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L'illusione degli ecomusei

Nel precedente post si è fatto cenno agli ecomusei e al loro particolare legame con la comunità. In questo articolo di Giovanni Pinna, direttore della rivista Nuova Museologia, tratto da n. 30 di Nuova Museologia, Giugno 2014 (www.nuovamuseologia.it), si approfondisce questa tematica evidenziando come spesso i progetti di ecomuseo esistenti si allontanino, invece, dai principi che sono stati formulati dai loro creatori e che, a loro volta, questi concetti - originariamente e nel loro evolversi - non siano mai stati disgiunti da forti ideologie politiche.
Si potrà mai parlare di una cultura veramente libera dalle influenze politiche? Il Modello della Red de Museos Municipales de los pueblos sperimentata in Argentina, può essere una valida alternativa agli ecomusei?


Che cosa penso degli ecomusei italiani


In un Paese in cui il potere politico si mantiene attraverso l’iper-burocratizzazione centralizzante è impensabile che possa essere lasciato alle singole comunità il diritto di gestire autonomamente le proprie memorie storiche e sociali. Il processo di controllo politico e sociale è evidente soprattutto nella burocratizzazione delle microstrutture museali locali - denominate spesso erroneamente ecomusei - realizzata attraverso il ricatto economico, imponendo cioè un certo tipo di organizzazione attraverso normative collegate alla erogazione di contributi pubblici.
Riporto qui di seguito due testi scritti anni addietro nei quali ponevo l’accento di come la politica di centralizzazione burocratica, attuata soprattutto a livello regionale, snaturi il ruolo delle comunità e le allontani dalla gestione del proprio patrimonio, tenda a omogeneizzare la culture locali e renda così del tutto improponibile il nome di ecomuseo che le amministrazioni pubbliche si ostinano ad attribuire alle piccole raccolte di me-morie storiche e sociali locali.

L’ecomuseo


(Estratto da Fondamenti teorici per un museo di storia naturale, Giovanni Pinna, Jaca Book, Milano, 1997)


Jean Clair sostiene che le prime idee di quella che diventerà l’ecomuseologia furono elaborate da Georges Henri Rivière nel 1936, come estensione dell’idea dei musei del folklore open-air, soprattutto di modello scandinavo, costruiti con l’intento di conservare le tradizioni popolari, e narra che lo stesso Rivière mise a punto la teoria dell’ecomuseo agli inizi degli anni Cinquanta, giungendo alla prima realizzazione pratica negli anni Sessanta.

[...] Nella mente di George Henri Rivière, di Jean Clair, di Hugues De Varine, l’ecomuseo doveva essere una struttura con forte incidenza sociale. Essa fu definita da De Varine “un’istituzione che gestisce, studia, esplora a fini scientifici, educativi e culturali in genere, il patrimonio globale di una certa comunità, comprendente la totalità dell’ambiente naturale e culturale di questa comunità”. Nella concezione originale, l’ecomuseo non era altro che la musealizzazione attiva del territorio di una comunità urbana o rurale, della comunità stessa, del suo ambiente naturale e culturale, delle sue tradizioni: attraverso la musealizzazione attiva, gestita e condotta direttamente dai membri della comunità, e cioè attraverso l’ecomuseo, strumento di conoscenza e di studio del territorio, della cultura e delle tradizioni della comunità, la comunità prendeva coscienza di se stessa, assumendo in proprio la responsabilità del suo sviluppo.
In questo senso va la definizione di ecomuseo, teorica e sotto molti aspetti velleitaria, proposta da Rivière come sintesi di una lunga elaborazione a più mani.
“Un ecomuseo è uno strumento che un potere e una popolazione concepiscono, fabbricano e esplorano assieme. Questo potere, con gli esperti, le agevolazioni, le risorse che fornisce. Questa popolazione, secondo le proprie aspirazioni, con le sue culture, con le sue capacità di accesso.

Uno specchio in cui questa popolazione si guarda, per riconoscersi, in cui essa cerca la spiegazione del territorio al quale appartiene, assieme a quelle popolazioni che l’hanno preceduta, nella discontinuità o nella continuità delle generazioni. Uno specchio che questa popolazione offre ai suoi ospiti, per farsi meglio comprendere, nel rispetto del suo lavoro, dei suoi comportamenti, della sua intimità.

Un’espressione dell’uomo e della natura. L’uomo vi è interpretato nel suo ambiente naturale. La natura lo è nel suo stato selvaggio, ma anche nella forma in cui la società tradizionale e la società industriale l’hanno adattata a loro immagine.

