Visualizzazione post con etichetta museologia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta museologia. Mostra tutti i post

Riccardo Rosati: "Museologia e Tradizione"

Segnalo con piacere il nuovo libro dell'amico Riccardo Rosati, "Museologia e Tradizione", edito da Solfanelli. Buona lettura!
 
 

I musei e i non visitatori

Oggi vorrei iniziare a riportare qui, sulle pagine del mio blog, alcuni stralci di un saggio molto importante, una pietra miliare in ambito museologico, intitolato "Si contano i visitatori o sono i visitatori che contano?". L'autrice è Eilean Hooper-Greenhill, docente presso il Department of Museum Studies dell'Università di Leicester. In questa prima parte si parla di come un museo può migliorare il proprio rapporto con il pubblico, iniziando ad analizzare non il pubblico effettivo, ma le ragioni per le quali il "pubblico potenziale" non frequenta il museo. Per capirlo, dice La Hooper-Greenhill, "bisogna uscire dalle quattro mura del museo".
 
Il saggio è tratto dal volume "L'industria del museo. Nuovi contenuti, gestione, consumo di massa", a cura di Robert Lumley, edito da Costa & Nolan nel 2005 (versione originale edita nel 1988 da Routledge con il titolo "The Museum Time Machine").
 
"Per molti di coloro che lavorano nei musei, i visitatori sono solo cifre senza volto, piedi da contare mentre oltrepassano la soglia, un male inevitabile dal momento che un museo è, per definizione, un luogo pubblico. E' raro che un museo sappia chi sono i suoi visitatori e perché ci vengono, anche se i direttori sono sempre pronti a snocciolare grandi quantità di "dati sulle presenze". La parola d'ordine sembra essere quantità e non qualità, e nel valutare l'opera svolta da un museo sembra quasi che il peso corporeo delle persone che lo frequentano sia più importante della qualità dell'esperienza che ne ricavano.
Generalmente per visitatori si intendono coloro che vengono a vedere gli oggetti esposti, e solo raramente viene elaborata un'interpretazione più approfondita del concetto di gruppi di utenza. (...)
 
Difficilmente la politica delle comunicazioni di un museo viene elaborata sulla base di una conoscenza dell'utenza complessiva derivata da apposite ricerche. Il museo molto spesso non ha alcun programma in proposito né provvede a definire obiettivi specifici relativi alle strutture predisposte per i visitatori effettivi, per quelli potenziali e per il pubblico più in generale. (...)
 
E' ormai evidente che finora i conservatori dei musei hanno agito sulla base della propria visione del mondo, presumendo che i visitatori condividessero i valori, i criteri e gli interessi intellettuali che li avevano guidati nella scelta e nella presentazione del materiale ed anche, cosa ancor più importante, nella selezione e nell'acquisto degli oggetti. (...)
 
Raramente nel decidere le attività da svolgere si è tenuto conto della necessità, dei desideri o delle opinioni del pubblico. (...)
 
Le indagini sui visitatori dei musei forniscono informazioni soltanto sulle persone che al museo ci vanno. Un museo in cui si registra un calo nel numero di ingressi e che si precipita a fare un sondaggio in realtà si muove nella direzione sbagliata: un'indagine sui visitatori, per quanto approfondita, non potrà mai rivelare le opinioni di coloro che al museo non ci vanno; fornirà dei dati su chi ci va, e se si confrontano tali dati con gli studi sulla popolazione locale, si chiariranno certe lacune, ma per ottenere un quadro più veritiero del perché gli ingressi stanno calando, o meglio, per sapere cosa pensa del museo la gente, è necessario fare uno studio completo della popolazione e intervistare sia quelli che al museo ci vanno sia quelli che non ci mettono piede, e cioè bisogna uscire dalle quattro mura del museo.  
 
