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Musei accoglienti verso i disabili

Uno sguardo oltreoceano: dal Met ai piccoli musei del North Carolina e della Florida
Di seguito riporto la traduzione di un articolo pubblicato nell'ottobre del 2013 sul New York Times. E' interessante scoprire che l'attenzione per i visitatori disabili per alcuni musei americani è una tradizione che dura ormai da un secolo. Inoltre non solo i grandi musei, ma anche i piccoli musei sono attenti a rivolgersi a tutto il pubblico, sia ai disabili che possono recarsi in visita al museo ma anche a coloro che non possono farlo, raggiungendoli con attività di outreach.  
In un recente venerdì sera, il Metropolitan Museum of Art di New York ha organizzato la sua prima mostra pubblica di opere originali create nell’ambito del progetto «Seeing ThroughDrawing». I partecipanti, tutti ciechi o ipovedenti, hanno creato le opere ispirandosi agli oggetti della collezione del museo che sono stati descritti loro da istruttori vedenti e che sono anche stati autorizzati a toccare.
Annie Leist, left, a volunteer at Boston’s Museum of Fine Arts, 
guides Mercedes Austin, 17.
     (Photo Bryce Vickmark for The New York Times)
In un’altra galleria, un tour nel linguaggio dei segni è stato seguito da un gruppo di visitatori non udenti. E in certi venerdì, le nuove “installazioni multisensoriali” accolgono tutti i visitatori, compresi quelli con vari tipi di disabilità – per sperimentare le mostre attraverso l’olfatto, il tatto, la musica, le immagini verbali o la descrizione degli oggetti da parte di persone con disabilità visiva.
Il Met ha una lunga storia di attenzione e cura verso le persone con disabilità ", ha detto Rebecca McGinnis, che supervisiona i programmi di accesso e di comunità. Già nel 1908, il museo forniva una "sedia a rotelle" alle persone con problemi di mobilità, e nel 1913 teneva lezioni per i bambini non vedenti delle scuole pubbliche.
Students at the Metropolitan Museum in New York in 1922.
(Photo Metropolitan Museum of Art).        
Oggi il Met organizza programmi per persone con disabilità quasi ogni giorno.
Non solo il Met, ma in generale sono in notevole aumento i musei che si sforzano di orientare i propri programmi culturali verso questa direzione. Nel 2010, circa 56,7 milioni di persone, ovvero il 18,7 per cento della popolazione, è stata colpita da disabilità di gravità variabile, secondo il Census Bureau. E il numero di disabili americani dovrebbe aumentare nei prossimi anni a causa dell'invecchiamento della popolazione e quindi della maggiore longevità, cui si deve aggiungere un certo numero di casi con difficoltà nell’apprendimento – è stato specificato dall'organizzazione di Open Doors, un gruppo no-profit di Chicago al servizio delle persone disabili.
"Anche i progettisti dei musei usano grande fantasia, molto più di quanto richiesto dalla normativa, e realizzano cose notevoli", ha detto Lex Frieden, professore presso l'Università del Texas Health Science Center di Houston e direttore di uno dei centri regionali che favorisce la conformità dei progetti con l'Americans with Disabilities Act del 1990.
Frieden, che nel 1967 ha subito una lesione al midollo spinale dopo un incidente stradale che lo ha reso tetraplegico, ha detto che i musei si sono assunti l’impegno a favorire l'accessibilità dei disabili ancora prima della legge americana del 1990 e della legislazione federale. “La Smithsonian Institution è da tempo leader nel settore; le sue linee guida per l’accessibilità degli allestimenti museali sono utilizzate a livello globale” - ha affermato Frieden.
“I primi espedienti per far superare le barriere della disabilità agli ipovedenti sono stati gli specchi sul soffitto, gli schermi video a varie altezze e l’abbassamento dei piedistalli per favorire una migliore visione per tutti gli utenti, compresi gli utenti su sedia a rotelle” - ha detto Beth Ziebarth, direttore dei programmi di accessibilità dello Smithsonian. Ma l’innovazione continua. Un nuovo programma permette alle famiglie con bambini autistici e altre disabilità cognitive di arrivare prima degli orari di apertura e di ricevere i materiali in anticipo per prendere confidenza con l'edificio e le mostre.
Lo scorso anno, grazie ad una iniziativa di crowdsourcing, la Smithsonian ha invitato i visitatori a fornire descrizioni audio su dispositivi mobili dei circa 137 milioni di oggetti della sua collezione - un esempio di come le misure adottate in primo luogo per aiutare le persone con disabilità spesso permettono a tutto il pubblico di ottenere dei benefici.
