Per amore dei musei



Il volontariato museale: una risorsa per la comunità o un ostacolo per l’occupazione?

di Caterina Pisu



Il volontariato culturale fa parte della storia recente, sebbene le prime esperienze si possano far risalire al XIX secolo, con la nascita delle Società di Mutuo Soccorso. Queste società, espandendosi rapidamente in molti Paesi europei, hanno presto aggiunto agli obiettivi prettamente sociali anche quelli ricreativi, culturali e sportivi. Tuttavia non si potrà ancora parlare di volontariato inteso in senso moderno almeno fino agli anni Settanta del secolo scorso, quando, grazie al clima di rivoluzione culturale di quel particolare periodo storico, si affermerà una presa di coscienza sempre più forte e diffusa dell’importanza dei beni culturali e, nello specifico, delle istituzioni museali. Ai giorni nostri, il volontariato museale costituisce, senza ombra di dubbio, una delle risorse più importanti per garantire la piena fruizione dei musei e la loro integrazione nel tessuto sociale. Da tempo si sono costituite associazioni nazionali ed internazionali che hanno lo scopo non solo di riunire coloro che si sono messi al servizio delle istituzioni museali di piccole e grandi città, ma anche quello di tracciare le linee guida e un codice etico dei volontari che ne uniformi e ne indirizzi correttamente l’attività, favorendo, nel contempo, anche le indispensabili occasioni formative all’interno delle istituzioni museali. Negli ultimi anni, inoltre, si sono moltiplicate le iniziative internazionali di promozione del volontariato: fra tutte cito il progetto biennale “VoCH - Volunteers for Cultural Heritage”, finanziato nell’ambito del Programma Europeo Lifelong Learning, che ha avuto inizio nel novembre del 2007. Il volontariato, tuttavia, se da una parte incontra l’attenzione delle istituzioni e il favore prima di tutto del pubblico dei musei, che può così contare sul supporto di personale adeguato, dall’altra è oggetto di diffidenza se non di aperta ostilità soprattutto da parte dei giovani laureati e dei lavoratori precari, a causa della convinzione che a un aumento dei volontari corrisponda una diminuzione delle opportunità di lavoro. Non sempre questa equazione corrisponde alla realtà ed è necessario, allora, fare una distinzione tra “lavoro gratuito” e volontariato, affinché non si creino rischi di confusione: un conto è il professionista che è “costretto” ad erogare i suoi servizi gratuitamente (come tanti direttori di musei locali, per esempio; mentre questo incarico, poiché comporta responsabilità elevate, dovrebbe essere sempre retribuito), un altro è il cittadino, semplice appassionato o professionista qualificato, che si mette al servizio della comunità per garantire una maggiore efficienza a determinati settori di un museo e che, quindi, può fregiarsi a pieno titolo della qualifica di volontario. Dunque sarebbe meglio dire, molto più correttamente: no allo sfruttamento del lavoro professionale. Il lavoro del volontario, non è una forma di sfruttamento dei lavoratori ma è sempre un servizio offerto a favore della comunità; in alcun caso dovrebbe sostituirsi o sovrapporsi a quello del personale inserito nell’organico del museo, ma dovrebbe essere sempre complementare ad esso, come recita, al punto 5.3, il Codice etico degli Amici e Volontari dei musei adottato in occasione del IX Congresso Internazionale degli Amici dei Musei, tenutosi a Oaxaca, in Messico, dal 21 al 25 ottobre 1996: Evitare sovrapposizioni. Gli amici e i volontari possono trovare negli ambiti d’intervento non affidati al personale permanente del museo un terreno privilegiato in cui esercitare le loro iniziative e devono prestare attenzione onde evitare che le loro attività non si sovrappongano a quelle esercitate dal personale responsabile. E’ vero che esistono ambiti, come quello archeologico, per esempio, in cui l’azione dei volontari è andata oltre l’impegno solidaristico, invadendo il settore della ricerca scientifica e della tutela (problema che è stato ben analizzato nel dossier “Il volontariato nel settore dei beni culturali” contenuto in “La laurea non fa l’archeologo”), ma nel caso del volontariato museale questo rischio è minore, tranne, forse, nell’ambito dei servizi didattici, dove la possibilità di una deprofessionalizzazione - cioè dell’impiego, al posto di specialisti retribuiti, di volontari senza adeguata preparazione nella materia - è un rischio concreto e necessita di una vigilanza costante (ricordo che per la Carta Nazionale delle Professioni Museali, approvata dalla II Conferenza dei musei italiani nel 2006, il responsabile dei servizi educativi e l’educatore museale sono due figure professionali che fanno parte dell’organico dei musei, pertanto i volontari possono affiancare e supportare questi ruoli ma non sostituirli). In ogni caso, l’esistenza di un codice etico che impone dei limiti ben precisi al volontariato museale è già un traguardo notevole anche se esso, da solo, non è sufficiente; è necessario anche alimentare il dibattito e il confronto tra le istituzioni e le forze sociali coinvolte, e sensibilizzare la comunità sull’importanza del volontariato e sul suo ruolo effettivo. In conclusione, più che volere, irragionevolmente, la soppressione del volontariato, bisognerebbe piuttosto esigere la vigilanza delle istituzioni su eventuali irregolarità. Vorrei anche ricordare che uno degli aspetti più importanti di questa forma di servizio pubblico è l’accrescimento del senso civico dei cittadini, il quale, in una società emancipata, non può in alcun modo essere inibito. E certamente chi ne invoca l’abolizione forse non si rende conto del reale significato che tale azione comporterebbe, impedendo la libera e attiva partecipazione dei cittadini alla vita culturale della propria comunità. Azione degna dei peggiori regimi autocratici! E’ giusto, invece, che questo diritto, espressione della libertà personale e dell’impegno civico di ciascuno (Art. 2 della Costituzione della Repubblica Italiana), sia sempre assicurato, e che, nel contempo, le istituzioni e gli enti locali favoriscano con eguale impegno il lavoro dei professionisti e quello dei volontari in un clima di reciproca e proficua collaborazione.