(prima parte)

La nuova pagina Facebook del blog Museums Newspaper

Da oggi Museums Newspaper avrà anche una sua pagina Facebook che avrà lo scopo non solo di rilanciare i post sui social ma anche di ampliare i contenuti con notizie selezionate da tutto il mondo.
Spero che l'iniziativa sia gradita!

https://www.facebook.com/museumsnewspaper?fref=nf&pnref=story

Musei liberi e non politicizzati: la realtà britannica




di Caterina Pisu


Nel 2001, la giornalista e scrittrice Josie Appleton, scrisse un articolo che potrebbe sembrare disorientante per i museologi, in maggioranza assertori convinti dell’importanza del ruolo di mediazione e di inclusione sociale dei musei nell’ambito delle comunità. 
In realtà, un po’ di autocritica non fa mai male e allora mi sembra opportuno riportare qui il pensiero della Appleton che, a distanza di anni, può risultare ancora di una certa attualità, sebbene le sue considerazioni facciano specifico riferimento all’ambito britannico e ad un determinato momento storico.

Il tema che oggi propongo è il primo di una serie che desidero dedicare al ruolo sociale dei musei, in vista del Quarto Convegno Nazionale dei Piccoli Musei, in programma ad Assisi 11-12 novembre 2013, in cui si affronterà, tra gli altri, anche questo argomento, in relazione ai cosiddetti “musei di quartiere” (v. qui il programma provvisorio).

Nell’articolo intitolato “Museums for the people”,  pubblicato su http://www.spiked-online.com/site/article/10827/, la Appleton si chiedeva perché l’inclusione sociale fosse diventata una delle finalità perseguite dai musei, in realtà non per una spinta venuta dall’interno del settore museale, ma a seguito della politicizzazione dei musei (si fa riferimento, come già accennato, al Regno Unito).
A seguito della pressione del governo New Labour, infatti, non solo musei e gallerie, ma anche altre istituzioni pubbliche, come gli ospedali, le università e le scuole, furono incoraggiati a considerare l’inclusione sociale come una delle proprie funzioni essenziali. Fu così che i musei cominciarono a riorganizzarsi cercando di occuparsi il più possibile delle relazioni con la comunità.
Per la Gran Bretagna dei New Labour la parola “inclusione sociale” sembrava essere di gran moda, ma restava comunque un concetto oscuro, non pienamente compreso, che nasceva piuttosto da un’ansia del pericolo di frammentazione sociale e dalla possibilità che potessero esistere individui isolati, senza un proprio scopo nella vita, e che quindi dovevano assolutamente essere aiutati. Laddove esistono persone abbandonate a se stesse è più alto, infatti, il livello di criminalità, più basso il livello culturale e la pratica di attività sportive. In sostanza, si possono creare situazioni o fasce sociali in cui la qualità di vita è molto bassa.

Per ovviare a questo inconveniente, il Dipartimento britannico per la Cultura, i Media e lo Sport (DCMS), adottò una strategia che vedeva i musei e le gallerie coinvolti in prima linea nell'impegno sociale, tesi a responsabilizzare le persone nel saper individuare il loro posto nel mondo e nel riuscire a svolgere un ruolo attivo nella società.