Un’espressione del tempo, quando la spiegazione risale al di qua del tempo in cui l’uomo è apparso, si svolge attraverso i tempi preistorici e storici che egli ha vissuto, sbocca nel tempo che egli sta vivendo. Con un’apertura sui tempi di domani, senza che, tuttavia, l’ecomuseo si ponga come elemento decisionale, ma all’occorrenza, giochi un ruolo d’informazione e di analisi.
Un’interpretazione dello spazio. Di spazi privilegiati, ove sostare o passeggiare.

Un laboratorio, nella misura in cui contribuisce allo studio storico e contemporaneo di questa popolazione e del suo ambiente e favorisce la formazione di specialisti in questo settore, in collaborazione con le organizzazioni di ricerca esterne.

Un luogo di conservazione, nella misura in cui aiuta alla conservazione e alla valorizzazione del patrimonio naturale e culturale di questa popolazione.

Una scuola, nella misura in cui associa questa popolazione alle sue azioni di studio e di protezione, o nella misura in cui la incita a meglio comprendere i problemi del suo avvenire.

Questo laboratorio, questo luogo di conservazione, questa scuola si ispirano a principi comuni.
La cultura che essi rivendicano deve intendersi nel suo senso più ampio, e essi si applicano per farne conoscere la dignità e l’espressione artistica, da qualsiasi strato della popolazione provengano le rinvendicazioni. La diversità è senza limite, tanto diversi sono i dati da un campione all’altro. Essi non si richiudono in se stessi, ma ricevono e danno.”

Questa funzione sociale dell’ecomuseo, di per se stessa lodevole, sottintendeva però una precisa ideologia politica, e diveniva così, fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, la risposta popolare e progressista alla museologia borghese delle grandi istituzioni francesi. L’ecomuseo era, di fatto, sia il popolo stesso, sia lo strumento per il controllo popolare del territorio, lo strumento per proteggere, e quindi conservare, l’ambiente naturale, le tradizioni e la cultura di una certa comunità messe in pericolo dal capitalismo selvaggio e dalla legge del profitto.

Tutto ciò è evidente negli scritti sull’ecomuseo degli anni Settanta. “Per andare al fondo delle cose – ha scritto per esempio De Varine – si può concludere che bisogna mettere in discussione il concetto di proprietà individuale. Certo, il solo istituire un ecomuseo non sopprime il diritto di proprietà che ogni membro della comunità mantiene. Il diritto di uso e di godimento resta intatto e non è il caso di utilizzare procedure quali l’esproprio o la confisca con l’unico pretesto che un individuo possiede un bene di cui l’ecomuseo ha bisogno! Nondimeno rimane il fatto che dalle considerazioni sul patrimonio della comunità che precedono deriva l’esistenza di fatto e il riconoscimento progressivo di un diritto morale della collettività su ciascun elemento del proprio patrimonio.”

Ma come dovrebbe funzionare un ecomuseo? De Varine, Rivière e gli altri teorici di questa istituzione hanno formulato tutta una serie di norme, che, nel loro entrare nei minimi particolari, raggiungono altissime vette burocratiche. Essi hanno ipotizzato ogni finalità, ogni meccanismo di gestione, hanno ipotizzato ogni procedura attraverso cui la comunità dovrebbe partecipare alla gestione dell’ecomuseo. Questa verrebbe affidata a comitati composti da delegati di gruppi spontanei o delle varie categorie che costituiscono la comunità, ovvero dai rappresentanti eletti della comunità, affiancati da tecnici o “consiglieri” che non avrebbero teoricamente il diritto né di proporre, né di decidere. Questo in teoria! Ma in pratica molti scritti inducono a pensare che l’ecomuseo non sarebbe in realtà guidato direttamente dalla comunità, ma, secondo una prassi politica ben consolidata, dall’azione di tipo missionario dei consiglieri, che diverrebbero così gli strumenti di un potere superiore per l’indottrinamento della comunità, o, se preferite una frase meno brutale (ma di identico significato), per convogliare in una precisa direzione lo sviluppo della comunità stessa.
L’ecomuseo, museo totalizzante, che ingloba e indirizza il pensiero di ogni individuo della comunità, che espropria moralmente i beni di ciascuno, condizionandone di fatto l’uso quotidiano, che cristallizza la vita quotidiana della comunità, appare come un mostro tentacolare in grado di spiare l’intimità di ogni individuo. Io non so se De Varine, Rivière e gli altri si sono resi conto di ipotizzare un mostro degno di Orwell, ma mi confortano due fatti: che l’ecomuseo come da essi ipotizzato non ha avuto molta fortuna sul piano pratico, e che essi stessi si sono accorti che la critica maggiore alla loro costruzione teorico-politica è stata che si trattava di pura utopia: “Una delle critiche che più spesso sono state indirizzate ai sostenitori dell’ecomuseo – ha scritto De Varine – si riassume in una parola: utopia. Ciò che dà consistenza a questo attacco è il carattere spesso teorico e esageratamente ottimista della descrizione dell’istituzione, in confronto alla relativa mediocrità dei risultati ottenuti fino ad oggi dagli ecomusei esistenti. Secondo la maggior parte degli osservatori, quello di Landes non è altro che un museo all’aperto migliorato; quello di Creusot è per essi solo un amalgama di attività e di esposizioni tradizionali all’interno di una struttura vaga e solo potenzialmente realizzata.”

