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Musei senza identità

Riporto qui l’intervista a Jean Clair: "I manager sono la rovina dei musei", pubblicata su Repubblica lo scorso 21 agosto, il quale si esprime a proposito della Riforma Franceschini e della cultura del marketing che si sta affermando sempre di più nel settore dei musei.  “Ho paura che la riforma” – afferma lo storico e critico d’arte francese – “non rispetti l'identità di un museo, la specificità della cultura locale che vi è custodita e che va tutelata. (…) Un direttore di un museo non deve fare grandi mostre, ma far conoscere il patrimonio spirituale di una nazione”.


Jean Clair è lo pseudonimo dello storico e critico d'arte francese Gérard Régnier (n. Parigi 1940). Laureatosi alla Sorbona di Parigi, ha studiato alla Harvard University e presso la National Gallery di Ottawa. A Parigi è stato conservatore al Musée national d'art moderne (dal 1982) e redattore capo dei Cahiers del museo, da lui fondati nel 1978; dal 1989 direttore del Musée Picasso. Direttore del settore arti visive della Biennale di Venezia dal 1994, ne ha diretto la 46ª edizione (1995); dal 2008 è membro dell'Académie française. Ha redatto monografie di artisti contemporanei (Bonnard, 1975; Marcel Duchamp ou le grand fictif, 1975, trad. it. 1979; Delvaux, 1975) e ha curato numerose mostre, tra le quali Last paradise: symbolist Europe (1995) e Cosmos (1999-2000). Ha pubblicato vivaci scritti polemici e critici sull'arte contemporanea, sulla teoria dell'arte e sul ruolo delle istituzioni: Considérations sur l'état des beaux-arts (1983; trad. it. Critica della modernità, 1984); Le nu et la norme: Klimt et Picasso en 1907 (1988); Méduse: contribution à une anthropologie des arts du visuel (1989; trad. it. 1992); La responsabilité de l'artiste: les avant-gardes entre Terreur et Raison (1997; trad. it. 1998); La barbarie ordinaire (2001); si segnalano, inoltre, le raccolte di saggi Éloge du visible: fondements imaginaires de la science/">science (1996); Malinconia. Motifs saturniens dans l'art de l'entre-deux guerres (1996); Le voyageur égoïste (1999); De immundo (2004); Lait noir de l'aube (2007); Malaise dans les musée (2007); Journal atrabilaire (2008); Zoran Music: apprendre à regarder la mort comme un soleil (con C. Juliet e I. Barbarigo, 2009); L'hiver de la culture (2011); Dialogue avec les morts (2011).

(Biografia tratta da Enciclopedia Treccani)

Immagine tratta da http://www.lefigaro.fr/


Di seguito, l'intervista realizzata da Raffaella De Santis: 

In questi giorni Jean Clair è a Venezia, in giro con la moglie per calli e mostre. Vent'anni fa curò una Biennale dedicata al volto e al corpo umano, ma oggi è deluso. Non gli piacciono le esposizioni affollate di turisti e quando gli si chiede di commentare la nuova riforma dei musei, all'inizio sembra possibilista, ma poi di fronte all'idea di una nuova figura di direttore-manager si accalora:

"Un direttore di un museo non deve fare grandi mostre, ma far conoscere il patrimonio spirituale di una nazione. È la fine. L'arte ha perso ogni significato".

L'argomento lo appassiona. Risale ormai a qualche anno fa un suo saggio intitolato "La crisi dei musei", mentre nel più recente "L'inverno della cultura" ha disseminato pagine durissime contro i musei-luna park ridotti a magazzini di opere preziose. Per il grande critico e storico dell'arte, il sistema museale è ormai asservito alla logica mercantile, come qualsiasi altro prodotto. Nel suo ultimo libro, intitolato Hybris. La fabbrica del mostro nell'arte moderna (Johan & Levy), studia la morfologia dell'arte moderna, le sue deformazioni morbose, il suo progressivo allontanamento dalla bellezza. Il fatto che Jean Clair sia stato anche direttore del Centre Pompidou e del museo Picasso, lo spinge a guardare con curiosità a quanto sta accadendo nel nostro paese.