Il Museum of Fine Arts di Boston, per esempio, quando pochi anni fa ha aperto l’ala “Art of Americas”, ha adottato un approccio universale, per disabili e non disabili, nella sua guida multimediale mobile. Hannah Goodwin, il manager per l’accessibilità, ha spiegato che, in tal modo, se una persona con disabilità della vista o dell'udito è in visita al museo con un amico non disabile "entrambi utilizzano gli stessi dispositivi e accedono agli stessi contenuti".
A Manhattan, il Whitney Museum of American Art ha recentemente introdotto il Vlog Project (Whitney Video Blogs), i cui video sono registrati da collaboratori sordi nella lingua dei segni americana. Ma dal momento che sono anche sottotitolati in inglese, i Vlogs sono diventati popolari anche tra le persone senza disabilità uditive.
"C’è un nuovo mondo coraggioso là fuori", ha affermato Larry Goldberg, direttore del National Center for Accessible Media, un dipartimento di ricerca e sviluppo del Public Broadcasting di Boston. "Ora ci sono molte nuove tecnologie e anche i musei ne stanno approfittando."
Per esempio, l'Art Institute diChicago prevede di sperimentare con la stampa 3-D la riproduzione di opere d'arte e di permettere ai visitatori, come quelli affetti da Alzheimer, di esplorare la consistenza, le dimensioni e altri elementi sensoriali degli oggetti con strumenti che prima non sarebbero stati possibili.
Le applicazioni mobili del Guggenheim include sottotitoli per i video; possibilità di ingrandire il testo, descrizioni sonore del tour e tecnologie avanzate di screen-reader che consentono la navigazione completa attraverso il tatto e la descrizione vocale in ogni parte dello schermo.
Nei musei stanno arrivando anche servizi di navigazione interna – ha spiegato Goldberg - che sono l'ideale per le persone con disabilità visive. Ad esempio, il software ByteLight traduce i segnali di localizzazione dalle luci a LED modificate alle smartphone apps per aiutare i visitatori a interpretare le mostre o navigare all'interno del museo.
Il Museo della Scienza di Boston prevede di ampliare la sua sperimentazione nell’ambito della tecnologia ByteLight nei prossimi mesi. "Come tecnologia di localizzazione interna è la più promettente", ha detto Marc Check, il direttore del museo di informazioni e tecnologia interattiva. "Le tecnologie come il GPS, invece, sono efficaci al di fuori, ma molto meno precise all’interno."
Il museo sta anche sperimentando la tecnologia touch-screen interattiva. Ha costruito un grande tavolo touch screen, come un iPad gigante, che permetterà alle persone con disabilità visive e motorie di accedere ai contenuti con movimenti di scorrimenti o semplici gesti. Un prototipo, ha spiegato Marc Check, dovrebbe essere collocato in una mostra nei prossimi mesi.
Anche i musei più piccoli offrono servizi per i disabili. In estate il Norton Museum of Art di West Palm Beach, in Florida, in accordo con le strutture locali per la cura delle malattie mentali, ha dato vita ad un programma per adulti con problemi per l’abuso di sostanze o per deficit mentali. Il North Carolina Museum of Art di Raleigh ha recentemente acquisito nove sculture in bronzo di Rodin per le visite sensoriali. Il Samuel P. Harn Museum of Art presso l'Università della Florida conduce programmi off-site per i residenti delle case di cura e per gli ospiti dei centri anziai che non possono muoversi per visitare il museo.
La direzione per lo scambio tra Arte e Disabilità presso il John F. Kennedy Center for Performing Arts di Washington, DC, assiste nell’allestimento di mostre o varie performances nei musei o in altri luoghi di cultura, consigliando, per esempio, sistemi di ascolto assistito o rappresentazioni sensoriali. Quando, diversi anni fa, Eric Lipp, direttore esecutivo di Open Doors, ha deciso di migliorare l'accessibilità alle istituzioni culturali di Chicago attraverso il suo "Inclusive Art and Culture Program" diversi anni fa, si è rivolto al John F. Kennedy Center.
Da allora, la compagnia teatrale Steppenwolf di Chicago ha migliorato i suoi servizi e i programmi di outreach. Le descrizioni audio dal vivo e le traduzioni nel linguaggio dei segni durante le rappresentazioni sono migliorate in qualità e sono state offerte durante un maggior numero di performances. Sono stati introdotti nuovi servizi, come visite guidate tattili che consentono agli ospiti non vedenti e ipovedenti di salire sul palco, prima dello spettacolo per familiarizzare con l’ambiente.
"Lo Steppenwolf e tutti gli altri intendono continuare così e andare anche oltre” - ha dichiarato Eric Lipp, che è parzialmente paralizzato. "E lo fanno con nessun altra finalità se non quella di produrre dei benefici per la società".
Ringrazio l'amica e collega Ilenia Atzori che mi suggerito la lettura di questo articolo.

