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Re-imagining museums for a changing world

L'immagine è tratta dal sito arthistorynews.com


I musei possono svolgere e sempre più speso svolgono un ruolo significativo nella lotta contro l'esclusione sociale. In collaborazione con le istituzioni o con altri agenti sociali, le “outreach activities” hanno aperto la strada per l’utilizzo della cultura come strumento di mediazione nell’ambito delle proprie comunità di riferimento. Alcuni obietteranno: “perché i musei dovrebbero svolgere un compito che storicamente è sempre spettato a soggetti istituzionali o religiosi?”. Questa osservazione nasce da una concezione del ruolo dei professionisti museali influenzata da una visione tradizionalista. L’immagine del curatore resta per molti, infatti, unicamente quella dello studioso e del custode delle collezioni. Solo da poco, anche all'interno della stessa comunità professionale, si sta affermando la consapevolezza che la funzione dei curatore sia molto più ampia di quanto non lo sia stata in passato e che debba uscire dai suoi confini tradizionali creando opportunità di attività esterne, anche extra-muros, a favore società.

I problemi nascono soprattutto quando bisogna cercare i finanziamenti per queste iniziative che certamente non producono benefici economici ma ne producono innumerevoli dal punto di vista sociale. Purtroppo, però, i finanziatori raramente valutano le attività sociali dei musei e il loro rapporto con le fasce emarginate delle comunità così necessarie e  vitali per i musei stessi.
Eppure, riuscire a costruire  relazioni a lungo termine con gli immigrati, i senzatetto o con le altre fasce deboli della cittadinanza non è certamente meno essenziale della creazione di un evento di successo.
Un esempio è il lavoro che alcuni musei britannici stanno facendo per i senzatetto in varie località del Paese. Tra questi, il Museo Holbourne di Bath, che svolge corsi d'arte settimanali per uomini e donne senza fissa dimora da almeno sei anni; il Museum of London, che organizza programmi mensili rivolti alle fasce vulnerabili della cittadinanza, compresi i senzatetto. E poi il progetto “Out in the Open” del  Colchester & Ipswich Museums, quello denominato “Outside In” della Pallant House Gallery, a Chichester oppure l’”Happy Museum project” del London Transport Museum.
La sostenibilità, intesa in senso sociale, cioè la creazione di relazioni di comunicazione, è al centro di tutte queste iniziative. Le relazioni richiedono tempo per svilupparsi e la fiducia non può essere acquisita nello spazio di poche ore, ma è anche molto facile che i risultati raggiunti svaniscano se i progetti non fanno parte dell’impostazione mentale di un'organizzazione museale e, quindi, se non trovano terreno fertile, dedizione costante e impegno da parte dei responsabili dei musei. 
I vantaggi, però, sono molto evidenti. Le attività outreach e le opportunità di volontariato possono aiutare i senzatetto ad acquisire nuove competenze e più fiducia in se stessi e nel prossimo, e trovare, così, un modo per tornare ad integrarsi nella società. Si è sperimentato con successo che gli individui che sono così spesso ignorati nella cultura dominante, a cui è negato l'accesso alla cultura, l’uso della creatività e anche il lavoro, ottengono da queste attività enormi vantaggi e la possibilità di avviarsi concretamente verso un cambiamento positivo della loro vita. 
Forse i musei che hanno instaurato questo rapporto con gli emarginati non sono diventati economicamente più ricchi, ma lo sono diventati sicuramente molto di più in senso professionale ed etico.

OLTRE LE MURA

di Caterina Pisu





Nessun museo può limitare i confini della missione di cui è depositario al perimetro delle mura del proprio edificio. Oltre alla conservazione delle collezioni è di vitale importanza conoscere bene il proprio territorio, capire quali realtà convivono con la propria e cercare di interagire con esse. E se un territorio, che si tratti di quello di una grande città o di un piccolo centro, ospita un carcere, chi è responsabile di un museo non può ignorare questa presenza, al cui interno vive una comunità che non deve essere trascurata.
Il Louvre è stato il primo museo al mondo ad aver stipulato, nel 2011, una convenzione con un carcere, nello specifico con l'amministrazione penitenziaria del Carcere di Poissy, a Parigi, che ospita 230 detenuti, di cui l’80% condannato a più di 20 anni di reclusione. 
Il progetto, denominato "Au-delà des murs", aveva permesso a 10 detenuti di partecipare alla creazione di una mostra di 10 riproduzioni di opere esposte nel Museo del Louvre, con l'obiettivo di portare l'arte all'interno del carcere, solitamente escluso dalle manifestazioni culturali pubbliche.  
Il rapporto del Louvre con le carceri risale già al 2007: fino ad oggi sono state organizzate più di 120 attività cui hanno preso parte professionisti del settore culturale. Nel caso del progetto "Au-delà des murs", che ha rafforzato l'impegno del Louvre per le attività sociali e culturali nelle carceri, ogni detenuto che ha preso parte al progetto ha scelto autonomamente il proprio modo di contribuire alla realizzazione della mostra, dedicandosi alla pittura, alla progettazione grafica o ai testi, ma lavorando sempre avendo come punto di partenza le opere visionabili nel catalogo del Museo, tra le quali i curatori del Louvre hanno preventivamente scelto 26 opere. 
I volontari sono stati scelti non per le loro capacità artistiche ma per la forte motivazione interiore che hanno dimostrato.
La mostra ha avuto la supervisione dello scrittore Luc Lang, membro della Maison des écrivains et de la littérature, e dell'architetto-scenografo Philippe Maffre (che ha già collaborato con il Louvre e che ha realizzato lo storyboard della mostra) i quali hanno lavorato al progetto con il gruppo di detenuti, con il personale del carcere e con quello del Louvre. 

Per circa sei mesi il cortile dell'istituto penitenziario ha ospitato l'esposizione delle riproduzioni realizzate dai detenuti mentre il Louvre esponeva, nello stesso tempo, una "mostra-specchio" con le copie delle stesse opere. Il cortile è stato scelto come spazio espositivo non perché non si disponesse di altre soluzioni, ma perché, in questo modo, tutti i detenuti, ogni giorno, avrebbero potuto osservare quelle opere e trarne un beneficio.
L'iniziativa ha suscitato grande emozione non solo nell'ambito della comunità carceraria e dello staff di curatori e collaboratori del Louvre, ma anche dell'intera cittadinanza parigina. 
Iniziative analoghe sono state proposte, successivamente, anche dalla National Gallery di Londra, ma per ora il Louvre resta l'unico museo ad aver trasformato i detenuti non solo in artisti ma anche in curatori.

Il caso dell’Art Institute of Chicago: fuori tutti i volontari bianchi dal museo

Fonte dell'immagine: The Federalist Negli Stati Uniti, presso l’Art Institute of Chicago (AIC) si è aperto un caso che potrebbe essere d...