Che cosa non la convince nella riforma italiana dei musei?
"Prima di tutto ho paura che non si rispetti l'identità di un museo, la specificità della cultura locale che vi è custodita e che va tutelata".

Un direttore straniero potrebbe essere inadatto a questo compito?
"Un direttore di un museo deve per prima cosa essere un critico e uno storico dell'arte. Da questo punto di vista, scorrendo la lista dei nomi selezionati, mi pare che ci siano professionalità di rilievo. Conosco Sylvain Bellenger, che a Capodimonte farà un ottimo lavoro. Ma il problema è un altro. È un problema spirituale e culturale più ampio. Si stanno trasformando i musei in fondi bancari, in macchine finanziarie, hedge fund specializzati in speculazioni. Non abbiamo più idea di che cosa sia l'arte, di quale sia il suo compito".

Non pensa sia anacronistico tentare di arginare l'internazionalizzazione della cultura?
"Sono curioso di vedere cosa accadrà in Italia. Il fatto che molti dei prescelti siano stranieri è in sé un fatto positivo, se non fosse che dovranno operare dentro musei ridotti a macchine per incassare soldi. Io stesso prima di essere nominato al Beaubourg e al museo Picasso ho studiato in America. Ricordo il sorriso del direttore del Louvre quando decisi di partire. Mi disse: "Che vai a fare in America?" Non lo ascoltai. Sono rimasto ad Harvard tre anni. Era il 1966. Da lì sono poi andato in Canada, al museo nazionale".

Nei suoi scritti ha però attaccato più volte il sistema museale contemporaneo. Mercato e cultura sono forze antagoniste?
"Molti musei sono in mano a mercanti senza cultura. Il compito di un museo dovrebbe invece essere educare e dilettare. Il direttore dovrebbe preoccuparsi di tutelare il patrimonio d'arte che gli è affidato senza venderlo. Prenda l'idea di portare il Louvre ad Abu Dhabi. Una follia".

Crede si arriverà a questo anche in Italia?
"Ho l'impressione che tra un po' di tempo ci sarà l'esigenza di mettere sul mercato qualche opera per rimpinguare le casse della macchina-museo. Nel 2006, Françoise Cachin, che è stata la prima donna a essere eletta direttrice dei musei di Francia, scrisse un articolo contro l'idea di vendere i musei e venne allontanata dal suo incarico. Invece aveva ragione. Le opere d'arte sono ormai ridotte a merce senza qualità, senza identità".

Immagino che l'idea di affittare un museo per eventi privati non le piaccia affatto...
"L'idea del neo direttore tedesco degli Uffizi, Eike Schmidt, di dare in affitto delle stanze della galleria segna l'inizio della fine. O piuttosto la continuazione di una decadenza della quale lui stesso sarà il responsabile finale".

Lei ha guidato grandi musei. Ora ai direttori si richiede di essere anche dei manager. Quali possono essere dal suo punto di vista le conseguenze di un tale cambiamento?
"Guardi cosa succede al Centre Pompidou, dove si è chiusa da poco una retrospettiva dedicata a Jeff Koons. La mostra è stata appaltata a privati. Duemila metri quadrati di esposizione per mettere in scena una buffoneria. Una buffoneria che prende però autorevolezza dalle collezioni del Beaubourg, che sono il vero patrimonio del museo, come l'oro conservato nei caveau delle banche. Sono Cézanne e Picasso a dare valore a Koons. I musei sono utilizzati come riserve auree per dar credito a operazioni di manipolazione finanziaria, forniscono quel deposito che dà pregio alle proposte del mercato privato. Quella di Koons è chiaramente un'operazione fraudolenta, un falso, una bolla speculativa. È quanto accade quando si preferiscono direttori manager. Come nel caso di Alain Seban, alla guida del Pompidou".

Ma per far funzionare il sistema museale servono soldi, dove trovarli?
"Il costo per mantenere un museo è ridicolo rispetto a quello della sanità o dei trasporti".

