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Quale futuro per i musei civici e per i piccoli musei?

A proposito della creazione dei poli e dei sistemi museali regionali 

Un articolo di Ledo Prato del 26 febbraio scorso, comparso su Il Giornale delle Fondazioni, fa il punto sul futuro che potrebbe attendere i musei civici italiani a seguito della Riforma Franceschini. Vorrei esporre qui alcune mie considerazioni in merito all’argomento trattato. Quando si parla di politiche museali che propongono modalità di accentramento delle scelte gestionali e culturali, mi invade un vivo senso di preoccupazione in quanto il rischio è sempre quello di una perdita della capacità di produrre cultura in modo indipendente e senza i filtri di organi istituzionali sovrastanti. Non intendo dire, con questo, che i sistemi museali siano una scelta sempre negativa, ma dipende da che cosa si intende con questo termine. Se significa essere inquadrati in un rigido sistema gestionale che impone solo standard generali e che inibisce le iniziative dei singoli, allora ritengo che i sistemi museali siano una scelta negativa; se invece sono utili soprattutto per dare vita ad occasioni di confronto e a progetti comuni, nel rispetto delle individualità e delle autonomie di ciascuna istituzione museale aderente, allora ben venga questa soluzione. Nell’articolo di Prato si parla della possibilità di un accorpamento dei musei locali ai Poli regionali, i quali - si legge - “possono favorire le relazioni con le diverse forme di autonomia che hanno assunto i musei civici e porre le basi per la realizzazione di politiche museali territoriali che ricompongono l’offerta a vantaggio dei cittadini e dei visitatori”. I Poli, in realtà, saranno inevitabilmente organismi fortemente accentratori, "la cui costituzione sarà promossa e realizzata dai direttori dei poli museali regionali sulla base di modalità di organizzazione e funzionamento del sistema museale nazionale stabilite dal Direttore generale Musei, sentito il Consiglio superiore “Beni culturali e paesaggistici” (vedi decreto musei). Non sembra poi così improbabile che un museo locale, inglobato in una struttura così complessa, gestita da una tale pluralità di soggetti, avrebbe poco margine di manovra e vedrebbe fortemente ridotta la propria indipendenza scientifica, culturale e gestionale. Oltretutto non è chiaro se tale soluzione porterebbe effettivi benefici dal punto di vista finanziario dato che nell’articolo di Ledo Prato si legge espressamente che sarà opportuno il ricorso alle associazioni e al volontariato “per la gestione dei servizi destinati alla fruizione e valorizzazione dei beni culturali, attraverso lo strumento delle convenzioni”. Mi chiedo, allora: qual è la novità? I musei civici non sono forse quasi sempre gestiti in economia dagli enti locali con il supporto del volontariato? Se questo è ciò che prevede l’appartenenza ad un Polo, si deve pensare che i vantaggi da questo punto di vista sarebbero pari a zero. 

Si specifica, poi, che “con atti successivi è possibile che siano meglio definiti i “servizi strumentali comuni destinati alla fruizione e alla valorizzazione di beni culturali” e si capirà se in questo contesto si potranno immaginare accordi che contemplino l’affidamento congiunto fra musei statali e musei civici dei servizi al pubblico (ex legge Ronchey) o quali saranno le procedure attraverso le quali si potrà pervenire alla costituzione di uffici comuni, obiettivo già inseguito senza successo nelle riforme a cavallo fra i due decenni che ci hanno preceduto”. Questo è l’aspetto più preoccupante della visione che viene prospettata nell’articolo di Prato. Sebbene in ambito statale si sia constatato che l’affidamento a società esterne dei servizi al pubblico ha prodotto quella nefasta divisione tra tutela e valorizzazione e, in generale, un appiattimento delle proposte culturali ed educative dei singoli musei, si vorrebbe includere anche i musei locali in questa strategia che ha già mostrato molti lati negativi. Ciò è paragonabile a voler annullare le singole voci di un coro che può essere melodioso solo se ogni corista potrà esprimere le proprie specifiche vocalità e tonalità. Può esserci bellezza in un suono piatto e indifferenziato? 

Continuando la lettura dell’articolo, a un certo punto l’Autore fa riferimento ai piccoli musei affermando che “per lungo tempo è prevalsa l’idea che occorresse una specifica politica per i piccoli musei e, in qualche caso, si è sostenuto che fosse necessaria una legislazione speciale che ne rispettasse le specificità. Probabilmente poteva essere una strada utile. Ma in un Paese dove tutto si ritiene che possa essere affrontato e risolto con il ricorso alla produzione di nuove leggi, con tutto ciò che ne consegue, dubito che sarebbe stata o sia una strada efficace”. Ora, chi ha seguito il dibattito museologico di questi ultimi anni sulle tematiche che riguardano i piccoli musei, sa che l’Associazione Nazionale Piccoli Musei fondata da Giancarlo Dall’Ara è stata la prima a focalizzare l’attenzione generale sulla necessità di una specifica politica per i piccoli musei. Stiamo parlando degli ultimi sei anni e bisogna anche precisare che finora nulla è stato fatto, a livello ministeriale, per discutere le proposte avanzate dall’Associazione. Non si può dire, quindi, che si tratti di un argomento ormai superato perché, al contrario, chi segue i convegni nazionali dell’APM sa che è ancora molto vivo e sentito e che si è tuttora in attesa dell’auspicato, diretto confronto tra le Istituzioni e i musei di ogni forma giuridica. Finché tutto ciò non sarà attuato, dunque, non è lecito affermare che la questione è ormai vecchia e superata. Certamente ritengo che, per i motivi sopra espressi, la soluzione ai problemi di gestione non possa essere la creazione di “reti museali di area vasta” e l’istituzione di “forme consortili non imprenditoriali per la gestione di uffici comuni” perché, al contrario di quanto prevede Prato e nonostante le migliori intenzioni dei legislatori, temo che proprio questo potrebbe invece marginalizzare i piccoli musei, in particolare quei musei che risultano “poco produttivi” dal punto di vista economico, dimenticando che i risultati che un museo deve garantire, in particolare un piccolo museo situato in aree poco interessate da grandi flussi turistici, devono piuttosto riguardare non il numero di biglietti staccati ma l’efficacia della sua azione culturale, educativa e sociale in seno alla propria comunità. Ciò può essere assicurato solo da professionalità che siano fortemente integrate nel tessuto sociale in cui operano, che siano in grado di conoscere profondamente le problematiche e le aspettative della comunità e che quindi sappiano adeguare le finalità del museo alle specifiche situazioni socio-ambientali. 
A che cosa potrà servire, allora, l’appartenenza ad un polo museale e la conseguente imposizione di direttive a istituzioni museali completamente diverse tra loro per tipo, forma giuridica e dimensioni? Si finirà con il peggiorare le stesse difficoltà che finora sono emerse con l’applicazione di standard generali a modelli museali eterogenei, alla fine privilegiando sempre la grande dimensione rispetto alla piccola. Da ciò era nata l’esigenza di normative specifiche per i piccoli musei che è stata appunto rimarcata dall’Associazione Nazionale Piccoli Musei.