The spirit of sharing: le nuove strategie di comunicazione dei musei nell'epoca di Twitter


Dal New York Times del 16 marzo 2011, è tratto questo articolo di Carol Vogel, intitolato “The Spirit of Sharing” che descrive in che modo alcuni musei statunitensi si sono preparati ad affrontare i cambiamenti imposti dalle nuove tecnologie alla comunicazione museale. L’articolo mette in evidenza il lavoro svolto dai singoli professionisti che operano nel settore della comunicazione digitale di alcuni grandi musei. Persone che, talvolta, vivono quasi ininterrottamente “on-line” e che hanno il compito di monitorare le propensioni e gli interessi dei visitatori internauti e il loro modo di comunicare con l’istituzione museale. Un lavoro non facile che deve essere affrontato tenendo sempre presente gli obiettivi primari del museo senza farsi condizionare dalle “mode” che inevitabilmente le folle contribuiscono a diffondere e cercando di svolgere il proprio ruolo di mediatori nei confronti della società. Siamo, però, ancora all’inizio di questa trasformazione della comunicazione tra i musei e il pubblico. I progetti che implicano partecipazione e condivisione di contenuti sono ancora relativamente pochi e per ora la maggior parte dei curatori continua a svolgere il proprio lavoro in modo tradizionale.





Shelley Bernstein vive con il suo computer. Quasi tutti i giorni si rintana nel suo ufficio spartano presso il Brooklyn Museum, dove lavora come Chief Technology Officer, inventando modi per far venire le persone in visita al museo e al suo sito Web, brooklynmuseum.org.