Al centro della riforma c'è l'idea di "valorizzazione"? Le piace?
"È un termine delle banche. Si valorizzano i soldi non le opere d'arte. Leggo che nei musei si apriranno ristoranti e bookshop. C'è bisogno di un manager per aprire un ristorante?"

Ha visitato la Biennale Arte?
"Tantissimi padiglioni da tutto il mondo, tutti uguali. Sono a Venezia da qualche settimana e quello che vedo mi spaventa. I musei sono molto frequentati, come le spiagge, ma non sono più frequentabili".

Come ridare significato all'arte?
"L'opera d'arte non significa più nulla, è autoreferenziale, un selfie perpetuo. I jihadisti dell'Is hanno decapitato l'archeologo Khaled Asaad. Da una parte abbiamo paesi che credono nell'arte al punto da uccidere e dall'altra pure operazioni di mercato".

Meglio tornare al passato?

"Non è possibile. Viviamo nel tempo dell'arte cloaca. Il museo è il punto finale di un'evoluzione sociale e culturale. È una catastrofe senza precedenti. Il crollo della nostra civiltà".

Il futuro del patrimonio culturale

Che cosa dobbiamo attenderci dalla riforma Franceschini


E’ quanto mai curioso che uno Stato decida di risolvere i problemi degli organi periferici dei propri Ministeri, mi riferisco alle Soprintendenze, non cercando di ridare ad esse nuova linfa - per esempio favorendo nuove assunzioni, razionalizzando le spese, migliorando gli strumenti a disposizione dei funzionari - ma, anzi, impoverendole ancora di più fino a esautorarle del tutto. Sarebbe stato forse più coraggioso decidere di eliminarle d’un sol colpo, ma evidentemente si vuole prima portare all’attenzione dei media quelle che vengono giudicate inefficienze (ma che la maggior parte delle volte sono da attribuire, appunto, alla mancanza di personale e di risorse) in modo da ingrossare le fila di coloro che sono contro le Soprintendenze.
In tal modo la loro eliminazione sarà vista da tutti come il giusto epilogo di una storia fatta di scarsa produttività e pastoie burocratiche. Recentemente Salvatore Settis si è espresso su questo punto affermando, a proposito del Ddl Madia e del recente mega concorso per la direzione dei venti più importanti musei italiani, che “se questa riforma ha al centro i musei – in particolare i venti scelti come più importanti – dall’altro lato impoverisce di personale le soprintendenze territoriali. Quelle di Roma, Firenze e Napoli hanno nove storici dell’arte in tutto: come faranno a tutelare l’immenso patrimonio a loro affidato? Il vero punto per capire se questo governo rispetterà l’articolo 9 della Costituzione è se verranno fatte nelle Soprintendenze territoriali le massicce assunzioni di cui c’è assolutamente bisogno. Di questo si parla troppo poco”.
Anche per Tomaso Montanari il Ddl Madia rappresenta il "più grave attacco al sistema della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale mai perpetrato da un Governo della Repubblica italiana perché un potere tecnico (quello delle soprintendenze, una sorta di magistratura del territorio e del patrimonio) che rispondeva solo alla legge, alla scienza e alla coscienza da oggi confluisce nel potere esecutivo. Se il governo vuol fare un’autostrada in un bosco secolare o in un centro storico, lo chiede a qualcuno che è diretto dai prefetti: cioè sostanzialmente a se stesso”.
A che cosa condurrà questa operazione di smantellamento delle Soprintendenze? C’è la percezione di ciò che ci aspetta in un prossimo futuro, anzi, domani stesso, data la velocità con cui si stanno mettendo in atto questi cambiamenti: già si parla dei Grandi progetti beni culturali approvato dal Consiglio superiore del Mibact. Una parte di questi progetti è indubbiamente buona, ma ciò che lascia perplessi, per esempio, sono i 18,5 milioni di euro per il Colosseo e che riguarderanno un intervento di tutela e valorizzazione volto al ripristino dell'arena al fine di consentirne un uso sostenibile per manifestazioni di altissimo livello culturale. I timori sono più che comprensibili, data l'importanza del monumento, anche se il Ministro Franceschini ha dichiarato che non si pensa “alle partite di calcio proposte dal presidente della Roma o ai concerti rock. Ci saranno solo eventi di altissima qualità”.
E’ evidente, in ogni caso, che stiamo assistendo ad una vera e propria corsa alla “valorizzazione”, alla famosa “messa a reddito” del nostro patrimonio culturale, non vista da tutti con simpatia. Andrea Emiliani, per esempio, grande studioso, a lungo soprintendente di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna, si è espresso piuttosto duramente riguardo gli ultimi avvenimenti. Gli è stato chiesto se avrebbe partecipato al mega concorso voluto da Franceschini ed ha così risposto: “No, perché credo nel vecchio concetto italiano di applicare la competenza al luogo dove l’esperto si è formato. Uno studioso di arte piemontese non può andare in Sicilia. Io, che ho studiato a Bologna, non me la sarei sentita di spostarmi a Roma o a Milano. Sa su cosa si basa tutta la manovra? Sul concetto, falso, idiota, che invero precede Renzi, di “valorizzazione”. Quando se ne parla, si esce dalla storia dell’arte e si entra nello spettacolo. Tutto nasce intorno al 1980 dal liberismo sfrenato di Reagan e della Thatcher. Il mondo si ribalta, e l’Europa va al traino. L’arte-spettacolo ignora la storia; il museo diventa un magazzino, dove si vanno a prendere pezzi per le mostre e li si fa viaggiare, in modo tale da distruggerli nel giro di 50 anni. Mandare Piero della Francesca a Tokyo non esiste! Che senso ha un’esposizione come quella organizzata da Goldin a Vicenza sui notturni da Tutankhamon a van Gogh? Contro l’operazione omologante del ministro si è rivoltato perfino Sgarbi, che è facinoroso ma persona intelligente».