Ritengo, dunque, che non si possa fare una proposta di tale impatto per il futuro dei piccoli musei e liquidare le criticità che potranno presentarsi lasciando al dopo “tutte le questioni sul futuro dei musei, sul loro ruolo, sulle innovazioni possibili, sul rapporto con i territori e le comunità, sul ruolo dei visitatori e così via”. Tutto questo, invece, deve essere discusso prima di ogni tentativo di riforma in modo da non incorrere in errori che potrebbero essere fatali per il futuro delle piccole realtà museali del nostro Paese.

Kenneth Hudson non sbagliava quando diceva che i grandi musei dovrebbero comportarsi come un insieme di musei piccoli perché aveva intuito che un museo di piccole dimensioni presenta dei vantaggi che ancora oggi troppo spesso la politica tende non solo a sottovalutare ma, ancora peggio, a considerare un problema, indirizzando così le proprie decisioni non verso la valorizzazione dei piccoli musei ma verso una loro trasformazione in musei grandi, accorpando, centralizzando, snaturandone l’essenza stessa e la vocazione.
Ci sono ambiti che non possono essere gestiti con una mentalità da banchiere. Sono quegli spazi, come i musei, che appartengono di diritto alla comunità ed è principalmente in ragione di questo legame che devono essere studiate le soluzioni più idonee. Se molti musei rischiano la chiusura è perché non si è lavorato per “essere amici del pubblico”, per riprendere un’altra frase di Kenneth Hudson. Tutto il resto è secondario, a cominciare dal numero dei visitatori che sembra essere la preoccupazione maggiore delle politiche culturali di sempre. Quando si inizierà a parlare meno di numeri e più di progetti realizzati, saremo sulla buona strada.

Come si salva un museo?

Dalla lettura di un post di Claire Madge, dal blog Tincture of Museum, alcune riflessioni sulla crisi dei musei




In questi giorni mi è capitato sotto gli occhi un articolo di Claire Madge, laureata in storia, bibliotecaria e volontaria in alcuni musei di Londra, tratto dal suo blog Tincture of Museum. In questi anni, Claire, già convinta sostenitrice dell’importanza dei musei per lo sviluppo intellettivo e psicologico dei bambini, quando è diventata mamma di una bambina autistica si è molto interessata alle tematiche che riguardano la cura dei bambini autistici con il supporto delle attività museali. Dopo aver lasciato il suo lavoro di bibliotecaria, ha scelto di entrare come volontaria in tre musei: il Museum of London l’Horniman Museum, come volontaria in progetti rivolti a migliorare l’accessibilità del museo per vari tipi di disabilità, e infine il Bromely Museum, in cui, dopo un inizio come volontaria generica, è riuscita ad inserirsi nei progetti che riguardano l’apprendimento e la partecipazione del pubblico. Purtroppo uno di questi musei, il Bromely Museum, rischia di chiudere e nell’articolo cui ho fatto cenno, la Madge riporta i punti essenziali di un dibattito cui ha partecipato e che avrebbe dovuto trovare delle soluzioni per evitare questa sfortunata eventualità.

Il Bromely Museum è un museo periferico di Londra che l’Associazione Nazionale Piccoli Musei includerebbe sicuramente nella categoria dei “piccoli musei”. Claire descrive bene la sensazione di inferiorità che l’essere “piccoli” fa nascere in quelle situazioni in cui bisogna confrontarsi con la dura realtà dei “conti”, della “produttività economica” applicata spietatamente e indifferentemente tanto a istituzioni gigantesche come il British Museum quanto a musei periferici che non sono nati per fare grandi numeri ma che sono stati creati soprattutto per rendere vitale e produttiva la cultura locale con particolare attenzione agli aspetti educativi e sociali. Così racconta:

«Fa sorridere partecipare ad un dibattito sul futuro dei musei regionali, nel cuore di Londra.  Il Courtauld Institute of Art ha voluto dar vita ad un ampio dibattito per trovare una soluzione alla crisi dei musei regionali. (…) ». Il Bromely Museum si trova nella Greater London, fa notare Claire, la stessa contea in cui si trova quella Londra che catalizza gli enormi finanziamenti dell’ArtsCouncil. I musei regionali, invece, non riescono a trovare finanziamenti. «Ci si sente come se si stesse per entrare nel sancta sanctorum in cerca di risposte».

Claire sa che il suo intervento sarà preceduto da quello dei “decisori” e lei, un po’ intimidita, si sente come una “novizia” che cerca di scoprire i misteriosi meccanismi del mondo dei musei. Ascolta tutti gli interventi con molta attenzione e non tutto è piacevole da apprendere per chi sta dedicando tutta la propria vita a uno di questi musei apparentemente “perdenti”.

Qualcuno afferma che non si potrà evitare la chiusura di alcuni musei, che non si può indorare la pillola e che bisogna guardare in faccia la realtà, che la risposta non può essere la filantropia, che c’è bisogno di nuovi modi di fare le cose, nuovi modelli di business per portare avanti il cambiamento. Claire pensa che se si taglierà il personale tutto questo sarà molto difficile o si pensa di farlo con un museo condotto esclusivamente da volontari? Come soluzioni si suggeriscono la ricerca di finanziamenti attraverso l’adesione a progetti universitari oppure la dinamicità delle collezioni, con frequenti cambiamenti, grazie a partenariati e collaborazioni.

Tutte le soluzioni proposte, osserva Claire Madge, sono a lungo termine mentre c’è bisogno di soluzioni immediate per scongiurare la chiusura dei musei regionali. Alla fine il colpo di grazia arriva dall’ultimo intervento, quello di Piotr Bienkowski, Museum Independent Consultant, il quale afferma che non tutti i musei dovrebbero rimanere aperti.  Se non riescono, quasi sempre la causa principale è la governance intrinsecamente debole e una scarsa comprensione degli aspetti finanziari della gestione.

Alla fine dell’intervento di Bienkowski, Claire si rende improvvisamente conto che tutto ciò che apprezza del Bromley Museum, il personale, il suo ruolo di volontaria, la sua fuga dalla realtà quotidiana, non sono più sufficienti per impedirle di vedere che il museo sta fallendo: questo, purtroppo, è il risultato di anni di declino. Da una indagine da lei condotta intervistando famiglie è risultato che il 90% di queste non sapeva dell’esistenza del museo. Nonostante ciò – riflette Claire – «io ho ignorato questo (…).  Ho lavorato spesso di sabato, i visitatori erano pochi e ancora ho scelto di non vedere.  Ho guardato ciò che c’era di buono, i progetti educativi, la passione del personale e mi sono rifiutata di vedere oltre. (…) Allora, qual è la risposta? Il Museo Bromley avrebbe potuto consolidare da solo il proprio “stato di salute” anni fa.  Avevamo bisogno di animare il dibattito sul cambiamento ben prima di arrivare sul ciglio del baratro.  Credo che sia stato Paul Greenhalgh a dire: “tenere aperta la porta è un lavoro per tutti noi e qualcosa che dovremmo fare insieme".  Ha ragione, naturalmente, ma abbiamo ancora bisogno di sapere come fare. Mentre lascio il dibattito, sento che stanno parlando di un altro museo sull'orlo della chiusura.  Il Bromley Museum non è l'unico e non sarà l'ultimo.  Ho imparato molto e mi è stata data una quantità enorme di spunti sui cui riflettere. Era ingenuo pensare che avrei trovato risposte immediate e soluzioni rapide.  Il dibattito mi ha fatto guardare la realtà alla luce fredda del giorno.  E forse questo è ciò che mi serviva più di qualsiasi altra soluzione».