I musei delle favelas del Brasile: l'esempio del riscatto sociale attraverso la valorizzazione delle culture locali.

In Brasile, in questi ultimi anni, stanno avvenendo cambiamenti importanti per la pacificazione sociale attraverso la nascita dei musei del territorio. Nel 2008 è stato fondato il Museu de Favela-MUF,  un'organizzazione non governativa, creata dagli stessi abitanti delle favelas di Pavão, Pavãozinho e Cantagalo. 
Si tratta di un primo museo del territorio rivolto alla conservazione della memoria e del patrimonio culturale delle favelas, e infatti le collezioni di questo museo sono i circa 20 mila abitanti delle favelas e il loro modo di vivere e di esprimersi culturalmente, spesso sconosciuto al resto dei residenti della città di Rio de Janeiro.
Il museo del territorio delle favelas è situato sulle pendici scoscese del massiccio Cantagalo tra i quartieri di Ipanema, Copacabana e Lagoa, nella parte meridionale di Rio de Janeiro, in Brasile. Dispone di 12 ettari di terreno e di una grande ricchezza culturale. Sono 5300 gli edifici collegati tra loro da un dedalo impressionante di vicoli e scalinate. Dal punto di vista paesaggistico gode di una delle viste più affascinanti della meravigliosa città.
L'obiettivo della musealizzazione di quest'area della città è una grande sfida che attraverso il museo diffuso creerà i presupposti per uno sviluppo del turismo culturale, i cui azionisti saranno gli stessi residenti. 
Il MUF difende la dignità delle condizioni di vita locale e combatte la segregazione sociale delle baraccopoli che fino a pochi anni fa rappresentava un'emergenza sociale gravissima per il Brasile.
L'esempio del Brasile sarà importante anche per tante altre zone depresse e "ghettizzate" del mondo che potranno ritrovare la propria dignità riscoprendo dapprima essi stessi la propria cultura e facendola conoscere al resto del mondo. Solo così si potrà sperare nella fine dei conflitti sociali, donando la speranza in un futuro migliore.


I piccoli musei italiani incontrano i musei del Brasile



Da sinistra: Vanessa De Britto, José Do Nascimento Jr, Caterina Pisu, Maria Valentina Naves 
Sabato mattina si è svolto a Roma un incontro tra l'Associazione Nazionale Piccoli Musei, rappresentata da Caterina Pisu, e una delegazione dell'Instituto Brasileiro de Museus (IBRAM), guidato dal Presidente, José do Nascimento Jr., accompagnato da Vanessa De Britto, responsabile del settore relazioni internazionali dell'IBRAM, e Maria Valentina Naves, responsabile del settore comunicazione dell'IBRAM.  Il colloquio ha aperto prospettive di future collaborazioni e ha messo in luce una comune visione dei musei, soprattutto dei piccoli musei che anche in Brasile, come in Italia, rappresentano la parte più importante del patrimonio museale nazionale. Il 70% dei musei brasiliani, ci ha detto il Prof. José do Nascimento Jr., è costituito da piccoli musei. Abbiamo anche constatato che il Brasile è un Paese all'avanguardia nelle politiche di promozione e di valorizzazione dei musei. Più avanti riferiremo in modo più approfondito dei vari progetti che sono già in atto o che stanno per nascere, tutti rivolti a rafforzare il legame tra le comunità e i musei, al fine di custodire la memoria e sviluppare i territori anche in senso economico e sociale. La mattinata si è conclusa con la visita di un museo appartenente al Polo Museale universitario La Sapienza, il Museo Laboratorio di Arte Contemporanea, che sta mettendo a punto un software per la creazione di siti web per i piccoli musei.


Il caso dell’Art Institute of Chicago: fuori tutti i volontari bianchi dal museo

Fonte dell'immagine: The Federalist Negli Stati Uniti, presso l’Art Institute of Chicago (AIC) si è aperto un caso che potrebbe essere d...