Ogni sera torna a casa in bicicletta, a Red Hook, Brooklyn, per stare con Teddy, il suo amato pit bull, e anche da casa continua a monitorare la presenza dell'istituzione su Facebook, Flickr, YouTube, Four Square e Twitter, dove ha quasi 183.000 seguaci.
Alcuni dei suoi progetti – per esempio mostrare ai suoi followers un tepee di 28 metri in costruzione nel museo o invitarli a partecipare ad una mostra proponendo un quiz sulle arti visive – le hanno portato a una marea di inviti a tenere conferenze in tutto il mondo.
Un decennio fa, i siti web museali erano poco più che una pagina di pubblicità on-line e si limitavano alla visualizzazione degli orari del museo, dei prezzi del biglietto d’ingresso e delle mostre in corso. Ora, invece, la tecnologia in continua evoluzione ha creato nuove opportunità, e persone come Shelley Bernstein stanno diventando elementi fondamentali per aiutare i musei a svilupparsi.
Se avrete occasione di parlare con qualunque professionista che si occupi di nuove tecnologie museali, vedrete che inevitabilmente la conversazione si focalizzerà soprattutto su una parola: fidelizzazione.
«Puntiamo più sul visitatore che sulla tecnologia» - conferma la trentasettenne, dinamica Shelley, rispondendo prontamente a ogni domanda del suo intervistatore. «Alla fine, quello che vogliamo è che le persone sentano di appartenere a questo museo. Chiediamo loro di dirci quello che pensano. Anche le recensioni negative, in caso di un nostro errore, ci possono essere d’aiuto. Vogliamo entrare in contatto con la nostra comunità.»
I musei hanno cercato a lungo di essere luoghi accoglienti e paradisi dell’apprendimento, ma ora i social media li stanno trasformando in luoghi di creazione di comunità virtuali. Su Facebook o su Twitter o su qualsiasi sito web museale, ognuno può esprimere il suo parere. Perciò i curatori e i visitatori on-line possono comunicare, imparando gli uni dagli altri. E quando i visitatori portano al museo i propri dispositivi palmari, la potenziale interattività si intensifica.
Tuttavia, c'è un avvertimento. La nuova tecnologia è «stimolante, e riusciamo a dare una grande quantità di informazioni» - afferma Thomas P. Campbell, direttore del Metropolitan Museum of Art - «ma dobbiamo ricordare alla gente che il loro obiettivo è la scoperta dell’arte.»
La tecnologia e tutti i suoi strumenti rappresentano anche le nuove sfide dei musei. Tra queste: come installare un accesso internet wireless in vecchi edifici, così che i visitatori possano utilizzare i propri dispositivi; come tenere il passo con le continue richieste dei social media e, ancora più importante, come calibrare l’influenza del pubblico sulle attività del museo.
E’ anche importante non farsi coinvolgere troppo dalle mode. Non dimentichiamo che una volta «tutti avevano un pogo stick (saltarello) e uno scooter», ha continuato il direttore - «e che ora, invece, tutti twittano.»
Il Met ha creato la sua pagina web sull’evoluzione della storia dell'arte nel 2000, riuscendo ad attirare, lo scorso anno, più di sei milioni di visitatori. Ora(2011) il sito Web sta avendo un restyling che sarà concluso  a fine estate.
Definendo quello che la tecnologia sta producendo per il museo "un delirio di creatività", il direttore ha aggiunto: «Ogni generazione deve trovare le giuste modalità di comunicazione, e se ciò aiuta a tenere le porte aperte, allora è una buona cosa.»
Gli sviluppatori di queste tecnologie dicono che non esiste un limite alla portata del flusso di informazioni. Quando il San Francisco Museum of Modern Art dovette portare al laboratorio di restauro uno dei suoi quadri più famosi, la "Donna con un cappello" di Matisse, fu postata su Facebook una fotografia delle operazioni di rimozione del quadro. «In questo modo la gente poteva dare una sbirciatina dietro le quinte in tempo reale» - ricorda Ian Padgham, membro dello staff che cura la comunicazione digitale del museo - «È tutta una questione di trasparenza e spontaneità.»
In occasione di un viaggio a Parigi, racconta Padgham, ha pensato di cercare i luoghi dove avevano lavorato gli artisti rappresentati nella collezione del museo: «Sono stato in grado di trovare il punto esatto in cui Man Ray ha fotografato St. Sulpice». Così ha realizzato una fotografia dalla stessa angolazione e l’ha postata su Facebook con un link che rimandava all'opera originale. Il post di Facebook è stato "apprezzato" da 189 persone ed ha suscitato commenti entusiastici.
Al Museo d'Arte di Indianapolis , invece, gli utenti web possono esplorare le sue collezioni, i suoi membri, il numero di visitatori che ha avuto in un giorno specifico, e anche quanto impegno viene messo in tutte le attività. «Ci piace condividere le informazioni con il pubblico, con la stampa e con il nostro personale» - ha detto Robert Stein, vice direttore per la ricerca, la tecnologia e l'engagement al museo di Indianapolis -«Questa è una delle nostre missioni più importanti.»
Il sito web del Metropolitan Museum of Art, invece, ha dato vita ad una nuova iniziativa denominata "Connections", dove, dietro le quinte, lo staff del museo – in particolare un educatore e un produttore di media - parlano delle loro opere preferite, appartenenti alla collezione del museo. «Abbiamo creato un equilibrio tra le opinioni personali e quelle degli accademici» - afferma Erin Coburn, il chief officer of digital media del Met.
Il museo ha anche creato una sezione del sito web denominata Date Night per il giorno di San Valentino , con un assistente editoriale che descrive le opere d’arte più romantiche del Met. L’iniziativa è stata postata su Facebook, ed è stato chiesto agli utenti di condividere ciò che pensavano di queste opere. «Volevamo riproporla in ambiti differenti», ha spiegato Erin Coburn, e così il post ha ricevuto centinaia di “like”.
La differenza è che mentre i social media hanno ricevuto sempre così tanta attenzione – continua Erin Coburn - «sul sito web non ci sono state richieste di avere un maggior numero di informazioni o di avere più immagini ingrandite, più testi descrittivi, video e audio, tutti riuniti in un medesimo spazio.»
Per coloro che vogliono conoscere nei dettagli i "singoli pezzi", il museo ha introdotto anche delle applicazioni per i dispositivi mobili. Il primo è stato quello per l’esposizione, Guitar Heroes: Legendary Craftsmen from Italy to New York. Da quando è stato introdotto, il 5 febbraio 2011, più di 40.000 persone lo hanno scaricato.
Per alcuni musei, i siti Web funzionano come se fossero il loro ingresso principale. Il numero di visitatori presso l’Indianapolis Museum of Art, nel 2010, era di 430.000 visitatori, ma il suo sito web ha avuto quasi un milione di utenti che hanno potuto vedere le collezioni del museo, guardare i video e contribuire ai blog.
«Dobbiamo essere rilevanti sul Web, rendendo costantemente interessanti le nostre informazioni» - afferma Maxwell L. Anderson , direttore del Museo d'Arte di Indianapolis. Un modo, ha detto, è  quello che lui definisce il potere del "pensiero collettivo." E così nel 2009, il museo, ha creato artbabble.org, un sito Web che offre video di istituzioni museali di tutto il mondo. «Abbiamo iniziato con sei partner e ora ne abbiamo 30 in tutto il mondo», ha detto Stein.


Il network internazionale del Solomon R. Guggenheim Museum ha dato un nuovo significato alla democratizzazione dell'arte quando ha creato il progetto YouTube Play, grazie al quale chiunque, con una videocamera e un computer, aveva la possibilità di inserire filmati nella sua biennale di video creativi che ha avuto luogo nel mese di ottobre in tutti i musei Guggenheim sparsi nel mondo. 
La biennale è stato un tale successo - 23.358 proposte provenienti da 91 paesi e più di 24 milioni di spettatori su YouTube – tanto che il Guggenheim è già in trattative con YouTube per l’organizzazione della prossima. «Ci ha dato la possibilità di comunicare in modo più diretto con le persone» - ha detto Nancy Spector, curatore capo del Guggenheim di New York - «Ed è stato l’inizio dell’utilizzo di un mezzo di comunicazione e di condivisione che si pensava che fosse di bassa cultura, ma che invece sta emergendo come una forma d'arte.»
La partecipazione pubblica sta prendendo forme diverse in vari musei. Il sito web del Brooklyn Museum, per esempio, ha organizzato un quiz  che aiuterà alla creazione della mostra Split Second: Indian Paintings.