Le conclusioni di Claire mi hanno indotta a tentare un confronto in particolare con la realtà del nostro Paese, tenendo conto che quando si parla di musei “in crisi” le situazioni sono le più varie e bisogna considerare le legislazioni, la natura giuridica, le finalità che si propone un museo e molti altri fattori discriminanti. In ogni caso ritengo che, pur nell’ambito di un necessario processo di autocritica (ed avendo ben presenti anche i casi - non pochi - di incuria da un lato e di vero e proprio abbandono da parte delle istituzioni dall’altro), le cause del “fallimento” di alcuni musei siano da ricercare non solo nelle responsabilità individuali e istituzionali, ma spesso nella inadeguatezza di un sistema generale di gestione che ha troppo “uniformato” i musei rendendoli poco interessanti. Afferma a questo proposito, Giovanni Pinna:

«(…) Ormai, nelle sale espositive di queste istituzioni, non sono più gli specialisti del museo che parlano al pubblico, ma anonime équipes specializzate nella realizzazione delle esposizioni, mentre il rapporto con il pubblico, la realizzazione delle guide o l’organizzazione delle manifestazioni pubbliche sono affidati ai cosiddetti “servizi culturali” che, di norma, operano autonomamente rispetto alla struttura scientifica dell’istituto. Il risultato di questa separazione è stato un inevitabile appiattimento dei contenuti delle esposizioni del museo e del loro significato culturale, poiché équipes specializzate nella didattica espositiva non possono che uniformarsi a un modello generale, che, proprio in quanto generale, non è mai rappresentativo di una specifica cultura. Il museo ha perso allora la propria conoscenza e la propria individualità a favore di questo modello generale, con il risultato finale che nei suoi rapporti con il pubblico ogni museo è divenuto uguale a ogni altro museo. Io ritengo che una delle ragioni dell’attuale debolezza politica e sociale dei musei – una debolezza pericolosa poiché conduce inevitabilmente il museo stesso a una debolezza finanziaria e quindi culturale, e la società alla perdita delle proprie radici – risieda nella separazione dei ruoli che porta alla perdita della cultura individuale di ciascun museo».

E in effetti, se pensiamo ai casi di “piccoli musei” di successo che sono a me famigliari grazie al mio lavoro nell’ambito dell’Associazione Nazionale Piccoli Musei, si può constatare che si tratta sempre di musei con una spiccata individualità e originalità: penso al Museo del Bottone di Santarcangelo di Romagna, al Museo della Bora di Trieste, al Museo del Precinema di Padova, solo per citarne alcuni e senza nulla togliere a numerosi altri che potrebbero essere citati come esempi.

E’ necessario ripartire, dunque, dal dato di fatto che i musei hanno bisogno di uscire da un anonimato imposto da metodi di gestione troppo uniformanti, in cui talvolta, soprattutto nel caso di reti e sistemi museali (quando sono organizzazioni rigide, con un'unica fonte di comunicazione, un unico sito uguale per tutti, stessa pianificazione delle attività didattiche, ecc.), conta più la struttura amministrativa e burocratica che gestisce i musei che non il singolo museo. Ciò produce appiattimento e quindi incapacità di rendersi attraenti agli occhi del pubblico grazie alla valorizzazione delle proprie specificità, legate alla natura delle collezioni, al luogo cui si è legati, alla comunità di riferimento.

Poggiandosi su una base solida - cioè su questo presupposto fondamentale che richiede autenticità, radicamento territoriale, originalità - si potranno innestare, poi, altre soluzioni, non escluse quelle che provengono anche dal settore dell’economia e del marketing, che aiuteranno a fare chiarezza sui “punti deboli” che impediscono ai musei di esprimere le proprie potenzialità.

A questo proposito, afferma Giancarlo Dall’Ara: «Modello gestionale inadeguato può significare inoltre che il museo ha personale insufficiente o demotivato, o propone orari di visita o "politiche di prezzi" sbagliati, una organizzazione degli spazi “fredda”, asettica e non accogliente, o adotta modelli espositivi di difficile comprensione. Oppure ancora i problemi possono essere nell’assenza di nuove competenze professionali oggi assolutamente necessarie (web, accoglienza, narrazione…), o nella visione autoriferita di alcuni responsabili. In sostanza credo si possa affermare che in Italia non esistano luoghi privi di interesse o musei privi di “attrattori”, esistono invece problemi di gestione, di sedi museali inadeguate, di mancanza di passione, di conoscenze, di competenze, di visione, di risorse, di umiltà».

Se il mondo dei musei, per primo, deve affrontare un’approfondita autoanalisi, anche le istituzioni e la società non possono sottrarsi a questo processo: solo se l’intera collettività rispetterà i musei, i grandi quanto i piccoli, quali “produttori di cultura”, ogni strumento destinato ad aumentarne l’efficienza si mostrerà efficace, accrescendo anche l’attrattività dei musei nei confronti del pubblico. Se, al contrario, si perderà di vista questo compito primario dei musei, questi appariranno inevitabilmente sempre inferiori alle aspettative e la misurazione della loro efficienza resterà circoscritta quasi esclusivamente al conteggio dei biglietti venduti. Infatti, raramente, soprattutto a livello di informazione mediatica, si focalizza l’attenzione su altri aspetti determinanti, come la qualità dei programmi culturali ed educativi e la capacità di essere presenti nella vita della società. Ciò non vuol dire, come afferma Giancarlo Dall’Ara, che non ci si debba porre il problema dell’assenza o della diminuzione di visitatori, ovviamente in relazione al proprio potenziale bacino di utenza, ma questo aspetto va inquadrato in una più ampia e articolata valutazione di tutta l’attività promossa dai musei.

 “Il museo non è un’azienda” scriveva qualche anno fa Salvatore Settis per il quale “la vera "redditività" (…) non è negli introiti diretti e nemmeno nell'indotto che esso genera (incluso il turismo), bensì in un senso di appartenenza che incide a fondo sulla qualità della vita, e dunque anche sulla produttività della società nel suo insieme”.

E’ pur vero, però, che gli studi sul marketing museale nel frattempo si sono evoluti e dopo una prevalente attenzione per le tecniche che miravano ad aumentare fatturato e utili, si concentrano, ora, sulla ricerca di soluzioni che siano in grado di creare autentico valore per il visitatore (Vittorio Falletti, I musei, 2012, p. 129).

Nel nuovo marketing l’attenzione è più focalizzata sulle persone, sulla cura delle relazioni interpersonali, sulle opinioni, sui “luoghi” intesi come insieme di tradizioni e di cultura locale ma non solo, anche come spazi virtuali di condivisione (social media, ecc.). Esso si propone di creare esperienze di vita conformandosi ai desideri della gente e, in base a questo, cerca di creare prodotti che rispecchino quelle esigenze e aspettative. Da questa filosofia anche il mondo dei musei potrà attingere strategie e idee.