Ascoltare le parole di un uomo di 84 anni che ha lavorato a lungo nelle Soprintendenze non può far male alla politica dei nostri giorni. 

Salvatore Settis commenta la scelta dei nuovi direttori dei venti più importanti musei nazionali italiani

L'articolo è tratto da La Repubblica, 19 agosto 2015


UNA CURA DA ELEFANTE


di SALVATORE SETTIS

PER la prima volta nella storia, in un Paese che per il patrimonio culturale non è tra gli ultimi, i direttori dei 20 più importanti musei nazionali vengono nominati in un sol colpo. Come se Le Monde scrivesse che un solo decreto ha nominato i direttori del Louvre e della Gare d'Orsay.
E anche del Centre Pompidou, del Museo di Cluny, dei musei di Lione, Marsiglia, Bordeaux, e così via. Ma notizie come questa non si leggeranno mai sulla stampa francese, o inglese, o tedesca. Perché, allora, questa cura da cavallo (o da elefante) sul corpaccione malato dei Beni culturali? E a quali malanni vuol rimediare questa terapia d'urto? Cinque sono le piaghe più spesso citate: l'accusa di "burocratizzazione", l'autoreferenzialità del sistema, la difficoltà di "valorizzare", la mancanza di fondi e la carenza di personale. Per carità di patria lasciamo perdere la burocrazia delle Soprintendenze, cara alle invettive lanciate da tanti sindaci (tra cui l'attuale presidente del Consiglio): la legge Madia vi "rimedia" ponendo i Soprintendenti agli ordini dei prefetti, e dunque ci rivela che gli storici dell'arte sono burocrati e i prefetti no. Ma gli altri problemi sono patate bollenti sul tavolo dei neonominati, e vale la pena chiedersi se la procedura d'eccezione seguita per le nomine è davvero la medicina adatta. Chi sostiene che un bando pubblico internazionale per la direzione di un museo sia una buona idea ha mille ragioni; ma di qui a fare venti procedure tutte insieme ce ne corre. Nessun dubbio che la commissione fosse di alto livello, dal presidente Paolo Baratta a Luca Giuliani (archeologo e rettore del Wissenschaftskolleg di Berlino) e Nicholas Penny (direttore uscente della National Gallery di Londra), a Claudia Ferrazzi (già vice- amministratore del Louvre) a Lorenzo Casini (giurista e consigliere del ministro). Ma è proprio sicuro che ogni candidato meritasse solo 15 minuti di colloquio?
Nonostante la retorica della "valorizzazione", quasi tutti i neodirettori non sono manager della cultura, ma storici dell'arte o archeologi (fa eccezione Mauro Felicori, assegnato a Caserta), con esperienze museografiche. Sette sono stranieri, ma neppure uno viene dalla direzione di un grande museo. C'è chi ha diretto musei piccoli o medi come quelli di Montargis (Sylvain Bellenger, che dirigerà Capodimonte), di Braunschweig (Cecilie Hollberg, ora alle Gallerie dell'Accademia di Firenze), di Linz (Peter Assmann, che passa al Ducale di Mantova), c'è chi ha lavorato nei musei, ma come curatore (come il neodirettore degli Uffizi Eike Schmidt, o Peter Aufreiter che dirigerà la galleria di Urbino), c'è chi non ha mai lavorato in un museo, come il più giovane di tutti, Gabriel Zuchtriegel (34 anni), a cui è stata assegnata Paestum; c'è, infine, chi viene dalla gestione di una fondazione privata in Italia (Palazzo Strozzi), come James Bradburne.