Bisogna dire, in conclusione, che progetti come quelli del Brooklyn Museum e del Guggenheim sono eccezioni. La maggior parte di ciò che accade dentro i musei è ancora a cura dagli studiosi. L'obiettivo di tutta questa tecnologia resta ancora quella di portare la gente al museo.

Musei e multiculturalismo

di Caterina Pisu 




Oggi in Italia, non solo le grandi città ma anche i più piccoli centri devono confrontarsi con un multiculturalismo sempre più crescente, determinato dalla presenza nelle comunità di gruppi di immigrati di prima ma anche di seconda e terza generazione che, talvolta, anche se nati nel nostro Paese, risentono della mancata integrazione nel tessuto sociale autoctono dei loro genitori e nonni. Quando ciò accade è probabile che non abbiano sentito "propria" o comunque "vicina" la cultura locale e forse nessuno si è preoccupato di mettere in rilevo, ai loro occhi, gli elementi di "vicinanza" piuttosto che quelli di "distanza".
Valentina Andriani e Isabella Crespi, in un contributo del 2011 per l'università di Macerata (http://www2.unimc.it/dsef/working-papers/home/l2019appartenenza-alle-cerchie-sociali-e-la/filePaper), citando il sociologo Georg Simmel scrivono: "Simmel, definisce lo straniero come «colui che oggi viene e domani rimane» (Simmel 1998, 89). Questa sua condizione lo pone in una posizione ben differente rispetto al nomade o al viandante, nonostante non sia nato nel luogo in cui si trova e non vi appartenga". Per Simmel, inoltre, lo "straniero" è "colui che entra in contatto spaziale e sociale con il gruppo, che prima è mobile e poi si fissa in un nuovo punto" ((Andriani, Crespi 2011, p. 81).
Molto spesso la condizione degli stranieri, ne abbiamo esperienza nelle nostre comunità, è marginale, esclusa dai ruoli di maggiore rilevanza sociale, con capacità relazionali ridotte, a volte, da diversi ostacoli: linguistici, culturali, etici, religiosi. Ciò comporta un fenomeno di ambivalenza, derivante dalla posizione contemporaneamente interna ed esterna dello straniero rispetto alla comunità cui si riferisce: interna, in quanto egli è fisicamente dentro la comunità, esterna perché la sua condizione lo pone in una posizione estranea e antitetica rispetto al gruppo sociale autoctono.
Eppure la figura dello straniero immigrato, proprio per le caratteristiche appena descritte, contrariamente a quanto si possa pensare può svolgere un ruolo sociale importante di compattazione della comunità locale e di rafforzamento della sua iidentità, perché con la sua stessa presenza, che introduce un elemento di alterità, promuove "la coesione sociale del gruppo che si riconosce nei vincoli simbolico-relazionali che lo costituiscono proprio contrapponendosi a un elemento estraneo, che, pur condividendo lo spazio (abitativo e esperienziale) ed essendo, dunque, incluso, si trova in una relazione che è, al contempo esterna/frontale, rispetto al gruppo" (Andriani, Crespi 2011, p. 83). Quando ciò non avviene, non è l'immigrazione la causa (pur tenendo presente i problemi legati all'immigrazione clandestina e il pericolo di affiliazione da parte di organizzazioni criminali, che possono causare grande malessere sociale), ma vuol dire che è già in atto un processo di disgregazione della comunità che non si identifica più nei suoi valori tradizionali.
Già da vari anni i musei si stanno ponendo il problema di come declinare l'integrazione delle comunità di origine immigrata con la salvaguardia e il rafforzamento delle identità locali. E' del 2007, per esempio, il progetto europeo "Museums as Places for Intercultural Dialogue", Da questo progetto sono scaturiti studi molto interessanti che sono stati presentati in un convegno, a Bologna, il 10 giugno 2008. La museologia, pertanto, si è dimostrata attenta ai cambiamenti sociali e c'è la consapevolezza che i musei possano essere importanti, forse più di altre istituzioni politiche, economiche e sociali, al raggiungimento dell'armonia e dell'integrazione sociale.
Quali possono essere gli strumenti per attuare il dialogo interculturale attraverso i musei? Il primo passo dovrebbe essere il coinvolgimento diretto dei vari attori sociali. E' ciò che accade, per esempio, al Metropolitan Museum di New York, una delle città più multiculturali del mondo, in cui il Museo ha costituito un Comitato multiculturale consultivo, composto da afro-americani, asiatici, asiatico-americani, ispanici/latino-americani, americani, indiani, e, dal punto di vista religioso, da esponenti della religione musulmana, e da altri leader di organizzazioni interreligiose. Questi si incontrano periodicamente con il personale del Museo cercando di focalizzare obiettivi comuni. Il Comitato, quindi, predispone un programma che che comprende varie attività di sensibilizzazione, tra cui:
  • Ricevimenti, visite e conferenze che si ispirano alla diversità culturale rappresentata nelle collezioni del Museo.
  • Il sostegno e la partecipazione a numerosi eventi culturali e civili che riguardano le comunità di New York.
  • Collaborazioni con altre istituzioni e organizzazioni culturali di New York.
  • Celebrazione annuale dei "mesi del patrimonio".
Le varie iniziative vengono poi adeguatamente propagate attraverso i giornali locali, la radio e la televisione, avvisi pubblicitari, comunicati stampa e media, soprattutto i social media.