Oltre ai doveri tradizionali del conservare, esporre, educare, i musei oggi hanno assunto altri generi di responsabilità rivolte, per esempio, all’inclusione sociale (quindi alla ricerca dei pubblici solitamente esclusi dalla fruizione museale), all’armonia sociale (diventando luoghi di incontro, di conoscenza reciproca e di dialogo) e alla promozione territoriale (quando sono mediatori di azioni sinergiche finalizzate a valorizzare le ricchezze culturali ed economiche).
Trovare un punto di incontro tra il desiderio di rendere più “attrattivi” i musei, il dovere di non snaturarne le funzioni primarie e l’assunzione di nuovi compiti, è l’unico modo possibile per non perdere pezzi importanti del nostro patrimonio museale lungo il cammino.

A Viterbo il Quinto Convegno Internazionale dei Piccoli Musei



Il 26-27 settembre, a Viterbo, presso il Museo Nazionale Etrusco, Rocca Albornoz, si svolgerà il Quinto Convegno Internazionale dei Piccoli Musei organizzato dall’Associazione Nazionale Piccoli Musei (APM) con il patrocinio del Comune di Viterbo, della Provincia di Viterbo e con la collaborazione della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale e dell’Incubatore Culturale ICult- BIC Lazio.
Collaborano all’organizzazione dell’evento la Società Archeoares, l’associazione Archeotuscia e l’associazione Historia.
La prima giornata del convegno, venerdì 26, avrà inizio alle ore 15.00, la seconda giornata, sabato 27, alle ore 9.00.
Negli anni precedenti i convegni annuali dell’APM si sono svolti a Castenaso (BO), a Battaglia Terme (PD), ad Amalfi (SA), e ad Assisi (PG).
Ad ogni edizione hanno partecipato specialisti del settore dei musei, del turismo, della comunicazione e dell’economia per discutere e per confrontarsi su tematiche inerenti i piccoli musei o i cosiddetti musei “minori”, ma che in ogni Paese del mondo rappresentano una realtà importante (in Italia sono il 90% dei musei) e molto spesso il tessuto culturale più vivo e più vicino alle comunità. E’ importante che i piccoli musei non siano considerati “copie ridotte” dei grandi musei, ma istituzioni con proprie caratteristiche specifiche, i cui punti di forza sono soprattutto la capacità di essere accoglienti e di essere luoghi culturalmente e socialmente vivificanti dei territori cui appartengono.
Si tratta dell’unico convegno, in Italia e in Europa, dedicato espressamente ai piccoli musei, e del secondo nel mondo insieme al convegno dell’organizzazione statunitense Small Museums Association.
Quest’anno, in occasione del Convegno di Viterbo si avranno due importanti novità: la prima è l’apertura al confronto con le realtà museali estere. 
Giungerà a Viterbo dal Brasile una delegazione dell’Instituto Brasileiro de Museus-IBRAM e, dalla Slovenia, la Dott.ssa Aleksandra Nestorović, curatore della sezione archeologica del Pokrajinski muzej Ptuj (Museo regionale di Ptuj - Ormož).  
Gli ospiti stranieri saranno presenti a Viterbo dal 23 settembre per partecipare al convegno e per compiere un viaggio tecnico di conoscenza dei metodi di gestione dei musei di Viterbo e del suo territorio, in particolare del Sistema museale del Lago di Bolsena. L’APM è in contatto con la rete museale spagnola RED CIE della regione andalusa, la quale invierà un messaggio di saluto in questa occasione.
La seconda novità è un evento che sarà collegato al convegno ma che abbiamo voluto dedicare in modo specifico a Viterbo: il Focus Tuscia, una vetrina delle eccellenze, dei prodotti e delle attività culturali ed editoriali del territorio viterbese. Il Focus Tuscia avrà inizio alle ore 15.00 del 27 settembre, subito dopo la chiusura della seconda giornata del convegno, e si svolgerà presso la sede dell’Incubatore Culturale ICult-BIC Lazio. Alle 17.00 è previsto un seminario/incontro con i direttori dei musei della Tuscia.

Il sito web del Quinto Convegno dei Piccoli Musei: http://quintoconvegnoapm.weebly.com

Il sito web ufficiale dell’Associazione Nazionale Piccoli Musei: http://piccolimusei.weebly.com

MUSEI E LAVORO


 Una guida alle opportunità di lavoro, di stage e di formazione nel mondo museale italiano ed estero.

Da oggi è possibile ordinare il volume "Musei e lavoro" anche presso le librerie Feltrinelli e, come sempre, attraverso il sito http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=1020190

Dieci tesi sui piccoli musei e…un invito al Ministro della Cultura, Massimo Bray

Quelle che espongo qui, di seguito, sono dieci tesi elaborate dal Prof. Giancarlo Dall'Ara, fondatore e presidente dell'Associazione Nazionale Piccoli Musei, riguardo gli obiettivi che ci poniamo come associazione e che suggeriamo alle Istituzioni di prendere in considerazione affinché il nostro più vasto patrimonio museale, costituito da centinaia e centinaia di musei di piccole e medie dimensioni sia adeguatamente valorizzato e sia messo in condizione di essere il propulsore culturale ed economico per il benessere delle nostre comunità e per lo sviluppo dei nostri territori. 

Fonte: http://www.piccolimusei.com, sito ufficiale dell'APM




1. Il 90% dei musei italiani è di piccola e piccolissima dimensione…

2. …eppure le norme sono sempre concepite a misura dei musei di grande dimensione. E’ stato creato un “museo astratto” che in realtà non c’è.

3. Perciò, a causa di queste norme, per il Ministero e le Regioni, la metà dei musei italiani non esiste. 

4. Il problema dei musei italiani non è la promozione o la pubblicità, ma la gestione. In particolare occorre pensare a competenze e modelli gestionali diversi da quelli attuali e che siano più adatti alla piccola dimensione.. 

5. Il volontariato può fare molto per i musei, ma va incentivato e formato. 

6. Piccola dimensione non significa solo disporre di spazi limitati, ma poter allacciare legami più stretti con il territorio e la comunità locale. Quindi la “piccola dimensione” è un “grande valore” da promuovere!

7. L’11 e il 12 novembre ad Assisi si incontrano i piccoli musei italiani per discutere tutti questi temi. Il Ministero non ha ancora partecipato ai nostri Convegni. Ministro Bray, perché non viene a sentirci?

8. Se verrà, si accorgerà che il ruolo dei Piccoli Musei è fondamentale, che i musei non sono fatalmente destinati a chiudere, e che anzi il loro sviluppo è possibile…

9. …se verrà, si accorgerà che talvolta le Istituzioni non sanno aiutare i musei a nascere e a crescere, e non di rado addirittura complicano la loro esistenza…

10. …se verrà, si accorgerà che tra i musei italiani ce ne sono molti che hanno idee, competenze e progettualità nuove, finalizzate al loro sviluppo e a quello dei territori in cui sono ubicati.

