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L'illusione degli ecomusei

Nel precedente post si è fatto cenno agli ecomusei e al loro particolare legame con la comunità. In questo articolo di Giovanni Pinna, direttore della rivista Nuova Museologia, tratto da n. 30 di Nuova Museologia, Giugno 2014 (www.nuovamuseologia.it), si approfondisce questa tematica evidenziando come spesso i progetti di ecomuseo esistenti si allontanino, invece, dai principi che sono stati formulati dai loro creatori e che, a loro volta, questi concetti - originariamente e nel loro evolversi - non siano mai stati disgiunti da forti ideologie politiche.
Si potrà mai parlare di una cultura veramente libera dalle influenze politiche? Il Modello della Red de Museos Municipales de los pueblos sperimentata in Argentina, può essere una valida alternativa agli ecomusei?


Che cosa penso degli ecomusei italiani


In un Paese in cui il potere politico si mantiene attraverso l’iper-burocratizzazione centralizzante è impensabile che possa essere lasciato alle singole comunità il diritto di gestire autonomamente le proprie memorie storiche e sociali. Il processo di controllo politico e sociale è evidente soprattutto nella burocratizzazione delle microstrutture museali locali - denominate spesso erroneamente ecomusei - realizzata attraverso il ricatto economico, imponendo cioè un certo tipo di organizzazione attraverso normative collegate alla erogazione di contributi pubblici.
Riporto qui di seguito due testi scritti anni addietro nei quali ponevo l’accento di come la politica di centralizzazione burocratica, attuata soprattutto a livello regionale, snaturi il ruolo delle comunità e le allontani dalla gestione del proprio patrimonio, tenda a omogeneizzare la culture locali e renda così del tutto improponibile il nome di ecomuseo che le amministrazioni pubbliche si ostinano ad attribuire alle piccole raccolte di me-morie storiche e sociali locali.

L’ecomuseo


(Estratto da Fondamenti teorici per un museo di storia naturale, Giovanni Pinna, Jaca Book, Milano, 1997)


Jean Clair sostiene che le prime idee di quella che diventerà l’ecomuseologia furono elaborate da Georges Henri Rivière nel 1936, come estensione dell’idea dei musei del folklore open-air, soprattutto di modello scandinavo, costruiti con l’intento di conservare le tradizioni popolari, e narra che lo stesso Rivière mise a punto la teoria dell’ecomuseo agli inizi degli anni Cinquanta, giungendo alla prima realizzazione pratica negli anni Sessanta.

[...] Nella mente di George Henri Rivière, di Jean Clair, di Hugues De Varine, l’ecomuseo doveva essere una struttura con forte incidenza sociale. Essa fu definita da De Varine “un’istituzione che gestisce, studia, esplora a fini scientifici, educativi e culturali in genere, il patrimonio globale di una certa comunità, comprendente la totalità dell’ambiente naturale e culturale di questa comunità”. Nella concezione originale, l’ecomuseo non era altro che la musealizzazione attiva del territorio di una comunità urbana o rurale, della comunità stessa, del suo ambiente naturale e culturale, delle sue tradizioni: attraverso la musealizzazione attiva, gestita e condotta direttamente dai membri della comunità, e cioè attraverso l’ecomuseo, strumento di conoscenza e di studio del territorio, della cultura e delle tradizioni della comunità, la comunità prendeva coscienza di se stessa, assumendo in proprio la responsabilità del suo sviluppo.
In questo senso va la definizione di ecomuseo, teorica e sotto molti aspetti velleitaria, proposta da Rivière come sintesi di una lunga elaborazione a più mani.
“Un ecomuseo è uno strumento che un potere e una popolazione concepiscono, fabbricano e esplorano assieme. Questo potere, con gli esperti, le agevolazioni, le risorse che fornisce. Questa popolazione, secondo le proprie aspirazioni, con le sue culture, con le sue capacità di accesso.

Uno specchio in cui questa popolazione si guarda, per riconoscersi, in cui essa cerca la spiegazione del territorio al quale appartiene, assieme a quelle popolazioni che l’hanno preceduta, nella discontinuità o nella continuità delle generazioni. Uno specchio che questa popolazione offre ai suoi ospiti, per farsi meglio comprendere, nel rispetto del suo lavoro, dei suoi comportamenti, della sua intimità.

Un’espressione dell’uomo e della natura. L’uomo vi è interpretato nel suo ambiente naturale. La natura lo è nel suo stato selvaggio, ma anche nella forma in cui la società tradizionale e la società industriale l’hanno adattata a loro immagine.