L’insuccesso dell’ecomuseo, il suo trasformarsi di fatto in una struttura museale tradizionale, come De Varine notava nelle righe precedenti riferendosi alla Comunità Urbana di Creusot-Mon-ceau-les-Mines, dimostrano non solo la difficoltà della realizzazione pratica dell’utopia politico-sociale ecomuseologica, ma anche la forza del museo tradizionale in quanto struttura delegata dalla comunità alla conservazione del proprio patrimonio e quindi appartenente alla comunità, anche se non direttamente da essa gestita.

Come ho affermato con decisione nel corso di questo volume, il museo tradizionale è una struttura socialmente forte, ed è quindi inevitabile che ogni forma di partecipazione di una comunità alla gestione del proprio patrimonio si concretizzi alla fine, prima o poi, in una struttura museale che colleziona, studia e espone il patrimonio della comunità in modo tradizionale.

  
Intervento di Giovanni Pinna, Presidente dell’ICOM Italia, al convegno “Presente e futuro dell’ecomuseo”
(Sala conferenze IRES Piemonte, Torino, 16 maggio 2003)


Io non sono uno specialista in ecomusei, sebbene abbia studiato, almeno nelle grandi linee, la nascita e lo sviluppo del concetto di ecomuseo, dal dibattito che si era impostato prima del secondo conflitto mondiale, alle teorizzazioni e alle realizzazioni avvenute soprattutto in Francia fra il 1968 e il 1974, allo sviluppo quasi contemporaneo di un altro tipo di “ecomuseo”, quei neighborhood museums il cui modello principale rimane ancora il centro creato da John Kinard nel 1967 nel quartiere di Anacostia a Washington. Vorrei però ricordare in questa occasione che in un certo qual modo io stesso sono stato un precursore dell’ecomuseologia italiana, quando, da conservatore del Museo di Storia Naturale di Milano, fui sollecitato dai cittadini del paese di Besano a costruire con loro nel loro villaggio un piccolo museo dei fossili. Il villaggio di Besano, situato in provincia di Varese non lontano dalle sponde meridionali del Lago di Lugano, è noto perché nel suo territorio montuoso si apre un celebre giacimento paleontologico. Come documentai in un articolo apparso sulla rivista “Museum” nel 1976 (Création d’un musée des fossiles. Besano. Une initiative de la population, Museum, vol. 28, Paris, 1976), all’inizio degli anni Settanta i cittadini di Besano si erano convinti dell’importanza di quel giacimento, e vollero quindi che un piccolo museo fosse costruito nel loro villaggio. Questa semplice operazione museale condusse alla nascita di un vero e proprio ecomuseo, per il fatto che i cittadini non solo costruirono e iniziarono a gestire il loro museo, ma in qualche misura furono i promotori di nuove ricerche sul giacimento. Essi si offrirono volontari per riprendere gli scavi paleontologici e per difendere la zona dagli scavatori abusivi, impadronendosi così di un patrimonio culturale del loro territorio che per la prima volta sentirono veramente proprio. Il risultato è che il museo – oggi divenuto assai più ampio – è ancora aperto al pubblico e costituisce un punto di richiamo per visite turistiche e scolastiche, mentre gli scavi procedono ancora, fornendo ogni anno alla scienza materiali fossili di grande importanza[1]. L’interesse che alcune amministrazioni pubbliche italiane dimostrano nei confronti di istituzioni museali locali, cui viene attribuito il nome di ecomusei, e che in linea generale sembra concretizzarsi nella ricerca di un’organizzazione “a rete o a sistema” di tali istituzioni e di una normativa che determini la struttura organizzativa delle singole entità museali, fa sorgere in me due interrogativi:

•          è possibile che ecomusei, e cioè microstrutture museali che dovrebbero nascere spontaneamente dalla volontà delle comunità locali ed essere gestiti direttamente da queste comunità, senza intermediari, vengano organizzate da strutture politico-amministrative che prevedono una centralizzazione dei poteri decisionali, regioni, comunità montane o province?