Prof. Giancarlo Dall’Ara
Presidente dell’Associazione Nazionale Piccoli Musei

TUTTI I BOTTONI DEL MONDO

Intervista a Giorgio Gallavotti, fondatore e direttore del Museo del Bottone di Santarcangelo di Romagna


Intervista realizzata da Caterina Pisu

I bottoni hanno sempre avuto un fascino particolare su di me, fin da quando ero bambina, quasi quanto le palline colorate degli alberi di Natale. D’altra parte i bottoni sono sempre stati i giocattoli dei bambini di tante passate generazioni, quando la fantasia non era ancora stata rimossa dal frastuono alienante dei videogiochi. Pertanto, quando ho iniziato la mia collaborazione con l’Associazione Nazionale Piccoli Musei, circa due anni fa, è stata una piacevole sorpresa scoprire che tra i nostri soci più attivi vi è il direttore del Museo del Bottone di Santarcangelo di Romagna, Giorgio Gallavotti. Ho fatto la sua conoscenza ad Amalfi, lo scorso novembre, in occasione del terzo convegno nazionale dei Piccoli Musei, dove Gallavotti - che è intervenuto ad ogni nostro convegno, fin dalla prima edizione - era presente insieme alla gentilissima signora Giulia. Mi ha colpita la sua affabilità, quei modi così educati e perbene che ricordano i tempi di una volta. Deve esserci uno stile che accomuna coloro che nella loro vita si occupano o si sono occupati di bottoni, perché il mio pensiero corre subito ad un ugualmente distinto signore di Viterbo (la città dove vivo), proprietario di un’antica merceria in piazza delle Erbe, che è una delle persone più garbate che io conosca. Anche Giorgio Gallavotti ha venduto bottoni nel negozio paterno, aperto nel lontano 1929. Nel 2002 ha cessato l’attività commerciale e ha potuto dedicarsi a tempo pieno al suo progetto: il Museo del Bottone. L’idea di un museo comincia a concretizzarsi nel corso degli anni Ottanta, ma quello che possiamo definire il “concept”, cioè il soggetto del nucleo narrativo del museo, ha avuto una definizione più graduale ed è nata dagli studi che Gallavotti ha dedicato, in tanti anni, alla storia del bottone. I magazzini del negozio paterno potevano contare su una collezione di circa 8.500 bottoni che abbraccia quasi tutta la storia del Novecento, pertanto l’idea è stata quella di raccontare la storia attraverso i bottoni. I bottoni, come le tendenze della moda, sono cambiati nel corso degli anni e possono parlarci dei mutamenti della società, delle rivoluzioni delle tradizioni e dei costumi, ed anche delle singole storie delle persone. E in effetti il museo può essere “letto” attraverso vari percorsi di visita che spaziano dalla storia delle due guerre mondiali alle dittature del Novecento, dall’emancipazione femminile alle Olimpiadi, ed altri ancora che ricordano le tappe più importanti della nostra storia e della storia mondiale, come il boom economico degli anni ’50, la crisi degli anni di piombo, la fine della guerra fredda. Non mancano bottoni che parlano anche di periodi più antichi che risalgono fino al 1600- 1700-1800. Tutto l’allestimento è stato creato con infinita pazienza dallo stesso Gallavotti, che ha cucito i bottoni sui pannelli e li ha incorniciati per il museo definitivo che è stato aperto nel 2008.
Il museo attira moltissimi visitatori (sta per raggiungere i 200.000 ingressi dalla sua apertura, non pochi per un piccolo museo) e bisogna anche dire che è uno dei pochi musei privati ad ingresso gratuito. Forse proprio per questo è diventato innanzitutto uno dei musei più cari ai cittadini di Santarcangelo di Romagna, che ne sono giustamente orgogliosi.
Ma come mai un piccolo museo come il Museo del Bottone riesce ad attirare tanto interesse intorno a sé? Il merito deve essere attributo alle sue collezioni? All’allestimento? Alla capacità di accogliere i visitatori? Probabilmente da tutte queste cose insieme, unite ad un’ottima capacità comunicativa che vede il museo al passo con i tempi, presente sul web con un sito ufficiale, un blog, e con un’intensa attività anche sui social networks. Questa è una strategia che funziona e un modello dal quale dovrebbero trarre insegnamento tanti professionisti museali che sono molto meno sensibili sia all’arte dell’accoglienza che a quella della comunicazione. Ma, come afferma Giancarlo Dall’Ara, fondatore dell’Associazione Nazionale Piccoli Musei, ogni museo ha anche una sua personalità che è definita da un insieme di fattori e dalle precise scelte di chi lo amministra. E allora, per cercare di capire qual è la personalità del Museo del Bottone, ho intervistato il suo creatore e direttore, Giorgio Gallavotti, che oltre a dirigere il Museo è anche, come già accennato, un profondo conoscitore della storia dei bottoni (è autore del volume “Bottoni. Arte, moda, costume, società, seduzione, storia”, Editore Pazzini). Dall’intervista sono emerse una sensibilità e una consapevolezza della pratica professionale del museologo che a volte non riscontriamo in coloro che sono specializzati nella materia.

Giorgio Gallavotti

- Giorgio, che cosa c’è della tua famiglia e, in particolare, dell’eredità morale di tuo padre, in questo museo?
L’eredità morale che mio padre mi ha lasciato è impagabile: “l’onestà e il rispetto di tutti”. Questi, in quei tempi, erano i principi cardine di ogni persona, e mio padre, nato nel 1901, mi ha trasmesso quei valori col suo esempio e col suo comportamento nella vita di tutti i giorni. Vicesindaco di Santarcangelo nei primi anni Cinquanta, non ha mai preso una lira per lo svolgimento delle sue funzioni. Se doveva recarsi fuori dal comune, adoperava i mezzi pubblici e se li pagava di tasca propria.
Soprattutto non dimenticherò mai il suo esempio sul lavoro. Dopo la seconda guerra mondiale, con la ripresa delle attività, mio padre è andato a Milano, alla prima fiera campionaria del dopoguerra. Ha comperato dei matassoni di filo di vari colori da 500 metri per cucire a mano e a macchina. Bisognava fare delle spolette da 100 metri, che era la misura delle confezioni standard, avvolgendo il filo su dei cartoncini arrotolati. In questo modo le sarte, o chi aveva bisogno del filo per cucire, poteva avere la quantità che occorreva dato che le confezioni standard di fabbrica non si trovavano più o erano nascoste per il mercato nero. La misura doveva essere precisamente di 100 metri, perché se qualcuno avesse avuto voglia di controllare e fosse risultato un metro in meno, sarebbe stato un grande disonore per la famiglia e per il negozio. Nonostante tutto, alla fine ebbe la beffa dello Stato: dovette pagare i profitti di guerra.

Giacomo, padre di Giorgio Gallavotti, ritratto nella sua merceria


- Che cos’erano i profitti di guerra?
Finita la guerra e con la ripresa dell’economia, chi aveva la merce da vendere, generalmente ne approfittava per venderla molto più cara e magari sottobanco per guadagnare di più. Questo aveva fatto fiorire il mercato nero con la realizzazione di profitti ricavati in maniera non lecita. Lo Stato, allora, pretese una tassa forfettaria su questi introiti da tutti, sia da quelli che erano stati onesti che da quelli che non lo erano stati. Questi erano i cosiddetti “profitti di guerra”.