Un’espressione del tempo, quando la spiegazione risale al di qua del tempo in cui l’uomo è apparso, si svolge attraverso i tempi preistorici e storici che egli ha vissuto, sbocca nel tempo che egli sta vivendo. Con un’apertura sui tempi di domani, senza che, tuttavia, l’ecomuseo si ponga come elemento decisionale, ma all’occorrenza, giochi un ruolo d’informazione e di analisi.
Un’interpretazione dello spazio. Di spazi privilegiati, ove sostare o passeggiare.

Un laboratorio, nella misura in cui contribuisce allo studio storico e contemporaneo di questa popolazione e del suo ambiente e favorisce la formazione di specialisti in questo settore, in collaborazione con le organizzazioni di ricerca esterne.

Un luogo di conservazione, nella misura in cui aiuta alla conservazione e alla valorizzazione del patrimonio naturale e culturale di questa popolazione.

Una scuola, nella misura in cui associa questa popolazione alle sue azioni di studio e di protezione, o nella misura in cui la incita a meglio comprendere i problemi del suo avvenire.

Questo laboratorio, questo luogo di conservazione, questa scuola si ispirano a principi comuni.
La cultura che essi rivendicano deve intendersi nel suo senso più ampio, e essi si applicano per farne conoscere la dignità e l’espressione artistica, da qualsiasi strato della popolazione provengano le rinvendicazioni. La diversità è senza limite, tanto diversi sono i dati da un campione all’altro. Essi non si richiudono in se stessi, ma ricevono e danno.”

Questa funzione sociale dell’ecomuseo, di per se stessa lodevole, sottintendeva però una precisa ideologia politica, e diveniva così, fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, la risposta popolare e progressista alla museologia borghese delle grandi istituzioni francesi. L’ecomuseo era, di fatto, sia il popolo stesso, sia lo strumento per il controllo popolare del territorio, lo strumento per proteggere, e quindi conservare, l’ambiente naturale, le tradizioni e la cultura di una certa comunità messe in pericolo dal capitalismo selvaggio e dalla legge del profitto.

Tutto ciò è evidente negli scritti sull’ecomuseo degli anni Settanta. “Per andare al fondo delle cose – ha scritto per esempio De Varine – si può concludere che bisogna mettere in discussione il concetto di proprietà individuale. Certo, il solo istituire un ecomuseo non sopprime il diritto di proprietà che ogni membro della comunità mantiene. Il diritto di uso e di godimento resta intatto e non è il caso di utilizzare procedure quali l’esproprio o la confisca con l’unico pretesto che un individuo possiede un bene di cui l’ecomuseo ha bisogno! Nondimeno rimane il fatto che dalle considerazioni sul patrimonio della comunità che precedono deriva l’esistenza di fatto e il riconoscimento progressivo di un diritto morale della collettività su ciascun elemento del proprio patrimonio.”

Ma come dovrebbe funzionare un ecomuseo? De Varine, Rivière e gli altri teorici di questa istituzione hanno formulato tutta una serie di norme, che, nel loro entrare nei minimi particolari, raggiungono altissime vette burocratiche. Essi hanno ipotizzato ogni finalità, ogni meccanismo di gestione, hanno ipotizzato ogni procedura attraverso cui la comunità dovrebbe partecipare alla gestione dell’ecomuseo. Questa verrebbe affidata a comitati composti da delegati di gruppi spontanei o delle varie categorie che costituiscono la comunità, ovvero dai rappresentanti eletti della comunità, affiancati da tecnici o “consiglieri” che non avrebbero teoricamente il diritto né di proporre, né di decidere. Questo in teoria! Ma in pratica molti scritti inducono a pensare che l’ecomuseo non sarebbe in realtà guidato direttamente dalla comunità, ma, secondo una prassi politica ben consolidata, dall’azione di tipo missionario dei consiglieri, che diverrebbero così gli strumenti di un potere superiore per l’indottrinamento della comunità, o, se preferite una frase meno brutale (ma di identico significato), per convogliare in una precisa direzione lo sviluppo della comunità stessa.
L’ecomuseo, museo totalizzante, che ingloba e indirizza il pensiero di ogni individuo della comunità, che espropria moralmente i beni di ciascuno, condizionandone di fatto l’uso quotidiano, che cristallizza la vita quotidiana della comunità, appare come un mostro tentacolare in grado di spiare l’intimità di ogni individuo. Io non so se De Varine, Rivière e gli altri si sono resi conto di ipotizzare un mostro degno di Orwell, ma mi confortano due fatti: che l’ecomuseo come da essi ipotizzato non ha avuto molta fortuna sul piano pratico, e che essi stessi si sono accorti che la critica maggiore alla loro costruzione teorico-politica è stata che si trattava di pura utopia: “Una delle critiche che più spesso sono state indirizzate ai sostenitori dell’ecomuseo – ha scritto De Varine – si riassume in una parola: utopia. Ciò che dà consistenza a questo attacco è il carattere spesso teorico e esageratamente ottimista della descrizione dell’istituzione, in confronto alla relativa mediocrità dei risultati ottenuti fino ad oggi dagli ecomusei esistenti. Secondo la maggior parte degli osservatori, quello di Landes non è altro che un museo all’aperto migliorato; quello di Creusot è per essi solo un amalgama di attività e di esposizioni tradizionali all’interno di una struttura vaga e solo potenzialmente realizzata.”