•          è possibile che l’attività di questi ecomusei venga in qualche modo normata attraverso l’adozione di standard museali validi per tutti, dal momento che una loro caratteristica dovrebbe essere la diversità nei contenuti e nella gestione? Il concetto di ecomuseo è strettamente collegato alle idee di territorio e di identità, nel senso che l’ecomuseo è per una comunità il luogo della sua memoria, è il luogo in cui questa memoria viene conservata e interpretata dalla comunità stessa, senza intermediari. Se questo è l’ecomuseo, allora è chiaro che la diversità è una sua caratteristica intrinseca, e che l’organizzazione di un insieme di ecomusei di una data regione in un sistema creato, anche se non imposto, da un potere centrale non può non influire sulla diversità e quindi sulla natura e sul significato stesso dell’ecomuseo. L’organizzazione in sistema delle strutture museali da parte delle amministrazioni pubbliche è un’azione assai delicata, poiché rischia di scivolare verso la creazione di strutture di gestione autocratiche. Basta solo che la partecipazione a una rete organizzata (e normata) da un ente pubblico preveda per i partecipanti l’accesso a finanziamenti pubblici per creare le premesse per una centralizzazione del sistema decisionale.
Nella stessa direzione va l’ipotesi di proporre anche per gli ecomusei, come è stato fatto per la generalità dei musei italiani, standard di organizzazione e di gestione. Che lo si voglia o no, l’imposizione di standard conduce inevitabilmente alla omogeneizzazione, che contrasta con l’idea stessa di ecomuseo, in quanto organismo legato alle intime realtà territoriali. Ciò soprattutto se gli standard proposti non si limitano a suggerire le necessità primarie di un museo, ma entrano nell’intimo di ogni porzione dell’organizzazione della struttura museale e suggeriscono, o impongono, le azioni di gestione nei minimi dettagli. Questo è, a mio parere, il principale difetto degli ormai famosi “Atti di indirizzo” che costituiscono un pregevole trattatello di museologia, ma che non sono, come pretendono di essere, standard applicabili.

Analizzando per conto del governo delle Asturie il problema delle reti e dei sistemi museali (Redes y sistemas museisticos, introduzione al progetto della rete dei musei delle Asturie, maggio 2002), ho potuto notare come la tendenza delle amministrazioni vada verso la creazione di “sistemi” nei quali il potere decisionale non rimane ai singoli partecipanti al sistema, ma viene assunto dall’ente organizzatore del sistema. Sebbene venga dichiarato che tali sistemi di musei sono realizzati per l’ottimizzazione delle risorse (che si realizza per esempio con il mettere in comune alcuni servizi), in realtà nella maggior parte dei casi essi corrispondono a una logica di potere e di controllo, o vengono creati per sviluppare politiche culturali o per controllare interessi territoriali (sempre in campo politico-culturale).

Infine un’ultima annotazione sul delicato rapporto fra identità e alterità. L’ecomuseo è lo scrigno e la forgia della memoria di una comunità, e come tale è il luogo di conservazione della sua identità. Gli ecomusei tendono quindi, per loro stessa natura, a enfatizzare le identità delle comunità, un processo che include la consapevolezza della “diversità”, e il confronto con “l’altro”, colui che non condivide la mia stessa identità comunitaria. In questo senso gli ecomusei possono essere strumenti di esclusione e veicoli di rifiuto. E anche potenti strumenti politici, come ci insegna la gestione degli Heimatmuseen tedeschi negli anni del nazismo. Anche per questo seguo con apprensione la crescita di interesse di alcune amministrazioni pubbliche per i micro-musei locali e le ampie risorse che su di essi vengono riversate, e ricordo che André Desvallées ha scritto, parlando di quelli che egli chiama “musei di identità”, che essi “non devono mostrare mai le differenze senza mostrare anche le somiglianze” (1994).




[1] L’affidamento della gestione del museo a un’impresa commerciale dopo la metà degli anni Novanta ha trasformato lo spirito e la natura del museo allontanando così i cittadini di Besano dal museo e sottraendo loro il possesso morale del patrimonio.

Come si salva un museo?