Il Group for Large Local Authority Museums (GLLAM) sostenne questa strategia, nella convinzione che i progetti di inclusione sociale generino maggiore autostima, fiducia e creatività, contribuendo a sviluppare una vita sociale più attiva e soddisfacente.
Ma perché i musei hanno così prontamente adottato tra le proprie funzioni primarie, l’inclusione sociale? Forse perché, secondo la Appleton, la professione museale in quel momento, quando il partito del New Labour saliva al potere, stava vivendo uno stato di profonda crisi e di confronto aspro con il resto della società.
I musei avevano un grande bisogno di auto-giustificare la loro esistenza perché per almeno una decina d’anni erano stati messi sotto processo dalla società per il loro ruolo di “badanti” e per la loro troppo stretta connessione con lo studio e l’interpretazione di “oggetti”, che li aveva tenuti isolati dalla concretezza della vita reale.  
Le critiche erano state talmente dure che, a destra, l’ex Primo Ministro Margaret Thatcher aveva definito i musei “inutili”, e pertanto aveva cercato di “modernizzarli” e di renderli più “efficienti”, introducendo le logiche del marketing per la loro gestione e per la valutazione dell’efficacia del lavoro svolto. A sinistra, invece, si continuava ad attaccare i musei, considerandoli istituzioni tenute in vita da élite ideologiche che tendevano ad escludere le masse.
A questo punto, il Dipartimento per la Cultura, i Media e lo Sport dovette affrontare con decisione la crisi di identità dei musei. L’ordine del giorno fu, oltre che rendere esplicita la volontà di politicizzare i musei, il suggerimento di individuare, ogni anno, un tema sociale da mettere in luce e approfondire attraverso mostre o altri eventi di questo tipo.
Durante gli attacchi rivolti alla categoria, molti professionisti museali erano rimasti in silenzio. Forse erano talmente demoralizzati che i progetti di inclusione sociale a quel punto sembravano necessari non solo al pubblico ma soprattutto a se stessi. Grazie a questi progetti, infatti, il personale dei musei cominciò a sentirsi più utile e necessario, e a ritrovare nuove energie. Qualcuno affermò di sentirsi “più connesso”, “più integrato” nell'ambito della comunità, forse più vicino alla realtà di quanto non fosse prima, quando si occupava solo delle collezioni espositive.
Ma questa nuova funzione del museo era realmente un bisogno dei professionisti museali e della società o era stata imposta dall'esterno, dopo la demolizione del vecchio modello di museo, e poi attivamente promossa dalle nuove élite museali?
Nel Regno Unito le nuove generazioni di dirigenti museali avevano ricevuto la loro formazione soprattutto nei master della Leicester University; alcuni di essi provenivano dagli studi storici sociali che avevano una chiara impronta di sinistra e avevano iniziato le loro esperienze professionali presso i musei di enti locali. Essi propendevano, dunque, alla partecipazione attiva della gente comune nelle attività promosse dai musei.
Consentire ai visitatori di diventare una parte importante del lavoro di un museo o di una mostra, venne visto come una necessaria e radicale trasformazione dei musei in direzione dei bisogni della società.
Peter Jenkinson sembrava quasi citare “Stato e rivoluzione” di Lenin quando descriveva le “fasi della caduta del potere” dei professionisti museali conclusasi con la soluzione finale più radicale, forse utopica, della creazione di un museo veramente autonomo e popolare,  non più in mano ai professionisti museali.
E’ curioso – afferma la Appleton - che i musei specialistici potessero ipotizzare addirittura l’eliminazione dei professionisti museali a favore di una gestione collettiva dei musei!
In realtà, lungi dal determinare trasformazioni sociali così radicali, questi progetti hanno avuto il merito soprattutto di far sentire meglio le persone con se stesse. Nel contesto storico del declino industriale, la storia sociale dei musei aveva contribuito a rinnovare l’orgoglio della gente attraverso la riscoperta e il racconto delle loro storie, proprio nel momento in cui sembrava che l’orgoglio non esistesse più.
E’ significativo che nel 1983, nonostante fosse stato perso un referendum promosso per tentare di tenere aperto un museo a cielo aperto in un villaggio minerario del Galles, l’anno seguente fu ugualmente istituito un museo del villaggio che evidentemente era considerato irrinunciabile per i curatori e gli amministratori della cittadina. Il curatore Gaynor Kavanaugh affermò che “essere senza storia è come essere ignorato e dimenticato. Un posto riconosciuto nella storia significa ritrovare la propria autostima e i propri valori”. 