Un programma di mediazione interculturale di questo tipo è adattabile a qualunque museo e ad ogni comunità, anche la più piccola (un esempio: il piccolo Comune di Brabarano Romano, in provincia di Viterbo, avente una popolazione di circa 950 unità, ha anch'essa una sua comunità di stranieri di 85 unità). Per attuare tale impegno, è importante svolgere un'analisi preventiva della composizione della popolazione straniera presente. Solitamente è possibile dedurre i dati molto facilmente attraverso una ricerca nei siti comunali o provinciali o nei siti dei principali enti di ricerca statistica (riferendomi ancora a Barabarano Romano si può sapere, per esempio, che la popolazione straniera è così suddivisa: Romania 27 unità,  Polonia 20, Albania 6, Brasile 6, Filippine 4, Ucraina 3, India 2, Nigeria 2, Regno Unito 2, Perù 2, Germania 2, Marocco 1, Stati Uniti d'America 1, Bielorussia 1, Belgio 1, Cuba 1, Moldova 1, Kenya 1, Mauritius 1, Bulgaria 1).
E' utile anche cercare una collaborazione con gli uffici di mediazione interculturale che sono presenti presso gli enti locali e nelle province, con i quali possono essere concordati progetti culturali comuni che coinvolgano pienamente il museo.

Bisogna rilevare che in Italia si stanno moltiplicando i progetti di mediazione interculturale. Il prossimo 19 novembre, per esempio, presso la Fiera ABCD di Genova si svolgerà il Convegno "Musei e dialogo interculturale. Esperienze e buone pratiche a sostegno della mediazione culturale" (http://www.vanninieditrice.it/agora_scheda.asp?ID=838&categoria=convegni,%20mostre,%20concorsi) e in questa occasione ricercatori, esperti d’interculturalità e operatori museali presenteranno progetti d’intercultura in ambito museale. 

Una buona occasione per fare il punto su queste problematiche così attuali, essendo indubitabile che l'avvio di un dialogo costruttivo tra gli individui e le comunità portatrici di culture diverse è un compito che tutti i musei dovranno necessariamente affrontare per continuare a svolgere un ruolo attivo e rilevante nell'ambito delle proprie comunità di riferimento, contribuendo, così, all'armonizzazione sociale e ad un maggior senso di sicurezza e di fiducia reciproca.



Bibliografia e Sitografia:

V. Andriani, I. Crespi, "L’appartenenza alle cerchie sociali e la condizione di straniero in George Simmel", Università degli Studi di Macerata, 
Dipartimento di Scienze dell‟Educazione e della Formazione, Working paper n. 5, Novembre 2011

Metropolitan Museum of Art, www.metmuseum.org

Museums as Places for Intercultural Dialogue, http://www.mapforid.it/

I musei più cliccati su Facebook? Non italiani. Il preferito è il MoMa di New York

di Giuseppe Baselice

 

La classifica dei luoghi d'arte più apprezzati sul social network vede al primo posto il Museum of modern art di New York, davanti al Metropolitan e al Louvre. Primo italiano il MAXXI di Roma, solo 70esimo. semplice classifica da social networking o nuova frontiera per veicolare la cultura e l'arte sul web?

I musei più cliccati su Facebook? Non sono italiani. Il Bel Paese sarà anche, come spesso si ricorda, un "museo a cielo aperto", e custode di buona parte del patrimonio artistico e culturale a livello mondiale, ma questo non viene rilevato e apprezzato dal mondo del web, attraverso il social network più diffuso del pianeta.

Su Facebook infatti le centinaia di milioni di utenti giornalieri preferiscono di gran lunga il MoMa di New York, che raggiunge quasi i 900mila fans. A seguire, sempre nella Grande Mela, il Metropolitan Museum of Art, con 562mila sostenitori. Al terzo posto il Louvre (403mila), quinto il Tate di Londra (310mila) davanti al Museo dell'Acropoli di Atene (301mila). A chiudere la top ten c'è il Centre Pompidou (176mila), mentre il British Museum è quattordicesimo (145mila).

