma di estremismo della comunicazione digitale; devono aprirsi, invece, a più ragionate e originali forme di condivisione di contenuti e di partecipazione culturale, anche attraverso il Web 2.0.


La strategia comunicativa delle Invasioni Digitali

Inizialmente le Invasioni Digitali avevano focalizzato molta della loro attenzione intorno al problema del divieto di fotografare nei musei, poi superato dal Decreto Legge 31 maggio 2014, n. 83. Fu creato un manifesto che mise insieme diversi concetti relativi al rapporto tra il museo e il visitatore, all’utilizzo dei social media per la comunicazione culturale, alla libera circolazione delle idee ed altri ancora. Ad una attenta lettura di tale manifesto si ha l’impressione che siano state toccate troppo tematiche, talvolta in modo ripetitivo e anche slegate tra loro, perfino contradditorie: per esempio si richiede alle istituzioni di essere “piattaforme aperte di divulgazione, scambio e produzione di valore, in grado di consentire una comunicazione attiva con il proprio pubblico”, il che implica anche avere un ruolo di coordinamento e di controllo dei contenuti, e nello stesso tempo si reclamano “forme di conversazione e divulgazione del patrimonio artistico non più autoritarie”, riducendo, quindi, il ruolo guida dell’istituzione museale, determinato dalla sua autorevolezza scientifica e da cui non si può prescindere. Non è riscontrabile alcuna elaborazione personale dei concetti esposti nel manifesto, i quali vengono solo elencati ma non sviluppati e commentati.

Ancora nel manifesto di Invasioni Digitali non si chiarisce in che modo “Internet sia in grado di innescare nuove modalità di gestione, conservazione, tutela, comunicazione e valorizzazione delle nostre risorse”, come se Internet fosse di per sé capace di produrre questi cambiamenti e più di quanto non abbia fatto sessant’anni fa la televisione, per esempio, unificando culturalmente l’Italia e combattendo l’analfabetismo. L’enfatizzazione della comunicazione Web 2.0 non è utile a dimostrarne l’efficacia in ambito culturale. In realtà, i media - che siano di vecchia o di nuova generazione - sono validi solo in base all’uso che se ne fa, come giustamente rilevano Pier Cesare Rivoltella e Chiara Marazzi secondo i quali “non esistono media di serie A e di serie B[2]” in quanto la comunicazione dell’età digitale li include necessariamente tutti. Sono in atto delle trasformazioni cui ci stiamo gradualmente abituando e che vede i vecchi e nuovi media integrarsi al punto che si può parlare “di mediamorfosi, di remediation, di era della complementarietà[3].  E’ vero, inoltre, che l’accesso ad Internet ci regala più semplici e immediati strumenti di espressione individuale, ma forse non si sottolinea abbastanza che ci sono ancora limitazioni al suo uso, identificabili in ragioni di tipo economico, culturale, anagrafico o sociale, come pure ci sono posizioni ideologiche che determinano il rifiuto dell’uso dei social network. Chi si occupa di strategie di comunicazione, pertanto, deve considerare il contesto digitale con adeguato equilibrio, senza esaltarlo ma senza trascurarlo, perché “non essere connessi” non significa “non esistere” e dunque bisogna porsi l’obiettivo di raggiungere anche chi si trova al di fuori del mondo digitale.

Quando, invece, nel manifesto di Invasioni Digitali si legge: “Crediamo che internet ed i social media siano una grande opportunità per la comunicazione culturale, un modo per coinvolgere nuovi soggetti, abbattere ogni tipo di barriere, e favorire ulteriormente la creazione, la condivisione, la diffusione e valorizzazione del nostro patrimonio artistico” si descrive in modo semplicistico una situazione che presenta, come già detto, aspetti molto più complessi.

La strategia principale di Invasioni Digitali può essere equiparata, allora, piuttosto alla messa in atto di un Brand Identification System in cui principalmente si enfatizza la partecipazione all’evento e nel contempo si cerca di dare all’insieme il valore di un “movimento di pensiero” ma senza alcun tipo di ricerca teorica. I partecipanti sono considerati sempre come un corpo unitario, senza mettere in risalto le specifiche personalità e individualità che lo compongono: non è il messaggio dei singoli partecipanti a prevalere, ma il “brand”, quasi come se si trattasse di “marketing virale”. Tenendo ancora presente il confronto con le strategie del marketing pubblicitario, si nota, per esempio, un grande utilizzo di slogan (“We love this game”, “Veniamo in pace”, ecc.,) che, unitamente alla costante esposizione del logo Invasione Digitale, hanno lo scopo di favorire il brand engagement. Inoltre, nelle linee guida per i partecipanti di Invasioni Digitali si raccomanda di seguire alcune azioni prestabilite: non mi riferisco alle regole pratiche che sono necessarie in qualsiasi tipo di manifestazione che comporti una procedura di adesione da parte del pubblico, ma alla richiesta di svolgere precise azioni nel corso dei propri eventi, producendo, in tal modo, un eccesso di massificazione e una diminuzione dello spazio riservato alla creatività dei singoli. Si chiede, infatti, di utilizzare il cartello “Invasione compiuta” in cui deve campeggiare il logo di Invasioni Digitali e, in aggiunta, di stampare, sempre dal sito di Invasioni Digitali, una “maschera” predeterminata, che gli Invasori dovranno indossare o comunque mostrare nei propri selfie. Queste richieste contribuiscono a “spersonalizzare” le iniziative, aumentando il valore del “brand” a scapito dei messaggi che i promotori e i partecipanti dei singoli eventi avrebbero potuto essi stessi veicolare in modo più originale e soggettivo. L’idea della maschera mi pare, a questo proposito, quanto mai emblematica: una maschera, il simbolo delle Invasioni Digitali, si sovrappone al volto dell’”Invasore” e al monumento stesso, occupando una posizione preminente rispetto all’uno e all’altro.