La merceria dei Gallavotti negli anni Sessanta

Il negozio nel 1970


L'interno del negozio negli anni Settanta


- Che parte hanno avuto i tuoi famigliari in questo progetto?
Nello svolgimento della loro attività di merceria, i miei genitori hanno conservato sempre tutte le rimanenze in un  magazzino, soprattutto i bottoni che, formando molte giacenze, hanno costituito il nucleo originario della collezione del Museo.
La cosa più importante è che i miei genitori hanno sempre avuto fiducia in me. Già ventenne mi hanno dato la possibilità di gestire il negozio assieme a loro lasciandomi la responsabilità per quanto riguardava gli assortimenti. La cosa che mi piaceva di più era comperare i bottoni:  sceglievo i più all’avanguardia nella moda e anche i più costosi. Il bello è che avevano successo e il nostro negozio era sempre pieno di sarte.
La mia famiglia all’inizio mi lasciava fare e non mi ha mai ostacolato nella progettazione del Museo. Dopo la prima mostra, nel 1991, visto il successo, hanno capito che facevo sul serio. Pian piano sono diventati solidali e mio genero ha anche creato il primo sito internet del Museo. Ora mia moglie, che odiava la storia e i bottoni, è diventata una brava guida molto apprezzata dai visitatori. Nei momenti di necessità, quando ci sono raduni e feste al Museo, e abbiamo necessità di più personale, anche mia figlia si attiva e spesso prepara il buffet e lo serve.

- Qual è stato il complimento ricevuto da un visitatore che ti ha fatto più piacere?
Con 200.000 visitatori i complimenti sono tantissimi e tutti graditi. Sono il cibo dell’animo. Per non fare torto a nessuno ne cito uno di un visitatore particolare. Per me è stato dolcissimo e mi ha fatto scendere  una lacrima: «Caro nonno il tuo museo è molto bello. La tua parola non è una parola ma una storia lunghissima». Allora la mia nipotina aveva 8 anni.

File di bottoni in vendita nella merceria di famiglia, chiusa nel 2002.


- Se tu avessi a disposizione ingenti risorse, pari a quelle dei più grandi musei del mondo, cambieresti qualcosa nel tuo museo o pensi che nulla dovrebbe essere modificato?
Troppo bello avere ingenti risorse. L’unica cosa che non cambierei è il luogo dove ora si trova il Museo, un posto strategico per il Museo ma soprattutto per il turismo santarcangiolese.
Preciso che l’allestimento attuale è molto soddisfacente e anche pratico per i visitatori. Ma…cercherei di comperare od affittare il locale vuoto sopra il Museo; di ricavare uno spazio per la sezione dei materiali, della biblioteca e una sala per le conferenze per svolgervi anche le lezioni agli alunni delle scuole e per la formazione dei giovani che in futuro saranno il personale qualificato che gestirà il Museo.
Se potessi disporre di personale altamente qualificato nel Museo, avrei più tempo per scrivere e per le mie ricerche sul mondo dei bottoni; potrei aumentare i contatti con le scuole e così potrei portare il Museo nelle aule attraverso le mie visite nelle scuole; potrei soddisfare più spesso le richieste di conferenze.
Rifarei tutto l’allestimento della sezione curiosità dal mondo, creando spazi più ampi fra i quadri e migliorando la disposizione cronologica che abbraccia l’arco di tempo 1600-1700-1800; inoltre disporrei luci mirate sui pezzi più pregiati e farei creare un dvd su di essi che potrebbe essere visionato in uno spazio apposito del Museo. 
Rimodernerei  la zona gift shop e book shop, dove sono disponibili due libri di cui sono l’autore, quadri di bottoni, bottoni, cartoline, manifesti ecc. ecc., che  ci permettono di sopravvivere. Tutto il materiale in vendita riguarda il Museo.

Visitatori affollano l'ingresso del Museo del Bottone


- Chi è, per te, una persona che varca la soglia del tuo museo?
Le persone che entrano nel Museo per me all’inizio sono tutte uguali, ma tutte diseguali.
Ognuna ha le sue caratteristiche, la sua cultura, il suo modo di vedere  le cose, ma soprattutto quasi tutti non pensano che dietro ad un bottone vi possa essere tanta storia, arte e cultura. Ognuno ha la sua visione, che è quella della sua intelligenza, della sua cultura e della sua sensibilità, e allora qui comincia la sfida. Innanzitutto, cerco di capire che tipo di persona ho davanti a me. Mi adeguo ai suoi desideri, al modo in cui preferisce svolgere la visita: ascoltando, osservando con attenzione e ascoltando con interesse i riferimenti alla storia, all’arte ecc. ecc.; oppure svolgendo la visita in modo meno impegnativo e più ludico. Interagendo con tatto e descrizione, riesco quasi sempre a meravigliarlo sul grande contenuto culturale che rappresenta il Museo del Bottone, ma anche su quanta strada ha fatto nel mondo. Così quando esce è soddisfatto di averlo visitato, mi rivolge tanti complimenti e  spesso scrive una dedica sul libro delle firme. Questo visitatore diventerà una fonte di pubblicità con il passaparola.

- Parliamo, ora, delle tue strategie di comunicazione. Sei molto attivo sia nel tuo blog, http://ibottonialmuseo.blogspot.it/, che sulla tua pagina Facebook. Che cosa significa, per te, essere comunicativo sul web? Riuscire a mantenere viva l’attenzione nei confronti del museo? Cercare di attrarre un maggior numero di visitatori? Mantenere i contatti con chi ha già visitato il museo? Migliorare l’informazione sul museo o che cos’altro?
La risposta a queste domande può essere solo una: il contatto è la cosa più importante nella vita. La vita è la vita degli uomini con gli uomini, non con le cose. Nelle relazioni ciò che conta è l’incontro. Mantenendo viva l’attenzione sul Museo si possono attrarre nuovi visitatori. E’ necessario rendere continuamente disponibili le informazioni sulle attività e sulle conquiste del Museo. E’ importante mantenere i contatti con i visitatori. Ma c’è anche un altro aspetto:  proprio il fatto di aver mantenuto continuamente viva l’informazione con i comunicati stampa attraverso i mass media,  ha  fatto sì che il Museo fosse conosciuto non solo in Italia ma anche nel resto del mondo. Questo ha portato sviluppi positivi per il Museo. Un esempio: nel 2010 Elena Chahanova giornalista accreditata a Radio Nazionale Bulgaria in Italia, ha parlato del Museo  del Bottone. Da quel momento abbiamo sempre mantenuto i contatti attraverso internet e questo ha fatto si che ne abbia parlato ancora, alla vigilia di Natale del 2012.