Per trovare i primi siti italiani bisogna arrivare alla 70esima posizione con il MAXXI - Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo, a Roma, con quasi 30mila fans, seguito dal MACRO - Museo d'arte contemporanea, sempre nella Capitale, con 24mila all'86esimo posto appena davanti alla Triennale di Milano con 23.900.

Ma non è il solo caso strano: la stessa Tour Eiffel, che pure conta ogni anno 6,6 milioni di visitatori reali, ha soltanto 25mila fan. E' proprio un quotidiano francese, Le Figaro, ad analizzare la questione, spiegando: il Louvre ha una pagina attiva sin dal 2009, agli albori del boom facebookiano, e ad oggi almeno 240mila fans sono utilizzatori attivi. Come dire: potenzialmente, 240mila visitatori in più.

Un bel veicolo pubblicitario, insomma, soprattutto se si pensa che al primo posto degli utenti iscritti non ci sono i francesi bensì gli americani. "Non contano solo i numeri, ma la qualità e l'utilità del contatto". spiega Sebastien Magros, consulente culturale.

La ricetta è semplice: creare appuntamenti da veicolare sulla rete, come fa ad esempio il Beaubourg, animando la piattaforma con foto, eventi e informazioni. Un modo per essere non solo cliccati, ma anche seguiti e conosciuti da un pubblico sempre più vasto. Ovvio, esiste anche il sito ufficiale, ma l'aggiornamento via Facebook consente un contatto più diretto con l'utente.

Tutto ciò potrebbe sembrare banale, visto che poi quello che conta sono i visitatori "fisici" di un museo. Ma nell'era di internet, in cui tutto, anche la cultura, viene veicolata attraverso il social networking, un pensierino i nostri musei dovrebbero farlo. Come numeri, non sarebbero secondi a nessuno. 

Tratto da First online

Fine del processo contro Marion True

Nessuna condanna per l’ex curatore del Paul Getty Museum: dopo cinque anni scadono i termini di prescrizione



Dopo cinque anni si conclude per decorrenza dei termini il processo a carico di Marion True, curatrice delle antichità del Paul Getty Museum di Los Angeles dal 1987 al 2005, accusata di associazione per delinquere, ricettazione e traffico illecito di beni archeologici. Il processo italiano contro la True, incentrato principalmente sull’acquisizione illegale di circa 35 manufatti acquisiti dal museo di Los Angeles tra il 1986 e la fine degli anni ‘90, era iniziato nel 2005; negli anni successivi il procedimento era stato portato avanti con molta lentezza finchè lo scorso 13 ottobre il giudice Gustavo Barbalinardo ha dovuto chiuderlo definitivamente per intervenuta scadenza dei termini di legge. Dalla sua residenza francese, la True avrebbe dichiarato di essere felice per la fine del processo, dicendosi «sollevata che sia passato il tornado che le ha distrutto la vita».



Il processo prosegue, invece, per il commerciante svizzero Robert Hecht, incriminato insieme alla True, a Giacomo Medici e ad altri trafficanti, ma la scadenza dei termini, luglio 2011, è ormai vicina anche per  questo processo.



Sia la True che Hecht hanno sempre negato ogni imputazione, ma il Pubblico Ministero Paolo Giorgio Ferri e i periti della Soprintendenza per i Beni Archeologici per l'Etruria meridionale, Daniela Rizzo e Maurizio Pellegrini, che hanno collaborato con il PM insieme al Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, sono riusciti a ricostruire con estrema precisione e accuratezza, in tanti anni di indagini e di meticolose perizie, la provenienza illecita di tantissimi reperti archeologici acquistati dal Getty Museum.



Nonostante la mancata condanna della True, il bilancio di questi anni di lavoro del PM Ferri e del suo team è altamente positivo: innanzitutto la True è stata il primo curatore di museo americano ad essere stata sottoposta a procedimento penale all'estero per un’accusa di commercio illecito di antichità, e questo è già un risultato senza precedenti. Dalle testimonianze ascoltate durante il processo è emerso con chiarezza che Marion True era consapevole di acquistare le antichità attraverso canali non regolari. La sua incriminazione ha obbligato il mondo museale americano ad una profonda autocritica e a rivedere le proprie regole di acquisizione di nuove collezioni. Ora è sicuramente molto più difficile che un museo statunitense possa esporre una qualunque opera d’arte o un reperto archeologico senza essere in grado di dimostrarne la provenienza legale. Lo Stato italiano, da parte sua, ha incentivato la restituzione di reperti in cambio di prestiti a più lungo termine di quanto non si sia fatto finora. Ciò permetterà, quindi, ai musei americani di poter arricchire le proprie esposizioni in maniera lecita, sotto forma di prestito temporaneo.