Anche fra gli italiani in rientro dall'estero nessuno ha diretto un museo, ma quasi tutti hanno esperienze curatoriali: così Martina Bagnoli, curatore a Baltimora e ora direttore dell'Estense a Modena; Flaminia Gennari, che da Miami passa alle Gallerie nazionali d'arte antica di Roma; Paola D'Agostino, che dalle collezioni universitarie di Yale passa al Bargello; mentre Eva degl'Innocenti, che lavora per una rete museale in Bretagna, dirigerà il Museo Nazionale di Taranto. La speranza che si candidassero direttori di musei di prima grandezza è andata delusa: non ha fatto domanda Gabriele Finaldi, appena approdato alla direzione della National Gallery di Londra, né Davide Gasparotto, che ha lasciato da pochi mesi la direzione della Galleria Estense per diventare Senior curator of paintings al Getty. Quanto agli italiani, delude non poco che, dei molti funzionari del MiBact che avevano fatto domanda, solo una (Anna Coliva, Galleria Borghese) sia stata "promossa": brutto segno per l'Amministrazione, bocciata quasi in blocco dalla commissione, anche quando, come agli Uffizi, erano in corso importanti progetti. Degli altri, molti vengono dalla direzione di musei regionali o comunali: così Cristiana Collu (già al Mart di Rovereto, ora alla Gam di Roma), Enrica Pagella (dai musei civici di Torino al Polo reale della stessa città), Paola Marini (dai civici musei di Verona all'Accademia di Venezia), Marco Pierini (da Pienza alla galleria di Perugia), Paolo Giulierini (che dal minuscolo museo di Cortona passa a dirigere il più grande museo archeologico del mondo, quello di Napoli), Serena Bertolucci, da Villa Carlotta al Palazzo Reale di Genova; mentre il neodirettore del Museo Nazionale di Reggio Calabria, Carmelo Malacrino, è ricercatore universitario nella stessa Reggio.
Ai neodirettori (età media 50 anni) bisogna per principio far credito. Certo, però, un grande museo non è la stessa cosa di uno piccolo, né chi è stato curatore sarà necessariamente un buon direttore. E sarebbe pia illusione credere che queste nomine aprano davvero una nuova stagione. I neodirettori hanno davanti una mission impossible: rinnovare un sistema sclerotizzato non dalla burocrazia, ma dalla carenza di personale (per il pluridecennale blocco delle assunzioni) e dall'insufficienza dei fondi (ai terribili tagli del 2008, allora deplorati dalla sinistra, nessuno ha mai posto rimedio).
È in questa lunga paralisi (più simile allo sterminio che all'eutanasia) che i musei italiani rischiano di esternalizzare il loro core business, la conoscenza e la ricerca: senza la quale non c'è tutela, ma non c'è nemmeno la decantata "valorizzazione". Perché valorizzare quel che non si conosce non si può: e una vera conoscenza/ tutela/valorizzazione non si fa solo nei musei, ma sul territorio, mentre oggi le Soprintendenze territoriali sono depauperate di risorse e di personale. I neodirettori sono, è vero, nuova linfa immessa nell'esangue ministero: ma senza massicce nuove assunzioni, nuovi fondi e un rinnovato legame con il territorio non resterà a loro (e al ministro) se non intonare le parole della Regina di Cuori ad Alice: «Ora, vedi, devi correre avanti più che puoi, per restare nello stesso posto».
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Sullo stesso argomento: 
http://museumsnewspaper.blogspot.it/2015/08/i-nuovi-direttori-dei-venti-grandi.html