- Che cosa attrae, in particolare, i bambini e giovani che visitano il tuo museo? Hai ideato strumenti adatti a questa fascia di utenti per facilitare e rendere più coinvolgente la loro visita al museo?
I bambini, furbi ed intelligenti, sono una fonte di gioia. Spesso prima parlo con loro e li porto a vedere  i quadri che a loro piacciono, per esempio Biancaneve e i sette nani, Pinocchio e un quadro particolare dove vi sono bottoni degli anni Ottanta che rappresentano case, conigli, gelati, farfalle ecc. ecc. Di solito io indico loro un oggetto ma dicendo il nome sbagliato. Loro mi correggono subito e ridono; allora io, imperterrito, sbaglio tutti i nomi e loro si divertono un mondo. Alla fine regalo loro bottoncini di varie forme, soprattutto a forma di cappellino, di pallone, di coccinella, di mela o a forma di cuore. Quando, poi, incomincio a parlare coi  genitori, anche loro seguono tutto il percorso stando molto attenti e io continuo a sollecitare la loro attenzione.
I giovani o i ragazzini di 14-16 anni che vengono a visitare il museo, di solito sono coppie di “morosini” (fidanzati, NdR). All’inizio sono sempre timidi e premurosi, poi nel corso della visita perdono la timidezza e apprezzano tantissimo le storie dei bottoni. Spesso racconto loro le storie della seduzione e della provocazione che hanno come protagonisti i bottoni, e loro si accorgono di ascoltare quelle cose che provano realmente quando sono da soli. In omaggio offro loro fiori, bottoni Swarovski e cuoricini, che sono sempre graditissimi, e alla fine sul libro delle presenze scrivono frasi come: «qui si entra come in una favola e non viene mai la voglia di uscire…».

Bottoni esposti nel Museo


- Quali sono i Paesi da cui provengono maggiormente i visitatori stranieri? Si tratta di visite programmate o casuali?
In assoluto il Museo del Bottone è visitato dai turisti tedeschi che sono, per l’80%, gruppi prenotati accompagnati dalla loro guida.
Quest’anno, dal 3 marzo 2013, il movimento dei tedeschi è stato di 100-150 presenze al giorno per  quattro giorni alla settimana. Nella classifica seguono i francesi, i russi, i belgi, inglesi e gli statunitensi. Meno numerosi, invece, i visitatori provenienti dai paesi ex Urss, Norvegia, Olanda, Spagna, Canada, Argentina, Brasile, Cina, Giappone, sud est asiatico e stati africani.
Sul libro delle firme  le nazioni straniere conteggiate sono 120, provenienti da tutti i cinque continenti del Mondo. Il 50% dei francesi e dei russi arrivano in gruppi prenotati, accompagnati dalla loro guida. Altri giungono in piccoli gruppi autonomi e altri ancora, questo è importante, accompagnati da ex visitatori o amici e parenti. Il bottone come incontro fra le varie culture del mondo!

- Nel tuo museo in che modo metti in pratica i principi dell’accoglienza di cui tanto discutiamo nei nostri convegni dell’Associazione Nazionale Piccoli Musei?
Credo in parte di aver già risposto a questa domanda. E’ l’attenzione per i desideri della gente, accoglierli come quando arriva a casa un amico. La scalinata davanti al Museo è piena di manifesti sul Museo stesso. L’ampia porta a vetri è sempre aperta e da fuori si può intravedere l’esposizione: questo incuriosisce la gente che si chiede cosa potrà mai dire un bottone. L’ingresso gratuito è scritto ben visibile sulla bacheca esterna.
La guida, che ha il cartellino di riconoscimento come guida volontaria, accoglie il visitatore con un buon giorno, un sorriso ed una battuta spiritosa che mettono subito a proprio agio i visitatori, informando anche che si può fotografie. La guida, poi, costruisce un percorso comunicativo che emoziona il visitatore con  riferimenti al territorio e alla realtà culturale che ospita il Museo. Non lo sollecitiamo assolutamente a comperare libri, cartoline, bottoni ecc. ecc. sebbene la visita comprenda anche lo spazio allestito per l’acquisto di libri e souvenir. L’unica cosa che chiediamo è la firma di presenza per le statistiche.
Vi sono a disposizione, gratuitamente, fogli illustrativi che raccontano il Museo, cartoline con orari e foto del museo, brochures  complete di tutte le informazioni utili. Spesso alle signore e signorine riservo omaggi di bottoni particolari.

- Il tuo impegno è stato ed è supportato dalle istituzioni?
Pur avendone a disposizione, non mi hanno mai voluto concedere un locale. Sotto l’aspetto economico, dal maggio 2008 – primo giorno di apertura del Museo - al 31 dicembre 2012, le Istituzioni hanno contribuito al pagamento dell’affitto del locale per 5 mesi l’anno, ma quest’anno ancora non si sa che cosa succederà a causa della crisi e del sindaco dimissionario. Per il resto…la parola è d’argento ma il silenzio è d’oro!

- Se tu dovessi creare uno slogan per il tuo museo, così di getto, che frase ti verrebbe in mente?
«Un inno alla storia e all’arte», frase lasciata sul libro delle firme da un professore di storia della Università di Treviso, dopo una chiacchierata di due ore e mezzo, in un giorno di luglio, con 31 gradi di temperatura (la gente era tutta al mare), e che entrando aveva detto: «cosa può mai dire un bottone?»
La seconda opzione: «Il bottone, la memoria della storia».

- Grazie, Giorgio, per avermi concesso questa bellissima e coinvolgente intervista.
Ringrazio te, Caterina, per avermi fatto delle domande particolari che mi hanno permesso di scrivere sulla mia famiglia, ma soprattutto su mio padre a cui ho dedicato il mio primo libro del Museo. E’ un onore per il Museo del Bottone essere stato scelto per il tuo blog.
Permettimi, in conclusione, di fare dei ringraziamenti. In cinque anni di attività fissa il Museo ha raggiunto traguardi inimmaginabili per il numero delle visite, ben 200.000, ed è riuscito a farsi conoscere nel contesto nazionale e internazionale. Mi sento in dovere di rivolgere un ringraziamento particolare a tutti coloro cui debbo questo successo: ai soci dell’Associazione “Amici del Museo del Bottone”, all’Associazione “La Scatola dei Bottoni” e al suo presidente Sig.ra Lorena Ghinelli, che con i loro consigli e le loro osservazioni hanno dato un’impronta particolare alla conduzione  del Museo.
Ringrazio anche Claudia Protti che cura il blog “I bottoni al Museo”; le professoresse Ilaria Picardi e Chiara Marziani, per i contatti con l’Università della Moda di Rimini e per la creazione della pagina Facebook; il Prof. Giancarlo Dall’Ara, Presidente dell’Associazione Nazionale dei Piccoli Musei, che ha fatto del Museo dei Bottoni un’icona dei piccoli musei, portandola ad esempio in giro per l’Italia; la Pro Loco di Santarcangelo, con cui vi è un’ottima collaborazione; infine, le tante laureate che hanno svolto le loro tesi di laurea sul Museo del Bottone.
Ringrazio alcuni  di coloro che hanno portato il Museo in giro per il mondo: la giornalista bulgara di Radio Nazionale Bulgaria, Elena Chahanova, che ha raccontato il Museo attraverso le antenne di  radio nazionale; la giornalista cinese Pingsha Tian, che ha scritto sul Global Times di Pechino; la guida russa Yuri, che porta tantissimi turisti. Un grazie anche agli sconosciuti per il loro passaparola
Infine un particolare ringraziamento di cuore è per Caterina, per il suo impegno e dedizione per la conservazione del mondo della memoria. Grazie.



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Il Museo del Bottone si trova a Santarcangelo di Romagna, in provincia di Rimini.
Via Della Costa, 11
Tel. 0541624270


Aperto tutti i giorni dalle 10-12 15-18 orario invernale 10-12 16-18.30 21-23.30 orario estivo
Ingresso gratuito come la guida interna.