Dalla lettura di un post di Claire Madge, dal blog Tincture of Museum, alcune riflessioni sulla crisi dei musei




In questi giorni mi è capitato sotto gli occhi un articolo di Claire Madge, laureata in storia, bibliotecaria e volontaria in alcuni musei di Londra, tratto dal suo blog Tincture of Museum. In questi anni, Claire, già convinta sostenitrice dell’importanza dei musei per lo sviluppo intellettivo e psicologico dei bambini, quando è diventata mamma di una bambina autistica si è molto interessata alle tematiche che riguardano la cura dei bambini autistici con il supporto delle attività museali. Dopo aver lasciato il suo lavoro di bibliotecaria, ha scelto di entrare come volontaria in tre musei: il Museum of London l’Horniman Museum, come volontaria in progetti rivolti a migliorare l’accessibilità del museo per vari tipi di disabilità, e infine il Bromely Museum, in cui, dopo un inizio come volontaria generica, è riuscita ad inserirsi nei progetti che riguardano l’apprendimento e la partecipazione del pubblico. Purtroppo uno di questi musei, il Bromely Museum, rischia di chiudere e nell’articolo cui ho fatto cenno, la Madge riporta i punti essenziali di un dibattito cui ha partecipato e che avrebbe dovuto trovare delle soluzioni per evitare questa sfortunata eventualità.

Il Bromely Museum è un museo periferico di Londra che l’Associazione Nazionale Piccoli Musei includerebbe sicuramente nella categoria dei “piccoli musei”. Claire descrive bene la sensazione di inferiorità che l’essere “piccoli” fa nascere in quelle situazioni in cui bisogna confrontarsi con la dura realtà dei “conti”, della “produttività economica” applicata spietatamente e indifferentemente tanto a istituzioni gigantesche come il British Museum quanto a musei periferici che non sono nati per fare grandi numeri ma che sono stati creati soprattutto per rendere vitale e produttiva la cultura locale con particolare attenzione agli aspetti educativi e sociali. Così racconta:

«Fa sorridere partecipare ad un dibattito sul futuro dei musei regionali, nel cuore di Londra.  Il Courtauld Institute of Art ha voluto dar vita ad un ampio dibattito per trovare una soluzione alla crisi dei musei regionali. (…) ». Il Bromely Museum si trova nella Greater London, fa notare Claire, la stessa contea in cui si trova quella Londra che catalizza gli enormi finanziamenti dell’ArtsCouncil. I musei regionali, invece, non riescono a trovare finanziamenti. «Ci si sente come se si stesse per entrare nel sancta sanctorum in cerca di risposte».

Claire sa che il suo intervento sarà preceduto da quello dei “decisori” e lei, un po’ intimidita, si sente come una “novizia” che cerca di scoprire i misteriosi meccanismi del mondo dei musei. Ascolta tutti gli interventi con molta attenzione e non tutto è piacevole da apprendere per chi sta dedicando tutta la propria vita a uno di questi musei apparentemente “perdenti”.

Qualcuno afferma che non si potrà evitare la chiusura di alcuni musei, che non si può indorare la pillola e che bisogna guardare in faccia la realtà, che la risposta non può essere la filantropia, che c’è bisogno di nuovi modi di fare le cose, nuovi modelli di business per portare avanti il cambiamento. Claire pensa che se si taglierà il personale tutto questo sarà molto difficile o si pensa di farlo con un museo condotto esclusivamente da volontari? Come soluzioni si suggeriscono la ricerca di finanziamenti attraverso l’adesione a progetti universitari oppure la dinamicità delle collezioni, con frequenti cambiamenti, grazie a partenariati e collaborazioni.

Tutte le soluzioni proposte, osserva Claire Madge, sono a lungo termine mentre c’è bisogno di soluzioni immediate per scongiurare la chiusura dei musei regionali. Alla fine il colpo di grazia arriva dall’ultimo intervento, quello di Piotr Bienkowski, Museum Independent Consultant, il quale afferma che non tutti i musei dovrebbero rimanere aperti.  Se non riescono, quasi sempre la causa principale è la governance intrinsecamente debole e una scarsa comprensione degli aspetti finanziari della gestione.