I nuovi direttori dei venti grandi musei italiani: dubbi e perplessità.

Un concorso è il modo più appropriato per scegliere i direttori dei grandi musei?

Il Ministro Dario Franceschini
Foto tratta da http://www.quicosenza.it/news/calabria/48385-musei-ecco-i-20-nomi-dei-nuovi-direttori-carmelo-malacrino-a-reggio-calabria

In Italia la procedura del concorso per l’accesso ai pubblici incarichi è talmente radicata che si potrebbe dire che siamo una repubblica fondata sui concorsi. Questi metodi di selezione, così cari a un sistema altamente burocratizzato, dovrebbero consentire la selezione dei candidati migliori in base al possesso di requisiti predefiniti, al superamento di varie prove e al giudizio finale di una commissione. Intorno ai concorsi, però, si scatenano spesso un’infinità di polemiche: sono sempre affidabili? Sono facilmente manovrabili?
Resta il fatto che, nonostante tutto, continua ad essere una procedura largamente diffusa e non si può sempre mettere in dubbio la sua efficacia come strumento di selezione.
In queste ore si è dato grande rilievo all’esito del concorso per la selezione dei direttori di venti grandi musei italiani. Il Ministro Dario Franceschini ha presentato la procedura come una “innovazione”, uno “svecchiamento” del precedente sistema. In realtà non è chiaro per quale motivo il fatto di aver scelto i direttori tramite un concorso pubblico e internazionale possa rivoluzionare i sistemi di gestione dei nostri musei. Inserire il “nuovo”, cioè i direttori di fresca nomina, in un sistema “vecchio”, a mio parere non sembra essere un’idea eccellente. Si può costruire una casa iniziando dal tetto? Impossibile. Eppure questo, in pratica, è ciò che si sta facendo.  
Ma ci sono altre ragioni per le quali ritengo che un concorso non sia il mezzo più adatto per l’affidamento della direzione di un grande museo. Questi musei fanno parte del patrimonio culturale della nazione e per tale ragione la loro gestione deve far capo a figure istituzionali alle quali dovrebbe spettare anche la responsabilità diretta della scelta dei direttori. 

E’ quanto avviene, per esempio, nei più grandi musei d’Europa: il direttore del British Museum, sovvenzionato dal Dipartimento della Cultura britannico, è gestito da un consiglio di amministrazione formato da 25 membri. In base al British Museum Act del 1963 i 25 fiduciari che gestiscono il museo sono nominati: uno da Sua Maestà, ben quindici dal Primo Ministro, quattro dal Segretario di Stato e cinque dagli Amministratori del British Museum. Il Consiglio è responsabile della gestione generale del museo e della nomina diretta del direttore con l’approvazione del Primo Ministro.
Analogamente al British Museum, anche il direttore del Louvre viene scelto dal Consiglio dei Ministri e così pure il direttore del Prado.

Sono d’accordo con Vittorio Sgarbi, pertanto, che ha dichiarato che “nomine di questo tipo e di questa importanza, un ministro dei Beni culturali le fa in prima persona, assumendosene la responsabilità”.  Inoltre - mi permetto di aggiungere - uno studioso di chiara fama non ha bisogno di superare un esame. Il suo prestigio è tale che nessuno può metterlo in discussione. Per questo ritengo che un concorso, in questo caso, sia inappropriato: non stiamo parlando di un impiego qualunque ma di un incarico di alta responsabilità che può essere affidato solo a professionisti la cui carriera sia di per sé garanzia di seria affidabilità.