L’insuccesso dell’ecomuseo, il suo trasformarsi di fatto in una struttura museale tradizionale, come De Varine notava nelle righe precedenti riferendosi alla Comunità Urbana di Creusot-Mon-ceau-les-Mines, dimostrano non solo la difficoltà della realizzazione pratica dell’utopia politico-sociale ecomuseologica, ma anche la forza del museo tradizionale in quanto struttura delegata dalla comunità alla conservazione del proprio patrimonio e quindi appartenente alla comunità, anche se non direttamente da essa gestita.

Come ho affermato con decisione nel corso di questo volume, il museo tradizionale è una struttura socialmente forte, ed è quindi inevitabile che ogni forma di partecipazione di una comunità alla gestione del proprio patrimonio si concretizzi alla fine, prima o poi, in una struttura museale che colleziona, studia e espone il patrimonio della comunità in modo tradizionale.

  
Intervento di Giovanni Pinna, Presidente dell’ICOM Italia, al convegno “Presente e futuro dell’ecomuseo”
(Sala conferenze IRES Piemonte, Torino, 16 maggio 2003)


Io non sono uno specialista in ecomusei, sebbene abbia studiato, almeno nelle grandi linee, la nascita e lo sviluppo del concetto di ecomuseo, dal dibattito che si era impostato prima del secondo conflitto mondiale, alle teorizzazioni e alle realizzazioni avvenute soprattutto in Francia fra il 1968 e il 1974, allo sviluppo quasi contemporaneo di un altro tipo di “ecomuseo”, quei neighborhood museums il cui modello principale rimane ancora il centro creato da John Kinard nel 1967 nel quartiere di Anacostia a Washington. Vorrei però ricordare in questa occasione che in un certo qual modo io stesso sono stato un precursore dell’ecomuseologia italiana, quando, da conservatore del Museo di Storia Naturale di Milano, fui sollecitato dai cittadini del paese di Besano a costruire con loro nel loro villaggio un piccolo museo dei fossili. Il villaggio di Besano, situato in provincia di Varese non lontano dalle sponde meridionali del Lago di Lugano, è noto perché nel suo territorio montuoso si apre un celebre giacimento paleontologico. Come documentai in un articolo apparso sulla rivista “Museum” nel 1976 (Création d’un musée des fossiles. Besano. Une initiative de la population, Museum, vol. 28, Paris, 1976), all’inizio degli anni Settanta i cittadini di Besano si erano convinti dell’importanza di quel giacimento, e vollero quindi che un piccolo museo fosse costruito nel loro villaggio. Questa semplice operazione museale condusse alla nascita di un vero e proprio ecomuseo, per il fatto che i cittadini non solo costruirono e iniziarono a gestire il loro museo, ma in qualche misura furono i promotori di nuove ricerche sul giacimento. Essi si offrirono volontari per riprendere gli scavi paleontologici e per difendere la zona dagli scavatori abusivi, impadronendosi così di un patrimonio culturale del loro territorio che per la prima volta sentirono veramente proprio. Il risultato è che il museo – oggi divenuto assai più ampio – è ancora aperto al pubblico e costituisce un punto di richiamo per visite turistiche e scolastiche, mentre gli scavi procedono ancora, fornendo ogni anno alla scienza materiali fossili di grande importanza[1]. L’interesse che alcune amministrazioni pubbliche italiane dimostrano nei confronti di istituzioni museali locali, cui viene attribuito il nome di ecomusei, e che in linea generale sembra concretizzarsi nella ricerca di un’organizzazione “a rete o a sistema” di tali istituzioni e di una normativa che determini la struttura organizzativa delle singole entità museali, fa sorgere in me due interrogativi:

•          è possibile che ecomusei, e cioè microstrutture museali che dovrebbero nascere spontaneamente dalla volontà delle comunità locali ed essere gestiti direttamente da queste comunità, senza intermediari, vengano organizzate da strutture politico-amministrative che prevedono una centralizzazione dei poteri decisionali, regioni, comunità montane o province?