Bill Silvester, che aveva istituito the Abbeydale Industrial Hamlet  a Sheffield nel 1970, disse a sua volta che “l'idea era di dare un museo ai lavoratori e ai loro figli, con lo scopo di ripristinare l'orgoglio, troppo spesso negato o rubato da altri, e di lasciarlo in eredità”.
I progetti di inclusione sociale hanno sempre cercato, dunque, di trasmettere la percezione che la collezione del museo appartenga ai membri della comunità, i quali hanno contribuito a raccontare la propria storia e quella del proprio territorio.
Il punto è che cosa succede quando i progetti di inclusione sociale diventano parte di un programma di governo. A questo punto non è più il direttore di un museo che autonomamente decide di aumentare l’autostima degli individui della comunità in cui opera, ma le nuove élite museali promuovono questi progetti per veicolare le politiche governative in ambienti per lo più  a rischio.
E la Appleton a questo proposito cita, come esempio, il progetto tessile per le donne asiatiche del Birmingham Museum and Art Gallery che, con il pretesto di coinvolgere le donne nella creazione di tessuti ispirati alle collezioni del museo, ha operato un’indagine tra esse incoraggiandole a parlare della loro salute mentale. Sarebbe stato difficile, infatti, che queste donne si rivolgessero spontaneamente a degli assistenti sociali, ma un’attività culturale  ha facilitato questo lavoro di utilità sociale.
E si possono citare anche altri casi di progetti simili rivolti a varie categorie sociali “a rischio”. Questa trasformazione del ruolo del museo all'interno della società trasforma inevitabilmente anche i contenuti del museo: i progetti di integrazione sociale, in pratica, potrebbero anche ignorare le attività su cui è stato "costruito" il museo stesso. Il rischio, allora, è quello di creare una distorsione dei principi fondamentali sui cui poggia l'istituzione museale. Il ruolo tradizionale del museo, di raccolta, studio ed esposizione dei manufatti, ha sempre avuto una solida base nella società; i collezionisti e l’establishment accademico sono stati coinvolti in questa attività e hanno sviluppato gli standard e le modalità di valutazione del lavoro dei professionisti museali. Ciò ha dato al museo una struttura ben definita, una sua ragion d'essere, e in tutto questo l’esposizione degli oggetti era la base sostanziale attraverso la quale il museo si metteva in relazione con il suo pubblico.
 Oggi, la funzione di inclusione sociale, essendo stata presa in consegna dalla politica - afferma la Appleton, può apparire poco ben definita, priva di un senso di direzione chiaro, non fondata su pratiche sperimentate e consolidate. Ciò determina spazi di interpretazione troppo ampi e talora ambigui. 
Il Rapporto del Group for Large Local Authority Museums sull'inclusione sociale, che fa riferimento all'ambito dei musei locali che sono in prima linea in iniziative di questo tipo, riferisce che “la definizione di inclusione sociale è problematica; è 'difficile da vedere e difficile da cogliere nel suo insieme; è un concetto che può essere definito e utilizzato variamente dal governo e dai diversi enti locali”.
Quando un concetto è “sfumato” o “sfocato”, la tentazione è quella di usare il righello per definirlo meglio. Il Group for Large Local Authority Museums ritenne che fosse necessario dare impulso a studi trasversali per precisare innanzitutto lo spettro d’azione più coerente in cui poteva essere attuata una politica di inclusione sociale, cercando poi di puntualizzare le metodologie e gli standard di lavoro da utilizzare in questo ambito. E’ vero, però, che anche il sistema più elaborato e preciso che sia in grado di misurare l’impatto sulla società dei progetti di inclusione sociale, non risolverà il nodo fondamentale che è quello delle motivazioni.
Le comunità, infatti, sono formate da persone che decidono spontaneamente se condividere alcuni aspetti della loro vita, non dietro una sollecitazione “ben orchestrata” e, soprattutto, con finalità politiche.
La conclusione della Appleton è dunque che sia i politici che i musei sarebbero fortemente aiutati in questo discernimento  se la politica cominciasse ad apprezzare i musei innanzitutto perché essi esistono e sono una realtà concreta, inserita nelle nostre società, cui non è necessario imporre dall'alto la direzione da seguire.