Il secondo risultato importante è stato il colpo inferto alle organizzazioni criminali, tombaroli e trafficanti d’arte che in tanti decenni hanno imperversato nel nostro Paese saccheggiandone in modo illimitato l’inestimabile patrimonio archeologico. La difficoltà di poter avere, i grandi musei stranieri come principali committenti, come invece accadeva fino a poco tempo fa, produrrà sicuramente un contenimento dei traffici illeciti, sebbene restino ancora aperti altri canali, come quelli del collezionismo privato.



L’obiettivo principale del PM Ferri e del suo team, in ogni caso, è stato soprattutto quello di ottenere la restituzione dei reperti archeologici trafugati all’Italia. Già durante la gestione della True, prima dell’inizio del processo a suo carico, furono restituiti circa 3500 oggetti provenienti dal sito di Francavilla Marittima e la famosa kylix greca di Onesimos ed Euphronios. Successivamente, durante i cinque anni del processo, sono stati restituiti più di cento reperti in possesso non solo del Getty Museum ma anche di altri musei statunitensi, tra cui il Metropolitan Museum of Art di New York e il Boston Museum of Fine Arts. Tra tutti si ricorda il celebre cratere di Euphronios, vaso attico a figure rosse datato intorno al 510 a.C., ora esposto nel Museo Etrusco di Villa Giulia, il vaso di Asteas, un cratere a calice a figure rosse del 340 a.C. proveniente da scavi clandestini in Campania, gli acroliti di Demetra e Kore, risalenti al V secolo a.C. e provenienti da scavi clandestini a Morgantina, ora esposti nel Museo Archeologico di Aidone, mentre si attende nel 2011 la restituzione della Venere di Morgantina.



E’ ancora battaglia, invece, per l’atleta di Lisippo, tuttora reclamato dall’Italia, nonostante l’attuale responsabile della collezione Getty, Stephen Clark, abbia prodotto documenti sulla presunta buona fede del museo nell’acquisizione della statua bronzea. Circa un anno fa il gip Lorena Mussoni ha comunque deciso per la confisca, cui è seguito il ricorso in Cassazione della Fondazione Getty che, tuttavia, non sarà sospensivo della rogatoria né dell’azione civilistica, in quanto la confisca è una misura di sicurezza immediatamente esecutiva. Si spera, ora, in trattative diplomatiche tra Italia e USA che consentano il ritorno della statua in Italia ma, intanto, la Regione Marche, da cui proviene il prezioso reperto, è intenzionata a dare battaglia per ottenerne al più presto la restituzione.



Come ha scritto recentemente Fabio Isman su “Il Giornale dell’Arte”, non si può ignorare che la “brutta abitudine” di acquistare oggetti antichi di dubbia provenienza non appartiene soltanto ai musei d’oltreoceano ma anche ad importanti musei europei. Il caso più recente è proprio quello del Museo Archeologico Nazionale di Madrid che nel 1999 ha comprato una collezione privata in cui i già citati archeologi Daniela Rizzo e Maurizio Pellegrini hanno riconosciuto ben ventidue oggetti provenienti da scavi clandestini in Italia. Mi unisco a Isman nella speranza che lo Stato Italiano chieda al più presto la restituzione anche di questi reperti e che, con altrettanta urgenza, si favorisca la collaborazione internazionale, tenendo conto di passi importanti già fatti, come la Convenzione Unidroit (Convention on Stolen or Illegally Exported Cultural Objects), ratificata a Roma il 24 giugno 1995: essa è una soluzione di compromesso tra i vari sistemi giuridici del mondo intero ed è il risultato di dieci anni di lavori, cui hanno partecipato due organizzazioni internazionali, l’Istituto internazionale per l’unificazione del diritto privato (Unidroit) e l’UNESCO, oltre a numerosi esperti. Purtroppo, soltanto undici stati hanno ratificato la Convenzione Unidroit, mentre dodici si sono limitati alla semplice adesione. La Convenzione è stata ratificata dall'Italia con legge 7 giugno 1999, n. 213, ed è entrata in vigore il 1 aprile 2000. E’ ora assolutamente necessario impegnarsi per rafforzare ed estendere il più possibile la Convenzione Unidroit in altri Paesi, avviando trattative internazionali e pretendendo un impegno concreto per combattere la piaga del traffico illecito di beni culturali. E’ importante non abbassare la guardia perché se oggi la Svizzera sta perdendo il suo ruolo di snodo internazionale del traffico di reperti archeologici, grazie anche all’adozione di proprie leggi, molto più severe rispetto al passato, nel contempo si sono già consolidati altri percorsi di transito dei trafficanti e delle merci, diretti soprattutto verso l’estremo Oriente. A livello mondiale, infatti, il traffico di beni culturali saccheggiati continua ad essere tuttora il più cospicuo subito dopo il traffico di droga e di armi.



Caterina Pisu (ArcheoNews novembre 2010)

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