•          è possibile che l’attività di questi ecomusei venga in qualche modo normata attraverso l’adozione di standard museali validi per tutti, dal momento che una loro caratteristica dovrebbe essere la diversità nei contenuti e nella gestione? Il concetto di ecomuseo è strettamente collegato alle idee di territorio e di identità, nel senso che l’ecomuseo è per una comunità il luogo della sua memoria, è il luogo in cui questa memoria viene conservata e interpretata dalla comunità stessa, senza intermediari. Se questo è l’ecomuseo, allora è chiaro che la diversità è una sua caratteristica intrinseca, e che l’organizzazione di un insieme di ecomusei di una data regione in un sistema creato, anche se non imposto, da un potere centrale non può non influire sulla diversità e quindi sulla natura e sul significato stesso dell’ecomuseo. L’organizzazione in sistema delle strutture museali da parte delle amministrazioni pubbliche è un’azione assai delicata, poiché rischia di scivolare verso la creazione di strutture di gestione autocratiche. Basta solo che la partecipazione a una rete organizzata (e normata) da un ente pubblico preveda per i partecipanti l’accesso a finanziamenti pubblici per creare le premesse per una centralizzazione del sistema decisionale.
Nella stessa direzione va l’ipotesi di proporre anche per gli ecomusei, come è stato fatto per la generalità dei musei italiani, standard di organizzazione e di gestione. Che lo si voglia o no, l’imposizione di standard conduce inevitabilmente alla omogeneizzazione, che contrasta con l’idea stessa di ecomuseo, in quanto organismo legato alle intime realtà territoriali. Ciò soprattutto se gli standard proposti non si limitano a suggerire le necessità primarie di un museo, ma entrano nell’intimo di ogni porzione dell’organizzazione della struttura museale e suggeriscono, o impongono, le azioni di gestione nei minimi dettagli. Questo è, a mio parere, il principale difetto degli ormai famosi “Atti di indirizzo” che costituiscono un pregevole trattatello di museologia, ma che non sono, come pretendono di essere, standard applicabili.

Analizzando per conto del governo delle Asturie il problema delle reti e dei sistemi museali (Redes y sistemas museisticos, introduzione al progetto della rete dei musei delle Asturie, maggio 2002), ho potuto notare come la tendenza delle amministrazioni vada verso la creazione di “sistemi” nei quali il potere decisionale non rimane ai singoli partecipanti al sistema, ma viene assunto dall’ente organizzatore del sistema. Sebbene venga dichiarato che tali sistemi di musei sono realizzati per l’ottimizzazione delle risorse (che si realizza per esempio con il mettere in comune alcuni servizi), in realtà nella maggior parte dei casi essi corrispondono a una logica di potere e di controllo, o vengono creati per sviluppare politiche culturali o per controllare interessi territoriali (sempre in campo politico-culturale).

Infine un’ultima annotazione sul delicato rapporto fra identità e alterità. L’ecomuseo è lo scrigno e la forgia della memoria di una comunità, e come tale è il luogo di conservazione della sua identità. Gli ecomusei tendono quindi, per loro stessa natura, a enfatizzare le identità delle comunità, un processo che include la consapevolezza della “diversità”, e il confronto con “l’altro”, colui che non condivide la mia stessa identità comunitaria. In questo senso gli ecomusei possono essere strumenti di esclusione e veicoli di rifiuto. E anche potenti strumenti politici, come ci insegna la gestione degli Heimatmuseen tedeschi negli anni del nazismo. Anche per questo seguo con apprensione la crescita di interesse di alcune amministrazioni pubbliche per i micro-musei locali e le ampie risorse che su di essi vengono riversate, e ricordo che André Desvallées ha scritto, parlando di quelli che egli chiama “musei di identità”, che essi “non devono mostrare mai le differenze senza mostrare anche le somiglianze” (1994).




[1] L’affidamento della gestione del museo a un’impresa commerciale dopo la metà degli anni Novanta ha trasformato lo spirito e la natura del museo allontanando così i cittadini di Besano dal museo e sottraendo loro il possesso morale del patrimonio.

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