Alla fine dell’intervento di Bienkowski, Claire si rende improvvisamente conto che tutto ciò che apprezza del Bromley Museum, il personale, il suo ruolo di volontaria, la sua fuga dalla realtà quotidiana, non sono più sufficienti per impedirle di vedere che il museo sta fallendo: questo, purtroppo, è il risultato di anni di declino. Da una indagine da lei condotta intervistando famiglie è risultato che il 90% di queste non sapeva dell’esistenza del museo. Nonostante ciò – riflette Claire – «io ho ignorato questo (…).  Ho lavorato spesso di sabato, i visitatori erano pochi e ancora ho scelto di non vedere.  Ho guardato ciò che c’era di buono, i progetti educativi, la passione del personale e mi sono rifiutata di vedere oltre. (…) Allora, qual è la risposta? Il Museo Bromley avrebbe potuto consolidare da solo il proprio “stato di salute” anni fa.  Avevamo bisogno di animare il dibattito sul cambiamento ben prima di arrivare sul ciglio del baratro.  Credo che sia stato Paul Greenhalgh a dire: “tenere aperta la porta è un lavoro per tutti noi e qualcosa che dovremmo fare insieme".  Ha ragione, naturalmente, ma abbiamo ancora bisogno di sapere come fare. Mentre lascio il dibattito, sento che stanno parlando di un altro museo sull'orlo della chiusura.  Il Bromley Museum non è l'unico e non sarà l'ultimo.  Ho imparato molto e mi è stata data una quantità enorme di spunti sui cui riflettere. Era ingenuo pensare che avrei trovato risposte immediate e soluzioni rapide.  Il dibattito mi ha fatto guardare la realtà alla luce fredda del giorno.  E forse questo è ciò che mi serviva più di qualsiasi altra soluzione».

Le conclusioni di Claire mi hanno indotta a tentare un confronto in particolare con la realtà del nostro Paese, tenendo conto che quando si parla di musei “in crisi” le situazioni sono le più varie e bisogna considerare le legislazioni, la natura giuridica, le finalità che si propone un museo e molti altri fattori discriminanti. In ogni caso ritengo che, pur nell’ambito di un necessario processo di autocritica (ed avendo ben presenti anche i casi - non pochi - di incuria da un lato e di vero e proprio abbandono da parte delle istituzioni dall’altro), le cause del “fallimento” di alcuni musei siano da ricercare non solo nelle responsabilità individuali e istituzionali, ma spesso nella inadeguatezza di un sistema generale di gestione che ha troppo “uniformato” i musei rendendoli poco interessanti. Afferma a questo proposito, Giovanni Pinna:

«(…) Ormai, nelle sale espositive di queste istituzioni, non sono più gli specialisti del museo che parlano al pubblico, ma anonime équipes specializzate nella realizzazione delle esposizioni, mentre il rapporto con il pubblico, la realizzazione delle guide o l’organizzazione delle manifestazioni pubbliche sono affidati ai cosiddetti “servizi culturali” che, di norma, operano autonomamente rispetto alla struttura scientifica dell’istituto. Il risultato di questa separazione è stato un inevitabile appiattimento dei contenuti delle esposizioni del museo e del loro significato culturale, poiché équipes specializzate nella didattica espositiva non possono che uniformarsi a un modello generale, che, proprio in quanto generale, non è mai rappresentativo di una specifica cultura. Il museo ha perso allora la propria conoscenza e la propria individualità a favore di questo modello generale, con il risultato finale che nei suoi rapporti con il pubblico ogni museo è divenuto uguale a ogni altro museo. Io ritengo che una delle ragioni dell’attuale debolezza politica e sociale dei musei – una debolezza pericolosa poiché conduce inevitabilmente il museo stesso a una debolezza finanziaria e quindi culturale, e la società alla perdita delle proprie radici – risieda nella separazione dei ruoli che porta alla perdita della cultura individuale di ciascun museo».

E in effetti, se pensiamo ai casi di “piccoli musei” di successo che sono a me famigliari grazie al mio lavoro nell’ambito dell’Associazione Nazionale Piccoli Musei, si può constatare che si tratta sempre di musei con una spiccata individualità e originalità: penso al Museo del Bottone di Santarcangelo di Romagna, al Museo della Bora di Trieste, al Museo del Precinema di Padova, solo per citarne alcuni e senza nulla togliere a numerosi altri che potrebbero essere citati come esempi.

E’ necessario ripartire, dunque, dal dato di fatto che i musei hanno bisogno di uscire da un anonimato imposto da metodi di gestione troppo uniformanti, in cui talvolta, soprattutto nel caso di reti e sistemi museali (quando sono organizzazioni rigide, con un'unica fonte di comunicazione, un unico sito uguale per tutti, stessa pianificazione delle attività didattiche, ecc.), conta più la struttura amministrativa e burocratica che gestisce i musei che non il singolo museo. Ciò produce appiattimento e quindi incapacità di rendersi attraenti agli occhi del pubblico grazie alla valorizzazione delle proprie specificità, legate alla natura delle collezioni, al luogo cui si è legati, alla comunità di riferimento.