Specialmente in quest’ultimo punto mi trovo molto d’accordo con Josie Appleton. I cambiamenti culturali non si possono imporre con un decreto governativo, ma i musei, se sono percepiti come espressione e memoria della collettività, potranno trovare in se stessi le motivazioni per una trasformazione più o meno radicale, alla ricerca di modelli più adeguati ai tempi ed anche alle nuove esigenze sociali, senza rinunciare alle proprie peculiarità. 

I governi si dovranno preoccupare soprattutto di sostenerli con risorse adeguate e di favorire l'apporto di sempre nuove energie professionali, ben qualificate. 

Il museo di Istanbul com'era

Apre il Museo dell'Innocenza del premio Nobel Orhan Pamuk

di Marta Ottaviani

Cari Lettori eccoci qui

La notizia è che Istanbul da sabato ha un nuovo museo in più e per giunta unico al mondo nel suo genere. Si tratta del “Museo dell’Innocenza”, pensato e voluto fortemente dal premio Nobel per la Letteratura, Orhan Pamuk, che lo ha presentato personalmente alla stampa.
Il museo è ispirato all’omonimo romanzo del Nobel, pubblicato in Italia nel 2008, anzi, in un certo senso è proprio la sua incarnazione. Il libro parla della storia d’amore infelice fra Kemal e Fusun, sulla sfondo di una Turchia fra gli anni 50 e 90. Una storia fatta di dolore, gioia e forte erotismo. Nel romanzo, lo scrittore descrive con attenzione gli oggetti che fanno parte della vita quotidiana dei due protagonisti. La sede espositiva li racchiude tutti, inclusi I 4123 mozziconi di sigaretta che Fusun si fuma durante il racconto, dalle scarpe gialle della fanciulla, allo spazzolino da denti di Kemal. Il tutto ovviamente accompagnato da foto d’epoca di Istanbul e da contributi audiovideo.
Il Museo si trova nel quartiere di Cukurcuma, nella parte europea, non lontano dal Bosforo e che da anni è meta di una traformazione continua, che l’ha fatto passare da luogo popolare a zona glamour, abitata da stranieri e nella quale sono sorte anche alcune gallerie d’arte. “Quando ho comprato il palazzo dove sorge il Museo – ha spiegato Pamuk alla stampa – era il 1998 e il quartiere era molto diverso da oggi. Era un posto più popolare e somigliava molto alla Istanbul degli anni ‘60”.
La sede espositiva, che è stata ristrutturata e adattata seguendo le indicazioni fornite dallo stesso scrittore, è formata da tre piani, in cui sono contenuti 83 box e vetrine, tanti quanti I capitoli del libro. All’ultimo piano è riprodotta la stanza del protagonista maschile, Kemal e alcune pagine dal manoscritto originale del libro, iniziato da Pamuk a New-York nel marzo 2002.
“Ho scelto personalmente tutti gli oggetti – spiega ancora Pamuk -. Ci sono voluti anni per collezionarli e in alcuni casi mi ha aiutato anche la popolazione del quartiere, che ha accolto molto bene l’arrivo del museo e hanno seguito tutte le sue fasi con grande curiosità”. Gli oggetti sono stati poi ordinati nelle vetrine con l’aiuto di amici, architetti e artisti e per lo scrittore è stata la parte più dura ma anche bella del lavoro.
Dagli anni ’90, ossia dall’acquisto dell’immobile, l’autore è riuscito a lavorarci solo a fasi alterne, per poi concentrarvisi dopo il 2008, dopo l’uscita del romanzo omonino. “Mi sarebbe piaciuto aprire il Museo all’uscita del romanzo, ma quello era veramente troppo ambizioso” continua lo scrittore, che ha anche chiarito la fine della collaborazione con il Comune di Istanbul, che avrebbe voluto l’apertura del Museo per il 2010, anno in cui la megapoli sul Bosforo è stata Capitale Europea della Cultura. “Non volevo che l’apertura del Museo venisse politicizzata, abbiamo restituito tutti I fondi fino all’ultimo”.
E finalmente eccolo qui, il Museo dell’Innocenza, che parla di una storia d’amore infelice e della vita quotidiana di una famiglia turca altoborghese. Ma anche di una città, Istanbul, cambiata vorticosamente nel corso degli anni. Manca solo una cosa, nell’esposizione: la foto dei protagonisti.

“Non le ho messe volutamente – conclude il Nobel – nemmeno sulla copertina del libro. Penso sia giusto lasciare I loro volti all’immaginazione dei lettori”.

Vi devo dire: il museo è delizioso, merita una visita soprattutto per chi vuole cercare di immaginarsi o ritrovare la vita quotidiana a Istanbul qualche decennio fa, prima che la città cominciasse a cambiare. Pamuk mi è apparso sereno e rilassato. Aveva veramente solo voglia di parlare del suo museo e della sua Istanbul. Tuttavia a una domanda sul giornalista, ha dato anche una sua valutazione sulla situazione turca attuale. La parte positiva è che i militari non sono più al potere e che siano stati avviati procedimenti giudiziari che possano finalmente avviare il Paese a chiudere questa pagina dolorosa. Però nello stesso tempo Pamuk ha auspicato che l'attuale governo non mostri atteggiamenti autoritari, non nascondendo la sua preoccupazione per come sta venendo gestita la questione curda e i giornalisti in carcere. Ma questa è stata solo una breve parentesi. Lo stesso scrittore ha detto di non voler vedere politicizzata l'apertura del museo.

