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I musei e i non visitatori

Oggi vorrei iniziare a riportare qui, sulle pagine del mio blog, alcuni stralci di un saggio molto importante, una pietra miliare in ambito museologico, intitolato "Si contano i visitatori o sono i visitatori che contano?". L'autrice è Eilean Hooper-Greenhill, docente presso il Department of Museum Studies dell'Università di Leicester. In questa prima parte si parla di come un museo può migliorare il proprio rapporto con il pubblico, iniziando ad analizzare non il pubblico effettivo, ma le ragioni per le quali il "pubblico potenziale" non frequenta il museo. Per capirlo, dice La Hooper-Greenhill, "bisogna uscire dalle quattro mura del museo".
 
Il saggio è tratto dal volume "L'industria del museo. Nuovi contenuti, gestione, consumo di massa", a cura di Robert Lumley, edito da Costa & Nolan nel 2005 (versione originale edita nel 1988 da Routledge con il titolo "The Museum Time Machine").
 
"Per molti di coloro che lavorano nei musei, i visitatori sono solo cifre senza volto, piedi da contare mentre oltrepassano la soglia, un male inevitabile dal momento che un museo è, per definizione, un luogo pubblico. E' raro che un museo sappia chi sono i suoi visitatori e perché ci vengono, anche se i direttori sono sempre pronti a snocciolare grandi quantità di "dati sulle presenze". La parola d'ordine sembra essere quantità e non qualità, e nel valutare l'opera svolta da un museo sembra quasi che il peso corporeo delle persone che lo frequentano sia più importante della qualità dell'esperienza che ne ricavano.
Generalmente per visitatori si intendono coloro che vengono a vedere gli oggetti esposti, e solo raramente viene elaborata un'interpretazione più approfondita del concetto di gruppi di utenza. (...)
 
Difficilmente la politica delle comunicazioni di un museo viene elaborata sulla base di una conoscenza dell'utenza complessiva derivata da apposite ricerche. Il museo molto spesso non ha alcun programma in proposito né provvede a definire obiettivi specifici relativi alle strutture predisposte per i visitatori effettivi, per quelli potenziali e per il pubblico più in generale. (...)
 
E' ormai evidente che finora i conservatori dei musei hanno agito sulla base della propria visione del mondo, presumendo che i visitatori condividessero i valori, i criteri e gli interessi intellettuali che li avevano guidati nella scelta e nella presentazione del materiale ed anche, cosa ancor più importante, nella selezione e nell'acquisto degli oggetti. (...)
 
Raramente nel decidere le attività da svolgere si è tenuto conto della necessità, dei desideri o delle opinioni del pubblico. (...)
 
Le indagini sui visitatori dei musei forniscono informazioni soltanto sulle persone che al museo ci vanno. Un museo in cui si registra un calo nel numero di ingressi e che si precipita a fare un sondaggio in realtà si muove nella direzione sbagliata: un'indagine sui visitatori, per quanto approfondita, non potrà mai rivelare le opinioni di coloro che al museo non ci vanno; fornirà dei dati su chi ci va, e se si confrontano tali dati con gli studi sulla popolazione locale, si chiariranno certe lacune, ma per ottenere un quadro più veritiero del perché gli ingressi stanno calando, o meglio, per sapere cosa pensa del museo la gente, è necessario fare uno studio completo della popolazione e intervistare sia quelli che al museo ci vanno sia quelli che non ci mettono piede, e cioè bisogna uscire dalle quattro mura del museo.  
 
(prima parte)

MARIO CHAGAS: IL PIÙ GRANDE PATRIMONIO DI UN MUSEO È IL SUO PUBBLICO

Riporto qui un articolo uscito il 27 settembre sul giornale colombiano El Tiempo.com, a seguito dell’incontro organizzato da Icom Colombia, “Musei e patrimonio”, lo scorso 18 settembre.
In quella occasione, l’antropologo brasiliano Mario Chagas, asesor museológico del Museo della Repubblica di Río de Janeiro, ha evidenziato la funzione sociale dei musei (soprattutto dei piccoli musei, quando riescono ad instaurare uno stretto legame con le loro comunità), e l’importanza di favorire l’accesso democratico alla cultura.



Nel 1972, a Santiago de Chile, in occasione di una tavola rotonda di esperti in museologia, si discusse della funzione sociale dei musei. Quarant’anni dopo, si contano numerosi esempi di musei che esprimono la propria vocazione sociale in vari modi. E’ questo il caso del Ponto de Memória de Terra Firme, Belén (Brasile), dove un gruppo di donne ha deciso di impegnarsi per recuperare la gastronomia locale. Iniziando da questo progetto, oggi si può dire che la comunità locale è cosciente dei propri diritti culturali e che lotta per questi.
Così afferma Mario Chagasasesor museológico  del Museu da Repùblica di Río de Janeiro,  intervenuto ad una conferenza tenutasi a Bogotá per discutere di come questi spazi culturali possono produrre un cambiamento sociale.
Un altro caso è il Museu de Favela (Pavão, Pavãozinho e Cantagalo), a Río de Janeiro. Lì la comunità stessa gestisce il museo e riesce anche a sopravvivere dignitosamente grazie alle visite e alla vendita di prodotti dell’artigianato locale.
Per Chagas «il museo non può essere visto come un qualcosa di statico e distante dalle comunità. È importante democratizzare l’accesso ai musei esistenti, e usare la democratizzazione del museo come uno strumento»,  commenta.
Tuttavia, il fatto che ci siano comunità che creano i propri musei e che li fanno vivere, non esonera i governi dalle proprie responsabilità e dal dovere di sviluppare politiche che promuovono l’accesso alla cultura e che garantiscano la sopravvivenza dei piccoli musei.


Memoria e creatività


Un altro argomento che è stato affrontato durante l’incontro organizzato da Icom Colombia, riguarda una formula proposta da Chagas che include le variabili museo, patrimonio, memoria e creatività. Per lo studioso brasiliano, i musei sono una forma di appropriazione del passato e di proiezione nel futuro, però richiedono un esercizio costante della memoria.
Chagas ribadisce che chi non conosce la sua storia è destinato a ripeterla. Per l’antropologo, dunque, tutta la creazione necessita di memoria. «Nello stesso tempo, chi ha memoria, ma non riesce ad essere creativo, ricorda solo il passato, cioè un altro tempo rispetto a quello in cui vive. E’ necessario, invece, che memoria e creatività siano presenti insieme», conclude.



Traduzione dallo spagnolo di Caterina Pisu

Il caso dell’Art Institute of Chicago: fuori tutti i volontari bianchi dal museo

Fonte dell'immagine: The Federalist Negli Stati Uniti, presso l’Art Institute of Chicago (AIC) si è aperto un caso che potrebbe essere d...