Poggiandosi su una base solida - cioè su questo presupposto fondamentale che richiede autenticità, radicamento territoriale, originalità - si potranno innestare, poi, altre soluzioni, non escluse quelle che provengono anche dal settore dell’economia e del marketing, che aiuteranno a fare chiarezza sui “punti deboli” che impediscono ai musei di esprimere le proprie potenzialità.

A questo proposito, afferma Giancarlo Dall’Ara: «Modello gestionale inadeguato può significare inoltre che il museo ha personale insufficiente o demotivato, o propone orari di visita o "politiche di prezzi" sbagliati, una organizzazione degli spazi “fredda”, asettica e non accogliente, o adotta modelli espositivi di difficile comprensione. Oppure ancora i problemi possono essere nell’assenza di nuove competenze professionali oggi assolutamente necessarie (web, accoglienza, narrazione…), o nella visione autoriferita di alcuni responsabili. In sostanza credo si possa affermare che in Italia non esistano luoghi privi di interesse o musei privi di “attrattori”, esistono invece problemi di gestione, di sedi museali inadeguate, di mancanza di passione, di conoscenze, di competenze, di visione, di risorse, di umiltà».

Se il mondo dei musei, per primo, deve affrontare un’approfondita autoanalisi, anche le istituzioni e la società non possono sottrarsi a questo processo: solo se l’intera collettività rispetterà i musei, i grandi quanto i piccoli, quali “produttori di cultura”, ogni strumento destinato ad aumentarne l’efficienza si mostrerà efficace, accrescendo anche l’attrattività dei musei nei confronti del pubblico. Se, al contrario, si perderà di vista questo compito primario dei musei, questi appariranno inevitabilmente sempre inferiori alle aspettative e la misurazione della loro efficienza resterà circoscritta quasi esclusivamente al conteggio dei biglietti venduti. Infatti, raramente, soprattutto a livello di informazione mediatica, si focalizza l’attenzione su altri aspetti determinanti, come la qualità dei programmi culturali ed educativi e la capacità di essere presenti nella vita della società. Ciò non vuol dire, come afferma Giancarlo Dall’Ara, che non ci si debba porre il problema dell’assenza o della diminuzione di visitatori, ovviamente in relazione al proprio potenziale bacino di utenza, ma questo aspetto va inquadrato in una più ampia e articolata valutazione di tutta l’attività promossa dai musei.

 “Il museo non è un’azienda” scriveva qualche anno fa Salvatore Settis per il quale “la vera "redditività" (…) non è negli introiti diretti e nemmeno nell'indotto che esso genera (incluso il turismo), bensì in un senso di appartenenza che incide a fondo sulla qualità della vita, e dunque anche sulla produttività della società nel suo insieme”.

E’ pur vero, però, che gli studi sul marketing museale nel frattempo si sono evoluti e dopo una prevalente attenzione per le tecniche che miravano ad aumentare fatturato e utili, si concentrano, ora, sulla ricerca di soluzioni che siano in grado di creare autentico valore per il visitatore (Vittorio Falletti, I musei, 2012, p. 129).

Nel nuovo marketing l’attenzione è più focalizzata sulle persone, sulla cura delle relazioni interpersonali, sulle opinioni, sui “luoghi” intesi come insieme di tradizioni e di cultura locale ma non solo, anche come spazi virtuali di condivisione (social media, ecc.). Esso si propone di creare esperienze di vita conformandosi ai desideri della gente e, in base a questo, cerca di creare prodotti che rispecchino quelle esigenze e aspettative. Da questa filosofia anche il mondo dei musei potrà attingere strategie e idee.

Oltre ai doveri tradizionali del conservare, esporre, educare, i musei oggi hanno assunto altri generi di responsabilità rivolte, per esempio, all’inclusione sociale (quindi alla ricerca dei pubblici solitamente esclusi dalla fruizione museale), all’armonia sociale (diventando luoghi di incontro, di conoscenza reciproca e di dialogo) e alla promozione territoriale (quando sono mediatori di azioni sinergiche finalizzate a valorizzare le ricchezze culturali ed economiche).
Trovare un punto di incontro tra il desiderio di rendere più “attrattivi” i musei, il dovere di non snaturarne le funzioni primarie e l’assunzione di nuovi compiti, è l’unico modo possibile per non perdere pezzi importanti del nostro patrimonio museale lungo il cammino.