Ps. Per chi non ha letto il libro, una buona notizia: Pamuk in persona ha infatti detto che chi lo visitava senza avere letto il testo prima arrivava alla fine del percorso espositivo con maggiore curiosità.

Tratto da: La Stampa.it

Le nuove aspettative dei piccoli musei





L’Associazione Nazionale Piccoli Musei (APM) ha in preparazione, il 5-6 novembre 2012, ad Amalfi (SA), il Terzo Convegno Nazionale dei Piccoli Musei, un incontro tra professionisti del settore museale, amministratori locali e studiosi, che ha come oggetto l’individuazione di modelli di gestione e la formulazione di una “filosofia” specifica, più conforme alla natura e alle esigenze dei piccoli musei locali, dei loro pubblici e delle loro comunità di appartenenza. Nata in tempi recenti, l’APM, che ha già organizzato altri due convegni negli anni scorsi (a Villanova di Castenaso, in provincia di Bologna, nel 2010, e a Battaglia Terme, in provincia di Padova, nel 2011), si prefigge, nel concreto, di valorizzare le specificità dei piccoli musei incoraggiando un forte legame con i territori e, soprattutto, una particolare cura nel rendere la visita ai musei un momento di conoscenza ma anche di ristoro e di incontro con le tradizioni, la storia e la creatività locale. Rispetto ai grandi musei, infatti, i piccoli musei locali hanno la grande opportunità di poter dedicare tempo e attenzione ad ogni singolo visitatore, rendendo la visita un’esperienza unica. Tutto ciò deve realizzarsi, naturalmente, nell’ambito di un servizio altamente professionale, svolto da personale specializzato, come caldamente raccomandato dall’APM. Confrontando un piccolo con un grande museo, pertanto, non è la qualità del progetto museale o dei servizi offerti che cambia ma le modalità con cui ciò viene attuato. Giancarlo Dall’Ara, fondatore e presidente dell’APM, docente di marketing del turismo presso il Centro Italiano di Studi Superiori sul Turismo e sulla Promozione Turistica (CST) di Assisi, definisce questa nuova prassi, la “filosofia dell’accoglienza”. E’ necessario che i piccoli musei non abbiano più i grandi musei come modelli di riferimento e si liberino, pertanto, di ogni complesso di inferiorità, coinvolgendo le amministrazioni che hanno il potere decisionale affinché si comprenda che i musei rappresentano una leva importante anche nel meccanismo di riqualificazione economica dei territori. Secondo Dall’Ara, «i piccoli musei non sono e non vanno visti come una versione ridotta dei grandi e, anzi, proprio l’idea che i “piccoli” siano dei “grandi incompiuti” è il peccato originale che ha impedito a molti di loro di riuscire ad avere un legame più forte con il territorio di appartenenza, di sviluppare un maggior numero di visitatori e, in ultima analisi, di poter svolgere il proprio ruolo». Nel quadro di rinnovamento della visione di sé che i piccoli musei dovranno acquisire, la comunità di appartenenza avrà un ruolo fondamentale e dovrà essere l’oggetto primario degli interessi e delle funzioni del museo. L’organizzazione dei servizi, pertanto, dovrà riservare alla comunità una porta di accesso privilegiata (G. Dall'Ara), diversa da quella principale, doverosamente gratuita per i residenti, e dovrà curare attività specifiche espressamente dedicate ai locali, che siano ispirate dalla cultura e dalle tradizioni del luogo, rappresentando, nel contempo, le aspirazioni future della collettività.
Il prossimo 3° Convegno Nazionale sarà l’occasione per approfondire questi temi e per illustrare casi studio o esperienze locali particolarmente significative. Il programma prevede tre sessioni:

1. Piccoli Musei e Turismo;
2. Esperienze e buone prassi gestionali e di didattica museale;
3. I Musei fuori dai Musei. Esperienze di Rete tra Piccoli Musei e fonti di finanziamento.

Il caso dell’Art Institute of Chicago: fuori tutti i volontari bianchi dal museo

Fonte dell'immagine: The Federalist Negli Stati Uniti, presso l’Art Institute of Chicago (AIC) si è aperto un caso che potrebbe essere d...