Offerta facoltativa per l'associazione no profit “La Scatola dei Bottoni” che cura la visibilità del Museo del Bottone.

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I racconti dei bottoni

Il Museo del Bottone ispira un libro di racconti di Silvio Biondi e Amedeo Blasi


di Caterina Pisu



I bottoni sono i protagonisti di una raccolta di nove racconti un po' surreali, divertenti, talvolta irriverenti, scritti da Silvio Biondi e Amedeo Blasi, due autori diversi per formazione e per professione, ma che insieme hanno saputo dare vita ai bottoni, immaginando "che i bottoni potessero parlare" - citando i due stessi scrittori - facendoli diventare piccoli "maestri di saggezza". Leggendo le pagine di questo volumetto mi sono affezionata ai singoli protagonisti: dal bottone papalino dell'"indeciso" e ambizioso Generale Zucchi al bottone di Papa Sisto V; dal bottone viterbese, ignorantello e anche un po' infame, ai bottoni rifugiati sul pianeta "Futuro Della Terra"; dal bottone del prete che vola sulla luna al bottone del ciabattino che diventa primo ministro e viene ucciso a causa del suo "brutto vizio" di fare del bene ai poveri. Per finire con il filo e bottone che litigano tra loro ma poi si accorgono di non poter fare a meno l'uno dell'altro, e con il "bottone volante" di Giorgio Gallavotti, che ci porta alle lontane origini del bottone. 
Da oggi in poi guarderò i bottoni con maggior rispetto perché in fondo è vero: loro, più o meno saldamente attaccati ai nostri abiti, sono i testimoni della nostra vita e chissà quante cose possono raccontare di ciascuno di noi!


Il tavolo di lavoro di Assisi in vista del convegno di novembre



Dal blog di Giancarlo Dall'Ara, Piccoli Musei: Piccoli Musei: Il tavolo di lavoro di Assisi in vista del convegn...

Assisi. Si è tenuto stamane il tavolo di lavoro regionale in vista del Convegno Nazionale dei piccoli musei, in programma a novembre. 40 i presenti nell'Aula Magna dell'Università (CST). Molti i temi affrontati e gli spunti in vista del convegno ( fare rete, turismo e territorio, normative, aspetti gestionali, buone prassi....). Molto anche l'interesse per l'iniziativa e per il ruolo che l'Associazione sta avendo in favore dei piccolo musei. Grazie a tutti.





p.s. non mancate al convegno di novembre e portate con voi la documentazione sul vostro museo.

Le nuove aspettative dei piccoli musei





L’Associazione Nazionale Piccoli Musei (APM) ha in preparazione, il 5-6 novembre 2012, ad Amalfi (SA), il Terzo Convegno Nazionale dei Piccoli Musei, un incontro tra professionisti del settore museale, amministratori locali e studiosi, che ha come oggetto l’individuazione di modelli di gestione e la formulazione di una “filosofia” specifica, più conforme alla natura e alle esigenze dei piccoli musei locali, dei loro pubblici e delle loro comunità di appartenenza. Nata in tempi recenti, l’APM, che ha già organizzato altri due convegni negli anni scorsi (a Villanova di Castenaso, in provincia di Bologna, nel 2010, e a Battaglia Terme, in provincia di Padova, nel 2011), si prefigge, nel concreto, di valorizzare le specificità dei piccoli musei incoraggiando un forte legame con i territori e, soprattutto, una particolare cura nel rendere la visita ai musei un momento di conoscenza ma anche di ristoro e di incontro con le tradizioni, la storia e la creatività locale. Rispetto ai grandi musei, infatti, i piccoli musei locali hanno la grande opportunità di poter dedicare tempo e attenzione ad ogni singolo visitatore, rendendo la visita un’esperienza unica. Tutto ciò deve realizzarsi, naturalmente, nell’ambito di un servizio altamente professionale, svolto da personale specializzato, come caldamente raccomandato dall’APM. Confrontando un piccolo con un grande museo, pertanto, non è la qualità del progetto museale o dei servizi offerti che cambia ma le modalità con cui ciò viene attuato. Giancarlo Dall’Ara, fondatore e presidente dell’APM, docente di marketing del turismo presso il Centro Italiano di Studi Superiori sul Turismo e sulla Promozione Turistica (CST) di Assisi, definisce questa nuova prassi, la “filosofia dell’accoglienza”. E’ necessario che i piccoli musei non abbiano più i grandi musei come modelli di riferimento e si liberino, pertanto, di ogni complesso di inferiorità, coinvolgendo le amministrazioni che hanno il potere decisionale affinché si comprenda che i musei rappresentano una leva importante anche nel meccanismo di riqualificazione economica dei territori. Secondo Dall’Ara, «i piccoli musei non sono e non vanno visti come una versione ridotta dei grandi e, anzi, proprio l’idea che i “piccoli” siano dei “grandi incompiuti” è il peccato originale che ha impedito a molti di loro di riuscire ad avere un legame più forte con il territorio di appartenenza, di sviluppare un maggior numero di visitatori e, in ultima analisi, di poter svolgere il proprio ruolo». Nel quadro di rinnovamento della visione di sé che i piccoli musei dovranno acquisire, la comunità di appartenenza avrà un ruolo fondamentale e dovrà essere l’oggetto primario degli interessi e delle funzioni del museo. L’organizzazione dei servizi, pertanto, dovrà riservare alla comunità una porta di accesso privilegiata (G. Dall'Ara), diversa da quella principale, doverosamente gratuita per i residenti, e dovrà curare attività specifiche espressamente dedicate ai locali, che siano ispirate dalla cultura e dalle tradizioni del luogo, rappresentando, nel contempo, le aspirazioni future della collettività.
Il prossimo 3° Convegno Nazionale sarà l’occasione per approfondire questi temi e per illustrare casi studio o esperienze locali particolarmente significative. Il programma prevede tre sessioni:

1. Piccoli Musei e Turismo;
2. Esperienze e buone prassi gestionali e di didattica museale;
3. I Musei fuori dai Musei. Esperienze di Rete tra Piccoli Musei e fonti di finanziamento.

Quanti sono i musei in Italia?


In Italia abbiamo 4.739 musei e istituzioni similari, dei quali:
399 Istituti statali,
198 Musei statali ,
201 Monumenti e aree archeologiche,
4340 Istituti dipendenti da altri soggetti pubblici e privati,
802 monumenti,
129 siti archeologici,
3.409 Musei (il 45% gestito dai Comuni)
(...) Dati Rapporto sul Sistema dei Beni Culturali di Fare Ambiente, 2011.
Personalmente penso che i musei in Italia siano molti di più, più del doppio del numero riportato, che immagino sia ufficiale.
Non vengono infatti rilevati come musei, tanti piccoli musei e collezioni che non rispondono a norme fatte non per loro, ma per i grandi musei.

Giancarlo Dall'Ara (dal blog Piccoli Musei)

Il caso dell’Art Institute of Chicago: fuori tutti i volontari bianchi dal museo

Fonte dell'immagine: The Federalist Negli Stati Uniti, presso l’Art Institute of Chicago (AIC) si è aperto un caso che potrebbe essere d...