Standards sì o no?

L'interessante punto di vista di Giovanni Pinna che alcuni anni fa commentava l'utilità dell'imposizione di norme o della standardizzazione anche delle professioni museali, soprattutto in relazione alle caratteristiche specifiche dei musei del nostro Paese.

Nel primo articolo di questo numero di Nuova Museologia, Maurizio Maggi contrappone due approcci al museo mutuati dalla biologia, un approccio riduzionista, che considera il museo immutabile e tende a identificare le regole che stanno alla base della sua natura e quindi del suo funzionamento, e un approccio che interpreta invece il museo come un sistema complesso, in equilibrio instabile poiché in continua interazione con l’ambiente. Il favore di Maggi va al museo inteso come struttura complessa, ed egli ne deriva da un lato la convinzione che sia più utile chiedersi “non cosa sia un museo ma cosa faccia un museo”, dall’altro l’inutilità di predeterminare meccanicisticamente il suo futuro con l’imposizione di norme, quali standard museali e codificazioni delle professioni.
Io ho più volte espresso l’idea che i rapporti complessi esistenti fra il museo, il territorio sociale, la pluralità di forze intellettuali interne all’istituzione fanno sì che ogni museo sia strutturalmente e culturalmente diverso da ogni altro museo e che non possa dunque esistere un modello standard di museo. Inoltre ho sempre sostenuto che anche la professione museale non è standardizzabile, non può cioè essere insegnata a priori, e che la professionalità viene acquisita all’interno del museo, nei rapporti quotidiani con le collezioni, con i colleghi e con il pubblico. È dunque naturale che io condivida l’approccio non riduzionista al museo di Maggi e che sia portato a minimizzare l’importanza di documenti, quali le norme di indirizzo e la recente carta delle professioni prodotta dalle associazioni museologiche nazionali, il cui pericolo consiste nella loro applicazione acritica, cosa che ho già visto apparire qua e là nel mondo delle amministrazioni pubbliche.
La carta delle professioni in particolare mi induce ad alcune riflessioni. L’ICOM Italia e alcune altre associazioni professionali hanno prodotto una proposta indubbiamente completa, costata fatica e applicazione, ma non priva di alcune debolezze di fondo, prima fra tutte il fatto che essa non è il risultato di una riflessione sulla specificità della realtà museale italiana, ma il tentativo di applicare ai nostri musei il modello anglosassone. Ciò porta all’inapplicabilità quantitativa e qualitativa: in Italia non esistono infatti strutture museali complesse che necessitino di una estrema separazione dei compiti come quella ipotizzata dalla proposta; la nostra realtà è invece fatta di musei di medie dimensioni – inoltre tradizionalmente carenti di personale – nei quali le diverse professionalità museali devono assumere in se stesse una pluralità di compiti. L’analisi dei compiti previsti per le 20 diverse figure professionali proposte rende evidente che la carta non è la summa di esperienze dirette nella gestione di musei complessi pluridisciplinari ma il prodotto di una compilazione teorica, e che non ha alla sua base una verifica sperimentale. Non si spiegherebbe altrimenti l’esistenza di figure professionali le cui responsabilità si accavallano e possono generare così conflitti di competenza.
Il lavoro museale è un lavoro articolato che prevede azioni importanti, quali tutela delle collezioni, creazione del patrimonio culturale e comunicazione dei suoi significati, azioni che non possono essere suddivise fra personalità professionali diverse senza andare incontro al rischio di una frammentazione dell’azione complessiva del museo: la grandezza culturale del modello italiano e di altri Paesi dell’Europa continentale risiedeva proprio nella riunione di tutte le funzioni principali del museo nell’unica figura del conservatore, cui si vuole ora sostituire la frammentazione del modello anglosassone. Se il fine è l’abdicazione dei nostri modelli, allora si vada fino in fondo: nella carta nazionale delle professioni museali manca l’ethics adviser, che nel museo è colui che veglia affinché la manipolazione dei resti umani e degli oggetti di culto sia conforme alle regole morali delle diverse confessioni ed etnie.
G. Pinna, "Il dio della museologia genera mostri" in Nuova Museologia, n°14, giugno 2006

Il caso dell’Art Institute of Chicago: fuori tutti i volontari bianchi dal museo

Fonte dell'immagine: The Federalist Negli Stati Uniti, presso l’Art Institute of Chicago (AIC) si è aperto un caso che potrebbe essere d...