Non è il curriculum dei direttori, quindi, che deve essere esaminato, dato che su quello non ci dovrebbero essere dubbi, ma il loro operato, quello sì, deve essere sottoposto periodicamente al vaglio di una commissione che analizzi accuratamente i risultati ottenuti, le difficoltà riscontrate e le cause che le hanno determinate. Se un professionista, per quanto valente studioso, non è riuscito a ottenere dei risultati concreti nell'arco di due o tre anni, sembra inutile continuare ad erogargli uno stipendio. Se, invece, si appurerà che le cause dell'insuccesso sono imputabili al sistema in cui è costretto ad operare, si cercherà di apportare le necessarie innovazioni e riorganizzazioni. Nel caso del recente concorso, invece, tutto ruota intorno ai curricula dei prescelti e nulla è stato ancora detto a proposito dei metodi di valutazione del loro futuro operato, anche se il Ministro Franceschini lo scorso anno aveva dichiarato di voler introdurre nuovi e più rigidi criteri di valutazione dell'operato dei musei che tengano conto non solo del numero dei visitatori (finalmente!) ma anche del lavoro e della ricerca svolti. 

Intanto, come accade in ogni concorso, fioccano le polemiche non solo sul reale prestigio internazionale dei nuovi incaricati ma, in alcuni casi, perfino sul possesso di adeguate competenze. Si è fatto notare che al Museo Archeologico Nazionale di Taranto è stata nominata una medievista, mentre a Reggio Calabria anziché un archeologo sarebbe stato scelto un architetto. Ci sono dubbi anche sull’esclusione di figure autorevoli: nel caso del Parco archeologico di Paestum sarebbe stata esclusa una delle candidate più qualificate, Maria Paola Guidobaldi, con al suo attivo una lunga esperienza negli scavi di Ercolano; ad essa è stato preferito il tedesco Gabriel Zuchtriegel, 34 anni, che a detta di alcuni non avrebbe ancora maturato, invece, un’adeguata esperienza.

Personalmente non posso giudicare le competenze e il prestigio professionale di questi studiosi, ma non resta che attenderli al banco di prova. Come ha affermato Philippe Daverio, “La complessità del sistema italiano richiede esperienza. E il successo di molti musei si basa sulla capacità di attrarre denaro. Un direttore non ha la facoltà di cambiare le leggi e, parlando dei dipendenti, deve riuscire a dialogare con il sindacato. Prendiamo Eike Schmidt, scelto per le Gallerie degli Uffizi: proprio in quella istituzione l'80% del lavoro di un direttore è di tipo amministrativo-burocratico e soltanto il 20% è creatività. Il ministero si rende conto di questo elemento?” Un bravo direttore può fare molto per rendere un museo più efficiente e più attrattivo nei confronti del pubblico, ma non può farlo da solo; c’è bisogno del supporto delle Istituzioni. Se il vecchio sistema continuerà ad esistere, difficilmente il cambiamento potrà realmente avvenire, ma non voglio essere pessimista fin dal principio. Vedremo ciò che avverrà già dai prossimi mesi. 


Concludo con l’amaro commento dell’ex direttore degli Uffizi di Firenze, Antonio Natali, ottimo professionista e valente studioso stimato a livello internazionale. E’ risultato tra i dieci ammessi agli orali (sì, esattamente come uno studente di primo pelo) ma è stato scelto, come già accennato, il tedesco Eike Schmidt, proveniente, negli ultimi anni, dal Dipartimento di sculture e arti decorative del J. Paul Getty Museum di Los Angeles e dal Sotheby’s di Londra dove ha svolto il ruolo di direttore e capo del dipartimento scultura e arti applicate europee.  
Ha dichiarato Natali: «Un Paese che dice di voler cambiare non poteva permettersi di dire che restava il vecchio direttore. L’amarezza l’ho avuta quando ho capito quale era il copione».

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