Avendo voluto sperimentare le prime due Invasioni Digitali, posso affermare con cognizione di causa che la sensazione avuta è stata quella di essermi trasformata in uno strumento al servizio di un movimento che mi lasciava poco spazio per agire con modalità mie proprie. Fotografarsi con un cartello in mano recante il logo dell’organizzazione non è propriamente un’azione esaltante dal punto di vista intellettuale.

Ma forse è inevitabile che anche nel settore culturale prendano forma tali fenomeni considerando che Erich Fromm, già quarant’anni fa profetizzava una società uniformata e dominata dai modelli della comunicazione pubblicitaria[4]. Il rischio, però, è che si perda “il senso profondo di ciò che facciamo dal momento che non siamo propriamente noi a farlo; il nostro agire non è espressione della nostra autentica personalità ma è determinato dai dettami della massa a cui “dobbiamo” prestare ascolto e a cui dobbiamo sacrificarci essendovi continuamente esposti[5].

Fino a due anni fa, eravamo ancora in una fase in cui le istituzioni museali si mostravano in buona parte diffidenti e poco propense ad utilizzare i mezzi di comunicazione digitale, in particolare i social network; dopo la prima edizione della Museum Week[6], nel marzo 2014, si è assistito ad un incremento considerevole di account istituzionali dei musei, per cui ora siamo entrati in una seconda fase in cui sembra prevalere l’entusiasmo per un nuovo modo di rapportarsi con il pubblico. Questo può essere sicuramente un fatto positivo ma l’impressione è che si stia formando un’immagine distorta della missione del museo che sembra debba costruire la sua “modernizzazione” solo con il concorso di queste nuove forme di comunicazione, mentre il vero museo moderno è soprattutto quello che sa riconoscere i bisogni della propria comunità, che è in grado di analizzare le problematiche dei tempi attuali e che sa offrire un luogo di scambio e di dialogo a ciascuno, senza alcun tipo  di barriera.

L’auspicio è che si giunga a coniugare in modo corretto ed equilibrato l’uso degli strumenti della comunicazione digitale con i principi dettati dalla nostra coscienza umanistica, quella che “funge da sentinella, richiamo, segnale, bussola di orientamento, guida, custode del nostro vero essere, della nostra natura umana universale e della soggettività del nostro Io[7]”.





[1] In un post del 30 aprile 2015 del mio blog Museums Newspaper, citai UrbanExperience come esempio eccellente ed evoluto di disseminazione partecipata della cultura utilizzando gli strumenti del Web 2.0 

[2] Rivoltella P. C., Marazzi C., “Le professioni della media education”, Roma 2001, p. 22

[3] Totaro A., “Dinamiche di interrelazione tra blogosfera e mediasfera” in C.I.R.S.D.I.G, Centro Interuniversitario per le ricerche sulla Sociologia del Diritto e delle Istituzioni Giuridiche, Quaderni della Sezione: Diritto e Comunicazioni Sociali, Working Paper n. 29, Dipartimento di Economia, Statistica, Matematica e Sociologia “Pareto”, Facoltà di Scienze Politiche, Università di Messina, 2008, p. 5

[4] Cerracchio C., “La manipolazione. Bernays e gli psicomarchettari”, Società & Psiche, 9 novembre 2012, http://www.psicologiaradio.it/2012/11/09/la-manipolazione-delle-masse-bernays-e-gli-psicomarchettari/

[5] Lattanzi P., “La società malata. L’umanesimo di Erich Fromm tra Marx e Freud”, e-book, 2015, p. 137

[6] La Museum Week è stata lanciata la prima volta nel marzo del 2014 da dodici musei nazionali francesi in collaborazione con Twitter France. In seguito l’iniziativa social si è diffusa su scala europea, con la partecipazione di svariati musei non solo europei. L’obiettivo dell’evento è quello di accedere attraverso Twitter a contenuti culturali proposti dai musei per poi interagire con i curatori.

[7] Risari G., “Coscienza umanistica, identità, ‘produttività’ e biofilia” in Erich Fromm, Publication of the International Erich Fromm Society, Italian-English conference “Death and the Love for Life in Psychoanalysis. In Memoriam Romano Biancoli“ on June 5-6, Ravenna 2010

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